La Cecla: edificare e distruggere
“Posso condurvi sulle sponde di un lago montano? Il cielo è azzurro, l’acqua verde e tutto è pace profonda. I monti e le nuvole si specchiano nel lago, e così anche le case, le corti e le cappelle. Sembra che stiano lì come se non fossero state create dalla mano dell’uomo. (..) E tutto respira bellezza e pace…
Ma cosa c’è là? Una stonatura s’insinua in questa pace. Come uno stridore inutile. Fra le case dei contadini, che non da essi furono fatte, ma da Dio, c’è una villa. L’opera di un buono o di un cattivo architetto? Non lo so. So soltanto che la pace, la quiete e la bellezza se ne sono già andate.
Perché al cospetto di Dio non ci sono architetti buoni o cattivi. Davanti al suo trono tutti gli architetti sono uguali. (..) E io domando allora: perché tutti gli architetti, buoni o cattivi, finiscono per deturpare il lago? (..) E io chiedo nuovamente: perché un architetto, un architetto buono o un architetto cattivo, deturpa il lago? L’architetto, come quasi ogni abitante della città, non ha civiltà. Gli manca la sicurezza del contadino, che possiede invece una sua civiltà. L’abitante della città è uno sradicato”. (Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, 1972)
Cosa è successo negli ultimi due secoli che ancora brucia come ferita infetta al punto da condizionare le nostre vite e tutti gli ambienti che abitiamo nella maggior parte del mondo urbanizzato? La modernizzazione della quasi totalità del mondo, oltre ad avere innalzato l’età media, la scolarizzazione e l’oggettivo miglioramento delle nostre vite di cittadini privilegiati del primo e secondo mondo, aver prodotto due guerre mondiali e innumerevoli olocausti, ha insieme dato forma costruita a un paesaggio informe di architetture che rappresentano l’ambiente in cui vive quasi il 70% della popolazione mondiale. Quella casa sul lago progettata da un architetto moderno ancora ferisce i nostri occhi perché registra fisicamente e simbolicamente una rottura che si è consumata progressivamente a partire dal ‘700, con un ritmo crescente sorprendente e insieme drammatico.
Eppure quella casa sul lago è l’immagine immediata di un mondo che in due secoli è cresciuto da uno a otto miliardi di abitanti e della sfida di dare casa a tutti, rispondendo a una battaglia di civiltà che non ha eguali nella Storia dell’umanità.
Ammetto che ho affrontato la lettura del nuovo libro dell’antropologo Franco La Cecla con molta circospezione. Diffido, per carattere, di chi è sempre, o spesso, “contro”, come testimoniano alcuni dei titoli dei suoi lavori recenti, ma insieme ho sempre apprezzato la sua vena polemica, quasi urticante, in un mondo sempre più vellutato, anestetizzato e criticamente appiattito. La polemica è una forma di dialogo necessario a cui siamo sempre meno abituati, perché cresciuti come consumatori perfetti, senzienti, coccolati e quindi incapaci di un vero pensiero critico che costruisca alternative utili. Soprattutto questo momento storico così drammatico e in radicale metamorfosi chiama la discussione e la rilettura critica e politica della nostra Storia recente per immaginare, insieme, strumenti diversi per un mondo che sarà altro rispetto a quello che viviamo da alcuni decenni.
Per questa ragione è interessante leggere Addomesticare l’architettura. L’Occidente e la distruzione dell’abitare pubblicato recentemente da UTET, che continua idealmente altri due lavori di La Cecla e intitolati Contro l’architettura (2008) e Contro l’urbanistica (2015).
Questo lavoro solleva questioni delicate e urgenti perché risponde a una fase lunga di necessaria revisione critica e politica della modernizzazione in questi ultimi due secoli, della costruzione del suo mito e del suo progressivo frantumarsi sotto il peso delle contraddizioni e della violenza che ha saputo generare, soprattutto a danno delle fasce più fragili e periferiche della popolazione mondiale, oltre ad avere formato il nostro modo fisico e simbolico di abitare e trasformare il mondo che ci circonda.
Il volume è costruito intorno a due parti tematiche che necessariamente dialogano, una prima di critica feroce all’architettura moderna come materia e simbolo di una distruzione ambientale e sociale diffusa e pervasiva su scala globale, a cui segue una seconda parte in cui l’autore cambia tono narrativo, portandoci in una dimensione domestica necessaria, per individuare gli strumenti e gli anticorpi con cui reagire alla condizione che viviamo quotidianamente.
