Pier Luigi Nervi e la stagione del cemento armato
Non è per niente strano, al contrario di quello che in molti pensano, che una figura di prima grandezza come Pier Luigi Nervi (1891-1979) sia caduta per molti anni nel dimenticatoio. Si dice infatti che vent’anni sia il lasso di tempo consueto in cui un autore viene solitamente rimosso dopo la sua morte, ricorrenze a parte – chi non ha idee ha pur sempre anniversari da celebrare. Sviluppando un concetto freudiano, Cathy Caruth ha dimostrato invece come una forma di latenza appartenga costitutivamente all’esperienza storica ed è proprio perché ogni tradizione storica ha un momento di oblio e di rimozione che l’evento storico può essere veramente esperito e recuperato. Dunque la rimozione fa parte della memoria, agisce positivamente perché è proprio attraverso la momentanea inaccessibilità che la storia funziona. Altro che “ingiustamente trascurati” o, peggio ancora, “forgotten”, inservibili e ottusissime lagne! Bisogna piuttosto capire perché Nervi sia stato rimosso: certo, se la cultura italiana ha criminalizzato il cemento armato, da Pier Paolo Pasolini e Adriano Celentano fino al Fatto quotidiano passando per Italia Nostra, allora è abbastanza evidente perché il profilo storiografico del campione del calcestruzzo italiano non ne abbia tratto giovamento. La monografia di Gabriele Neri, Pier Luigi Nervi. L’arte del costruire (Hoepli, pp. 336, € 60) arriva dunque a tempo debito cioè lontano dagli anniversari, dopo il ventennio di oblio consueto post mortem e dopo un altro di rielaborazione collettiva.
Dopo il 2000 infatti si sono intensificati gli studi sui rapporti fra architetti e ingegneri, rapporti rimasti in secondo piano per tutta la metà del secolo scorso perché dominata da temi e questioni ideologiche nelle varie storie pubblicate da Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, Manfredo Tafuri ecc. Nel 1997, a sorpresa, un architetto che era stato parte attiva del clima ideologico degli anni ’60 e ’70 come Aldo Rossi, aveva firmato l’introduzione – forse l’ultimo scritto pubblicato in vita –in esergo a una nuova edizione di Scienza o arte del costruire?. Negli anni successivi architetti e ingegneri, in particolare Sergio Poretti, Tullia Iori e altri storici più giovani formatisi a Tor Vergata – uno dei tanti dipartimenti di Ingegneria edile tanto numerosi quanto quelli di architettura – hanno riletto e contestualizzato il lascito della scuola italiana del cemento armato che ha prodotto Riccardo Morandi, Arturo Danusso, Silvano Zorzi, Eugenio Miozzi, Sergio Musmeci, Franco Levi e altri. Com’è noto infatti la Francia e la Germania sono state legate alle tecniche di costruzione in ferro e acciaio, tecniche più adatte a contesti nordeuropei dove il costo della manodopera è più alto ed è dunque decisiva la velocità di assemblaggio: è così, per limitarsi al dopoguerra, che sono fioriti studi professionali come quello di Robert Le Ricolais (collaboratore anche di Louis Kahn) e Jean Prouvé in Francia, Ove Arup a Londra, Konrad Wachsmann e Frei Otto in Germania e poi l’irlandese Peter Rice così importante per la Sydney Opera House e per la concezione della gerberette in acciaio stampato nella struttura del Centre Pompidou di Piano&Rogers, o ancora l’angloindiano Cecil Balmond consulente di tutte le prime opere di OMA. Viceversa in Italia o in Spagna (Eduardo Torroja, Félix Candela), dove il costo della manodopera è sempre stato inferiore, ha prevalso il cemento armato che necessita di più tempo per essere modellato e indurito dopo essere stato gettato.
