Divinità e neuroni

18 Dicembre 2024

Il nuovo libro di Robin Dunbar, Come la religione si è evoluta, uscito in traduzione italiana per i tipi di Mimesis, con prefazione di Franco Fabbro, reca un sottotitolo sibillino: e perché continua a esistere. Un interrogativo che si rivolge direttamente a noi che continuiamo a leggere, magari anche a scrivere di religione, a studiarla e per molti versi persino a praticarla tutt’ora.

Sin dall’introduzione l’autore ci mette sull’avviso: è plausibile che i nostri progenitori credevano negli dèi, o in un dio onnicomprensivo che regnava sul cielo e su tutta la terra; certo celebravano funzioni religiose; verosimilmente s’inginocchiavano di fronte agli altari, ma in realtà «possiamo solo immaginare quale fosse l’aspetto dei loro rituali religiosi, basandoci anche sul fatto che il comportamento umano non si fossilizza» (ivi, p. 17). Un monito che ritorna anche all’inizio del capitolo dedicato alla religione nella preistoria, che si apre con una formula simile: «il comportamento e la mente non si fossilizzano, perciò è impossibile sapere come appariva la religione nella preistoria antica» (p. 143).

Su questo tema dovremo tornare, ma intanto precisiamo come ciò non impedisca affatto a Dunbar di presentare gli esiti di una vastissima ricerca, che si articola tramite correlazioni, percentuali, statistiche e comparazioni che corrono lungo l’arco di millenni. Per esempio riporta il tasso di diffusione degli sciamani nelle società a piccola scala, prevalentemente dedite alla caccia e alla raccolta; per converso ci mostra come l’ascesa delle religioni dottrinali – in particolare quelle legate alla credenza in una punizione di origine soprannaturale e alla presenza di Dèi supremi moralizzatori – sia strettamente correlata all’aumento della popolazione che si registra nelle diverse comunità.

Ma, ecco, su quest’ultimo punto, ci sembra opportuno provare a offrire al lettore un’idea più chiara del livello di profondità raggiunto da un’analisi come quella di Dunbar, che riesce a tenere insieme una enorme varietà di dati e di indici con una serie di fini ragionamenti che si sviluppano su un piano antropologico, psicologico e neurologico. Prendiamo appunto come tema generale la transizione che conduce all’adozione, da parte di alcune comunità primitive già piuttosto popolose, di una dimensione religiosa dottrinale – costituita principalmente da fattori classici come spazi rituali, rappresentazione simbolica delle idee religiose, presenza di una casta sacerdotale, diffusione della credenza negli dèi e assunzione di codici morali.

Ci troviamo dinnanzi a un intreccio di elementi apparentemente del tutto eterogenei.

Per un verso possiamo seguire il profilarsi di culti che si trasformano in riti propiziatori, e dunque evolvono verso un’istanza sacrificale, spesso connessa ad animali, ma talvolta anche a esseri umani. A questo proposito potremmo citare un passo assai significativo: «Le culture che adottarono il sacrificio come nuovo complesso rituale furono in grado di passare a strutture sociali stratificate che, a propria volta, permisero loro di aumentare la dimensione delle loro popolazioni» (ivi, p. 179). In sostanza noi siamo spinti a vedere nel sacrificio «la porta d’accesso per l’aumento della complessità sociale» (ibidem).

Per un altro verso, Dunbar ci offre una serie di ragguagli sulle dimensioni dei villaggi sulla penisola di Taraco nel lago Titicaca, in Bolivia, tra il 1500 e il 250 a.C.: la loro dimensione media è di 127 persone e sistematicamente quando si arriva a 170 le comunità si dividono. Tutte le volte che assistiamo a un accrescimento della dimensione media dei villaggi, sorgono spazi religiosi più strutturati. Il ragionamento è supportato da opportune tabelle e grafici che illustrano tale dinamica.