“L’architettura non è stata ancora investita da una critica della sua funzione di colonizzazione globale”. Questa considerazione elementare ma acuta si allinea con un dibattito in corso a livello internazionale sulle responsabilità politiche dell’architettura occidentale, bianca ed etero-normata nella costruzione ideologica e fisica della maggior parte degli ambienti abitati costruiti dal secondo dopoguerra su scala globale. Elemento di discussione che è stata almeno sollevato in due distinte Mostre Internazionali d’Architettura della Biennale di Venezia, la prima, più timidamente, nel 2016 da Alejandro Aravena e la seconda, in maniera più decisa e conflittuale, da Lesley Lokko nel 2023, dove in entrambe le esposizioni si è sollevato l’urgenza di una lettura diversa, più contraddittoria e stratificata delle storie recenti dell’architettura nei diversi contesti geografici e la necessità di rileggere criticamente i paesaggi della cultura architettonica nel mondo con un punto di vista più problematico rispetto alla letteratura prodotta tra gli Stati Uniti e l’Europa lungo il ‘900.
Nella prima parte del volume La Cecla scrive “C’è un enorme lavoro da fare sulla denigrazione, distruzione, negazione delle altre forme dell’abitare. (…) Sono state e sono ancora proprio l’architettura e l’urbanistica l’arma più potente usata dagli imperialismi colonizzatori per negare il modo con cui altre culture si rapportavano, e si rapportano, al proprio ambiente umano. Bisogna spostare l’ottica: non è certo uno stile, una certa maniera di costruire, ma è lo stile di vita unico proposto attraverso l’architettura moderna e contemporanea l’arma più potente per ridurre il mondo a una sola forma di vita”. In un mondo in cui la globalizzazione di un capitalismo maturo a mercato unico ha colonizzato ogni angolo del pianeta, l’architettura è diventata lo strumento per dare forma fisica e simbolica unica agli ambienti in cui abitiamo, lavoriamo, ci riproduciamo e moriamo. Un mondo uniformato per il cittadino-consumatore unico, che vive in un mercato globale unico. L’accusa di La Cecla è chiara e difficilmente criticabile. Il sogno delle avanguardie moderniste degli anni Trenta per un mondo evoluto, moderno e trasparente, costruito con materiali innovativi come il cemento armato, il vetro e l’acciaio e prodotto industrialmente, pensato per aumentare collettivamente la qualità della vita e offrire una casa decente a chiunque è diventato progressivamente lo strumento con cui colonizzare ogni parte del pianeta, indifferenti alle diversità e alle ricchezze dei diversi contesti e comunità, in nome di una visione standardizzata e uniformata che ha consentito all’industria delle costruzioni di prosperare e al capitale di espandersi, grazie a un immaginario architettonico globalizzato e appiattito. Una periferia residenziale di Shanghai è uguale a quella di Mosca, Il Cairo, Mumbai o Città del Messico. I distretti direzionali e ricettivi avanzati sono immagini che si sovrappongono indifferentemente tra Dubai, Londra, Hong Kong, Istanbul o Lagos. Le case unifamiliari si moltiplicano come in un set televisivo che incrocia Bogotà, Milano, Houston, Los Angeles, New Delhi, Johannesburg. Un unico modello per gli uffici in cui lavoriamo, come per le case che abitiamo ancora schiave della zona giorno e notte, di un soggiorno, corridoio, bagno e camera, dimenticando ogni volta che i modi che abbiamo di abitare i luoghi sono sempre culturali, stratificati nel tempo e generazioni, mai immutabili, ma destinati a cambiare con noi, se ne abbiamo la possibilità.
La critica dell’antropologo è giusta. Non si può immaginare e progettare un luogo in cui abitare, senza pensare alle differenze e alle ricchezze che ci rendono umani, legati a storie e paesaggi del corpo e dell’anima differenti. E ancora di più non si può immaginare oggi una forma progettante che non legga i paesaggi in cui interveniamo senza pensarci viventi in una dimensione ecologicamente circolare in cui muoversi con molta attenzione, consapevolezza e senso critico. Per rafforzare questa lettura La Cecla riporta i casi da lui attraversati tra il Sud America, India e Cina, dove ogni volta la scatolarità dello standard edilizio uccide i luoghi, annulla tradizioni millenarie, saccheggia le risorse dei territori e insieme impone la monocultura del cemento armato.
In questa accusa monolitica e irremovibile della figura dell’architetto moderno La Cecla sembra non considerare a sufficienza che esistono altri percorsi interni alla cultura architettonica moderna che hanno cercato di costruire strade e percorsi alternativi, capaci di una potenza poetica e di una sensibilità dei luoghi preziosa e da leggere con attenzione e amore. Ma è pur vero che nella maggior parte di queste storie riconosciamo una dimensione marginale rispetto alle quantità edilizie costruite e di pessima qualità che compongono la quasi totalità dei luoghi che abitiamo.