Lo stesso Neri, fra i più prolifici giovani storici italiani, segnala giustamente l’insuccesso di Nervi negli USA proprio per il lievitare esorbitante dei costi di cantiere che ostacola la carriera americana dell’ingegnere italiano. Neri si è occupato a più riprese di Nervi, curando anche le riedizioni dei suoi saggi circa dieci anni or sono per Clup e altri volumi per Mendrisio Academy Press che è una delle due università dove insegna. Neri lavora infatti a cavallo fra due discipline, architettura e disegno industriale, e fra due paesi, la Svizzera e l’Italia, si è formato al Politecnico di Milano con Fulvio Irace e ora insegna nell’altro Politecnico quello di Torino, città dove Nervi ha lasciato un segno profondo con gli edifici realizzati nel centenario dell’Unità d’Italia del 1961, oggi abbandonati e preda di video sensazionalisti a opera di rapper e trapper ansimanti che, volendo simulare la violenza tanto cara ai loro colleghi americani ben più celebri, girano videoclip in edifici per loro “brutalisti” e “inumani” di cui naturalmente non vogliono capire nulla come il Palazzo del Lavoro.
Il capitolo più divertente del libro è certamente il quinto “Nervi dopo Nervi”, da leggere subito per sgombrare il campo da superflue preoccupazioni storiografiche come appunto la rimozione – tutto viene rimosso se nessuno studia – e procedere così a ritroso. Un anno di particolare fioritura di studi su Nervi è stato il 2022: escono in italiano infatti il classico di Siegfrid Giedion, Costruire in Francia, costruire in ferro, costruire in cemento, (Quodlibet) con l’introduzione di Jean-Louis Cohen (Neri è stato suo assistente alla cattedra Borromini a Mendrisio nel 2016-2017) che delinea l’evoluzione della costruzione da ferro in cemento armato da François Hennebique ad Auguste Perret e Tony Garnier; Marzia Marandola e Marko Pogacnik, docenti all’Iuav, curano il volume L’ingegneria italiana del Novecento. Scuole e protagonisti (Mimesis) e il Museo Maxxi di Roma pubblica il catalogo della mostra omonima Technoscape. L’architettura dell’ingegneria, a cura di Maristella Casciato e Pippo Ciorra (Forma). In precedenza gli studi su Nervi e gli altri strutturisti coevi coordinati da Carlo Olmo a Torino erano usciti fra 2010 e 2013, ovvero a cavallo dell’anniversario per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Mentre Neri conseguiva il suo dottorato sotto la Mole, la figura di Nervi riemergeva allora come ora legata a un’immagine di campione nazionale del cemento armato, certo, ma anche come campione nazionale tout court visto il suo successo all’estero, gli insegnamenti tra Buenos Aires e Harvard, le copertine di riviste, gli incarichi in Australia e in Africa grazie anche ai rapporti con il Vaticano – Aula delle udienze pontificie (1963-71) – e le prestigiose collaborazioni con Marcel Breuer, Bernard Zehrfuss, Gio Ponti, Pietro Belluschi fra gli altri. Quando nel 2013 è stato nominato senatore a vita Renzo Piano, l’architetto figlio della “cultura politecnica milanese” e tra i più prossimi all’ingegneria visto che da giovane aveva eletto Nervi a «modello fondamentale», l’interesse pubblico verso l’architettura è aumentato.