Ma qui s’intreccia immediatamente un terzo filone che aiuta a precisare ulteriormente l’analisi: l’autore cita uno studio che raccoglie dati provenienti da oltre 300 società, coprendo un arco di circa 10.000 anni – indicizzando la complessità sociale attraverso una serie di elementi eterogenei come la dimensione della popolazione, il tasso di gerarchizzazione, la presenza di infrastrutture, la costruzione di calendari, il conio della moneta, e così via. Da questo studio emerge come sia possibile non soltanto effettuare previsioni sulla nascita di figure come gli Dèi supremi moralizzatori, ma addirittura ricavare tempistiche particolarmente accurate sul loro sviluppo: «gli Dèi supremi moralizzatori compaiono tipicamente circa 300 anni dopo che una società raggiunge il suo picco di complessità strutturale» (ibidem).

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George Catlin, Ball Play-no. 23, lithograph, Smithsonian American Art Museum, Transfer from the National Museum of Natural History, Department of Ethnology, Smithsonian Institution, 1985.

Di qui, una volta colto il ruolo svolto da queste divinità come forze stabilizzatrici rispetto a un tasso crescente di complessità sociale che rischia di condurre la comunità al collasso, è necessario aggiungere almeno una quarta componente fondamentale, connessa alla produzione di energia annua pro capite. È stato stimato che la soglia di transizione può essere collocata attorno alle 20.000 kcal per ogni persona: una volta che risulti possibile generare questo surplus – e ciò può accadere soltanto in complessi urbani già piuttosto articolati e organizzati – si cominciano a costruire depositi di cibo, il che consente di avere accesso a quelle eccedenze alimentari che permettono a un certo gruppo di individui di dedicarsi a «diventare specialisti religiosi» (ivi, p. 183), dando vita a una specie di embrione della classe sacerdotale.

Un ulteriore fattore riguarda la distribuzione geografica di tali fenomeni: tutte le grandi religioni del mondo sono emerse all’interno di una fascia latitudinale assai ristretta. Si tratta di una zona di circa dodici gradi di latitudine, che copre appena il 10% della superficie terrestre occupabile: tuttavia, quattordici delle sedici più importanti religioni di stato e monoteistiche rientrano all’interno di questa sottile striscia di territorio.

Ci siamo soffermati in maniera forse troppo dettagliata su alcune analisi presenti nel capitolo ottavo, dal titolo significativo “una crisi nel neolitico”, per mostrare quale importanza venga attribuita a una serie di cosiddetti “effetti di soglia”, che vengono correlati tra loro per cercare di fare luce sull’evoluzione delle dinamiche religiose. Ciò ci consente di mettere in luce, inoltre, un’impostazione metodologica, tipica dello psicologo evoluzionista, che torna in maniera costante all’interno del volume: «Nell’evoluzione, come nella vita reale, le soluzioni vengono dopo il problema, non in previsione del fatto che potrebbe sorgere un problema futuro» (ivi, pp. 180-181).

Abbiamo offerto soltanto uno spaccato sull’interazione tra dati, correlazioni e rilievi statistici che l’autore riesce a generare in queste pagine: altri filoni meriterebbero di essere menzionati. Ad esempio, le correlazioni tra lo sviluppo cerebrale e la nascita di una dimensione linguistica e dunque, a seguire, di quella religiosa. Nel capitolo dedicato a “Cervello sociale, mente religiosa”, si arriva addirittura a identificare il livello minimo di intenzionalità necessario per costruire una religione comunitaria: una religione comunitaria necessita di una “mentalizzazione” capace di cinque livelli di intenzionalità. Certo – per seguire l’esempio di Dunbar – se noi volessimo seguire una frase complicata di quinto livello come la seguente “Io penso che Bill supponga che Jennifer voglia sapere se Peter intende chiedere a Susan se lei creda che l’incontro fosse fissato per le due”, forse rischieremmo di perderci. Ma volgetela in una dichiarazione di credenza, e l’ineludibilità di questo quinto livello apparirà palese: “Io credo che tu pensi che noi entrambi sappiamo che Dio esiste e intende punirci” (ivi, p. 119).