Rimane nella mia mente sospeso l’interrogativo.
Come sarebbe stato possibile dare casa decente ai milioni di uomini e donne che nell’arco di un solo secolo sono passati dal 3% al 50%, mossi dal desiderio di diventare abitanti di città progressivamente diventate metropoli? Probabilmente quello che è stato realizzato è una delle risposte più possibili, civili, realistiche e immaginabili per affrontare un movimento migratorio globale e urbano così massiccio come mai era avvenuto nella storia dell’umanità.
Ma questo non toglie che il risultato finale è preoccupante e devastante perché ha rinchiuso nelle proprie celle abitative, cullate dal privilegio della privacy e dal desiderio della modernità, miliardi di esseri umani, costringendoli a uno stile di vita monotematico, che separa gli individui senza costruire comunità e ambiente. Quando poi il modello occidentale è stato inopinatamente esportato in Africa, Sud America e Asia l’effetto è stato nella maggior parte devastante e alienante per i diversi contesti in cui è atterrato.
Ma come rispondere a questa condizione? Che strategie di resistenza e rinascita attivare?
Nella seconda parte del libro La Cecla affronta la questione della domesticità come centrale in un processo di riconoscimento critico e di risposta progettuale da parte di ognuno di noi.
“Questa domesticità è un “fare” e “rifare” la vita costantemente, una cura del mondo nel senso più profondo che possiamo dare a questa idea, in un mondo scassato da violenze e prevaricazioni”.
La questione della domesticità e del recupero di forme possibili di prossimità è letta in termini antropologici come pratica politica e di piena consapevolezza che ogni azione, anche la più minuta, può fare la differenza. La sollecitazione, ripresa dalle parole della filosofa boliviana Silvia Rivera Cusicanqui, è quella di abitare le contraddizioni che abitiamo, senza necessariamente cercare il loro superamento ricomponendo unità fragili. Le frizioni e le contraddizioni sono parte vitale della nostra vita e affermazione delle differenze che dobbiamo vivere e ascoltare senza appiattirle in una sintesi possibile. Per questo il mondo domestico, che non è necessariamente recluso alla casa e alla sua privacy, ma che ha un necessario rapporto osmotico con la realtà esterna, deve essere vissuto nelle sue soglie, nei tempi differenti e compresenti, nelle questioni irrisolte, nella diversità che costruisce ricchezza, nei suoi vuoti e pieni, nelle luci e nelle ombre di cui abbiamo bisogno, nei sensi, tutti, che ci aiutano a costruire una relazione di appartenenza con i luoghi di cui siamo abitanti, così che “il nostro abitare il mondo si trasformi in un essere abitati da esso”. La domesticità è vista come “ostinazione a rifare la vita”, tessendo fili e relazioni che appaiono nel tempo e nell’ascolto che diamo alle persone, ai luoghi e alle vite con cui entriamo in contatto, definendo una dimensione etica sostanziale, necessaria ad affrontare un tempo di cambiamenti così drammatici e radicali.
Così facendo La Cecla chiude il libro con il capitolo più intimo e personale, grazie ad azioni e gesti in cui tutti noi potremmo riconoscerci, pensando alle storie minute e preziose della nostra vita. “Cucino; Rigoverno; Rifaccio il letto; Lavo/pulisco; Asciugo/stendo; Stiro; Gioco; Visite; Vado al bar”. Ogni capitolo è una micro storia che nasce dal vissuto personale dell’autore che ci dice che dobbiamo cercare nell’oggi, nel presente, nell’adesso gli spazi e le condizioni in cui agire attraverso gesti consapevoli delle storie da cui veniamo e che possono arricchire di senso le realtà che abitiamo con gli altri. In questo l’antropologia può aiutarci, più di molte altre discipline, a cogliere le differenze e la ricchezza del mondo che abitiamo e siamo chiamati a cambiare malgrado le scatole moderne in cui viviamo per rispondere a un tempo diverso, che provi a mettere in discussione l’iper-mercato in cui siamo immersi, per riemergere come comunità critiche e operanti. Oggi non è più tempo di costruire nuove abitazioni e di consumare territorio; oggi è un tempo che chiama la riparazione dei paesaggi che abitiamo, il ripensamento del troppo costruito che abbiamo ereditato dal ‘900 e la definizione di modi di costruire e abitare diversi, attenti, politici e partecipati. In tutto questo c’è uno spazio enorme e urgente per l’architettura di ripensarsi e di offrire al mondo quella “sostanza di cose sperate” e amate di cui tutti noi abbiamo un disperato bisogno.