Nel suo discorso d’insediamento al Senato Matteo Renzi citò il rammendo delle periferie di Piano e del suo laboratorio G124 come un punto qualificante dell’agenda di governo, conseguentemente la Direzione Generale Arte Architettura Contemporanee allungò il nome aggiungendo “e delle periferie”. Senza cemento, dunque, non ci può essere rammendo né riqualificazione né rigenerazione urbana: bisogna piuttosto capire come produrlo in maniera meno inquinante, ad esempio macinando le macerie prodotte sul posto dalla demolizione delle preesistenze. Insomma l’opera nerviana e dei suoi colleghi ha tratto giovamento da questa temperie politico-culturale. Neri è fin troppo attento a non uscire dal seminato della storia disciplinare, è l’unica piccola osservazione che ci permettiamo di muovergli, ma alcune curiosità restano: Nervi, protagonista dell’autarchia con i suoi brevetti patriottici del ferrocemento, cosa combina nei critici anni 1943-45, a parte prepararsi per la ricostruzione? È uno dei tanti “tecnici” che passa indenne il cambio di regime in nome della sua professionalità al di sopra della mischia, in questo è molto simile a Marcello Piacentini che, dopo i saldi legami col regime basati sull’urbanistica, ritorna sulla scena grazie come consulente tecnico per la salvaguardia dei beni architettonici del Vaticano e la vicinanza alla Democrazia Cristiana. Uno dei pregi del libro è quello di indicare con chiarezza l’abilità di Nervi nelle collaborazioni (anche questa piacentiniana), ovvero nel sommare la sua intelligenza a quella di altre figure di assoluto valore come Muggia o Gino Capponi talentuoso e sfortunato architetto proto-razionalista autore della palazzina in via Arnaldo da Brescia a Roma con la squisita scala elicoidale, quindi con Annibale Vitellozzi. Come a dire: il genio non esiste, il genio è sempre lavoro di squadra, somma di competenze diverse che poi è precisamente il lavoro dell’architetto.
In un’intervista delle teche Rai, Nervi cita un suo cugino orchestrale che lo invitò a un concerto di Arturo Toscanini: fu durante le prove alla Scala che Nervi capì come l’architetto dovesse essere un direttore d’orchestra in grado di armonizzare i diversi strumentali, ovvero i tecnici, che anche se bravissimi singolarmente possono sempre stonare in gruppo. Ecco perché è così importante ricostruire le reti delle collaborazioni anche di uno studio così familistico e patriarcale come quello di Nervi che impiega tre dei quattro figli, Antonio, Mario e Vittorio, ma anche ingegneri notevoli come Mario Desideri e Antonio Maria Michetti – ed è un peccato che manchi l’indice dei nomi per di più in un volume che costa 60 €. Fra le tante, spicca la collaborazione tra Nervi e il suo coetaneo Ponti e con Piacentini, di dieci anni più anziano: tutti professionisti rimossi per poi essere più o meno rivalutati a molti anni di distanza dalle rispettive morti. Mentre Ponti si laurea solo nel 1921 per via della I Guerra mondiale, cui prende parte, Piacentini e Nervi (esonerati entrambi dal servizio militare) sono infatti già attivi prima del conflitto, gli unici ingegneri-architetti (le facoltà di architettura nascono nel 1924) ad aver attraversato e costruito sotto i tre differenti regimi dell’Italia unita: la monarchia costituzionale, la dittatura fascista e poi la repubblica parlamentare.
Dopo un’infanzia assai movimentata fra la natia e cattolicissima Sondrio, la famiglia Nervi segue le sorti del padre impiegato presso le Regie Poste nelle città di mare di Savona e Ancona dove Pier Luigi frequenta il Rinaldini, unico liceo classico italiano intitolato a un matematico, e dopo il diploma nel 1908 si iscrive al Politecnico di Bologna forte della sua passione per la nascente aviazione, sebbene sia esonerato dal servizio militare per scarsa costituzione fisica. Nel capoluogo emiliano Nervi trova una grande scuola di scienza delle costruzioni, di poco precedente a quella meglio nota di Odone Belluzzi, formata da luminari triestini come Salvatore Pincherle e Giacomo Ciamcian, ma soprattutto il suo maestro, il veneziano Attilio Muggia, professore di Architettura tecnica, studioso delle grandi strutture in calcestruzzo dell’antica Roma e pioniere del cemento armato a Bologna con varie opere fra cui il rifacimento della sinagoga. L’enfasi sull’architettura monumentale perciò sarà mantenuto per tutta la carriera di Nervi e l’impronta di Muggia resterà indelebile: come lui fonda una società di costruzioni, come lui adotta e sviluppa brevetti cominciando a Firenze, come lui dà enfasi all’architettura più che all’ingegneria come lui si impegna attivamente nell’ordine professionale e dopo la II guerra mondiale, sempre come lui, si lega alla propria comunità religiosa, quella cattolico-democristiana – mentre Muggia muore nel 1936 poco prima delle leggi razziali essendo stato sempre attivo nella locale comunità israelitica.