Un altro filone affascinante riguarda il nesso tra danza rituale, componenti ritmiche e coesione sociale: seguendo questo percorso è perfino possibile rintracciare nel grooming praticato dai primati una prima e ancestrale pratica volta a favorire legami individuali all’interno di un gruppo. Ciascuna di queste piste di ricerca prevede a sua volta l’intersezione tra diversi ambiti: sono coinvolte non solo dinamiche comunitarie che si possono studiare a livello antropologico ed etnologico, ma anche tecniche di neuroimaging per misurare il livello di endorfine stimolato da certe pratiche, gli effetti sulla soglia del dolore e sul sistema immunitario. Insomma, si tratta di indagare ad ampio raggio quello che Dunbar chiama «un ambiente neurochimico di fiducia che permette a un secondo meccanismo, più direttamente cognitivo, di manifestarsi» (ivi, pp. 109-110).
A noi, tuttavia, interessa tornare alle battute iniziali, in particolare alla constatazione che il comportamento e la mente non si fossilizzano, cosa che getta un’ombra su qualsiasi nostro tentativo di ricostruzione, di spiegazione, di descrizione delle dinamiche religiose come fenomeno caratteristico, che probabilmente non condividiamo – per lo meno se pretendiamo un certo livello di articolazione e di intensità – nemmeno con l’homo di Neanderthal: «Solo la nostra specie ha un cervello abbastanza grande da consentire un quinto ordine d’intenzionalità» (ivi, p. 158).

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George Catlin, Snowshoe Dance--no. 14, lithograph, Smithsonian American Art Museum, Transfer from the National Museum of Natural History, Department of Ethnology, Smithsonian Institution, 1985.

Prendiamo un punto chiave: la nascita del linguaggio. Dunbar sottolinea a più riprese il clamoroso impatto esercitato da questo “strumento della mente”, grazie al quale è la mente stessa a evolversi, mostrandosi in grado di gestire situazioni complesse e di affrontare una più fine stratificazione sociale, per esempio generando proprio quell’attitudine religiosa capace di «dare senso a questo mondo in maniera da consentirci di funzionare proprio perché possiamo controllarne i comportamenti più irregolari» (ivi, p. 64).

Tutto il nostro studio dell’evoluzione religiosa, in realtà, si appoggia ancora – nonostante tutto – su questa clamorosa “disponibilità linguistica”, sulle potenzialità esercitate da questo straordinario strumento della mente. Quando noi rintracciamo effetti di soglia, quando noi calcoliamo e quantifichiamo in modo da gettare luce su alcune dinamiche, quando noi ricorriamo a studi di carattere neurologico per correlare il volume dell’encefalo alla complessità sociale o all’insorgere di credenze religiose, tutto questo ci è possibile poggiando sul grande supporto garantito proprio dal linguaggio.

Ma, appunto, i comportamenti e la mente non si fossilizzano: non possiamo studiare quelle epoche supponendo che adottassero già comportamenti simili ai nostri e una mente simile alla nostra. Noi ricostruiamo ex post, essendo già in possesso di un linguaggio, quel passato remoto, ancestrale, in cui i nostri antenati erano privi di qualsiasi consapevolezza sul piano linguistico. Eppure possiamo studiare queste epoche soltanto facendo affidamento sul nostro modo attuale di intendere, sulla nostra concezione di razionalità, sui nostri criteri di scientificità. Torna alla memoria un passo di Vico, quando lamentava quella fatica durata vent’anni, quello sforzo immane di calarsi nella mente dei bestioni balordi, per cercare di immaginarsi come potessero “pensare”. Ma già qui il termine “pensare”, forse, è già troppo: è fuori luogo. «Solo a stento intender si può, affatto immaginar non si può».

In copertina, George Catlin, Buffalo Dance No.8, n.d., lithograph, Smithsonian American Art Museum, Transfer from the National Museum of Natural History, Department of Ethnology, Smithsonian Institution, 1985.

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