All’inizio del libro Neri sottolinea la capacità di Nervi nel prendere le redini dell’ordine professionale agli inizi del fascismo, regime che li favorì usandoli a fine di consenso e controllo sociale fino a teorizzare il corporativismo di origine medievale. Certamente, come nota con una punta di malizia Neri, l’enfasi retorica sul valore dell’architettura serviva a Nervi come strategia per raggiungere un pubblico più vasto e generico rispetto a quello delle costruzioni, ovvero quello delle riviste borghesi dedicate alla casa come “Domus” e “La casa bella” entrambe del 1928, ma anche su quelle estere. L’abilità professionale di Nervi consisteva inoltre anche nell’essere impresario di sé stesso, ovvero di poter fornire sia il progetto sia la costruzione con una grande competitività sul mercato, legandosi a suo cugino Bartoli dal 1932, anticipando di decenni ad esempio ciò che John Portman ha realizzato ad Atlanta ovvero proponendosi come artista-architetto-costruttore ovvero un demiurgo. Eppure la modernità di Nervi, come ha notato Giulio Carlo Argan, non è cinica e sta nell’aver compreso fra i primi come le forme non siano mai il risultato di formule matematiche, «Il calcolo segue processi logici, mentre il processo dell’invenzione formale è notoriamente un processo d’intuizione».
Perciò era entrato a far parte del pantheon degli architetti dopo lo stadio di Firenze del 1929-32 intitolato al "Martire della Rivoluzione Fascista" Giovanni Berta, con l’accento futurista della torre Maratona, e soprattutto dopo il capolavoro delle aviorimesse prefabbricate di Orbetello destinate agli idrovolanti del Maresciallo dell’aria Italo Balbo – bombardate e distrutte, con grande pena di Nervi vista la passione giovanile per il volo, abbandonata sul nascere. Da notare come le aviorimesse siano stati anche il miglior progetto di Wachsmann, pioniere tedesco della prefabbricazione emigrato negli USA da Gropius dopo un lungo soggiorno romano negli anni ‘30. Invece nel dopoguerra Nervi dispiega le proprie ali di costruttore: nell’aprile del 1945 esce Scienza o arte del costruire? mentre sta compilando insieme con Mario Ridolfi (Pci), Luigi Piccinato (Psi) e Bruno Zevi (Partito d’Azione) e con Gustavo Colonnetti (Dc) il Manuale dell’architetto, prodotto dal Cnr, finanziato dallo United States Information Service e distribuito in decine di migliaia di copie a tutti i professionisti italiani che di fatto anticipa il Manuale Cencelli. Quindi Nervi lavora tantissimo per l’industria negli anni del miracolo economico: nella Bologna del Cardinal Lercaro copre centinaia di migliaia di metri quadrati con le strutture della Manifattura tabacchi, a Mantova realizza la cartiera Burgo che secondo Mario Botta è «un segno tecnico che si fa paesaggio», ottenendo un enorme eco internazionale: nel celebre volume inglese Italy builds / L’Italia costruisce di George E. Kidder Smith del 1955, su una cinquantina di opere presentate ben sette sono di Nervi; nello stesso anno pubblicava con Hoepli un volume dal titolo che non ammetteva repliche, Costruire correttamente, degno dell’ormai più noto progettista italiano al mondo, primo ingegnere che si era voluto fare architetto.
Zevi cercava in ogni modo di coinvolgerlo nell’Apao cioè di portarlo dalla sua parte e il suo amico e sodale veneziano Sergio Bettini si era spinto fino al punto di paragonare Nervi a Mies van der Rohe (accostamento che riprenderà solo Rossi decenni dopo), entrambi alla comune ricerca di un moderno kunstwollen: «la logica che pone le ipotesi spaziali e le controlla, è la logica della forma: il risultato dell’operazione è quindi un’opera d’arte […] Ambedue – Nervi e Mies – hanno in comune il principio a così dire neoplatonico […] secondo il quale l’architettura è costruzione di spazio, e l’ordinamento dello spazio è la geometria; e la sua prima manifestazione è la luce». Cocentissima fu invece la delusione zeviana per la collaborazione di Nervi con Piacentini, nemico assoluto, per il classicismo romano del Palazzo dello Sport all’Eur per le Olimpiadi del 1960 e per il monumentalismo del Palazzo del Lavoro a Torino del 1961, “inspiegabile” secondo Bettini – al contrario saranno proprio queste qualità che Rossi apprezzerà di più nell’opera nerviana. Il giovane Manfredo Tafuri si scagliò contro la “indifferenza” di Nervi verso la committenza democristiana perché le sue forme non sono sufficienti «a colmare il vuoto ideologico che si nasconde sotto la perfetta ideazione costruttiva di quelle coperture, non perdona l’avvallo dato con uno spazio anche emotivamente stimolante allo spreco inutile e criminoso di miliardi della bolsa parata scenografica di “Italia 61” » salvo poi ritrovarselo, anni dopo, come direttore di collana all’Electa e dover aggiustare il tiro.
Da un lato il successo professionale gli era rimproverato dagli accademici, come per Morandi, e perciò a Roma, a Valle Giulia, dal 1946 fino al pensionamento, Nervi continuò a insegnare, senza cattedra, come professore incaricato. Dall’altro la pragmatica impoliticità di Nervi o il suo costante atteggiamento filogovernativo gli era rimproverato dalle diverse anime della sinistra architettonica, compreso Vittorio Gregotti giunto alla parossistica posizione per cui Nervi non sarebbe mai stato parte del razionalismo italiano, nonostante Pier Maria Bardi ne avesse pubblicato svariati articoli su “Quadrante” e Giuseppe Pagano su “Casabella-Costruzioni”, eppure la Torre Pirelli la attribuiva solo a Nervi e non a Ponti verso cui il disprezzo era tale da disconoscergliene la co-paternità.
Nervi e Ponti, nati e morti nello stesso anno, hanno vissuto due esistenze parallele, uno a Roma e l’altro a Milano, condividendo le medesime critiche e una grande opera comune, il “Pirellone” che divenne immediatamente il simbolo più alto, in ogni senso, del boom economico italiano come testimoniato da Indro Montanelli sul Giornale nel 1977, «Chi arrivava a Milano, uscendo dalla stazione, se lo trovava di fronte, e gli sembrava la garitta di un cammino della speranza destinato a condurci chissà dove». Eppure le preoccupazioni più profonde di entrambi non erano materiali, bensì spirituali. Ponti, Mies e Nervi, cattolici con diverse sfumature: se la calma manzoniana di Ponti trovava conforto nel “troncare e sopire” dei Promessi sposi e quella olimpica di Mies nell’incessante rilettura di San Tommaso e Sant’Agostino, viceversa il frenetico attivismo di Nervi non si interrompeva nemmeno nella consueta villeggiatura estiva a Cortina dove non smetteva di disegnare e calcolare curvo sulla sdraio, trovando pace solo nello scrutare ciò che è al di là delle linee isostatiche e della geometria euclidea, vale a dire nello spazio che si fa luce che è al di là del sensibile dove, platonicamente, «sempre il dio geometrizza».