Sean Carroll: scienza, coscienza e credenza

10 Gennaio 2025

Sulle origini della vita, del significato e dell’universo, di Sean Carroll, tradotto in italiano da Daniele A. Gewurz, edito da Einaudi, è un testo articolato in sei parti, ma il titolo originale è The Big picture. È bene ricordarlo, perché in effetti ciò che l’autore intende offrirci è un’immagine complessiva dell’universo, articolata, ricca di sfumature. Di per sé Carroll è un naturalista convinto e lo dichiara in maniera esplicita: «Il nostro obiettivo è quello di abbozzare una spiegazione del fatto che comprendere il mondo appieno sulla base del naturalismo sia plausibile» (p. 247). Ma allora siamo di fronte all’ennesimo scienziato riduzionista? Uno di quelli che vorrebbe eliminare tutto ciò che non si basa su atomi, molecole – anzi protoni, neutrini, elettroni e bosoni. Se così fosse, tanto varrebbe chiudere il libro in fretta e furia e prendersi un buon manuale di fisica.

Non è così! Certamente il nostro sostiene con decisione il naturalismo come concezione di base, ma il suo problema è un altro: accanto a questa “visione di base”, che ci consente di effettuare un sacco di previsioni, di spiegare una marea di interazioni, di comprendere tutta una serie di fenomeni a livello micro – accanto a tutto questo, dicevamo, ci sono altre “scale di grandezza”, altre “unità di misura” alla luce delle quali noi interpretiamo e abitiamo il nostro mondo. C’è una concezione che riguarda gli oggetti quotidiani, tutto sommato descrivibili ricorrendo ai teoremi della fisica classica, ma poi ci sono le sinergie tra singoli individui, e interazioni sociali via via più vaste, sino ad arrivare alle ideologie, alle convinzioni religioso-cosmologiche e più in generale alle credenze su cui in vario modo ci appoggiamo nei diversi momenti della nostra esistenza.

A questo proposito, si potrebbe citare la poetessa Muriel Rukeyser: «L’universo è fatto di storie, non di atomi». Ecco, forse Carroll direbbe che l’universo è fatto soprattutto di atomi, in realtà, ma sarebbe folle non tenere conto anche delle cosiddette “storie”, nel senso che l’indagine scientifica ci offre quel tipo di visione che è il mondo naturalistico, ma poi di questo “mondo di base” si comincia a parlare, tramite vocabolari diversi, in virtù di linguaggi diversi, avendo scale di valutazione diverse. Ed ecco che compare il “poetico” a mitigare questo rigido naturalismo. Il naturalismo poetico ha David Hume come padre e Lucrezio come nonno (ivi, p. 39).

Insomma, la visione scientifica e il naturalismo in qualche modo sottostante ad essa – o meglio: naturalismo che grazie al metodo scientifico si presenta come la teoria di fondo più plausibile nel contesto dato – sono l’esito di un profondo stravolgimento di quei nuclei fondamentali attorno a cui si è costruito il nostro senso comune a proposito del mondo. Per fare un esempio, l’autore cita Russel, secondo cui la legge di causalità è una specie di reliquia di un’epoca passata sopravvissuta come la monarchia, solo perché si suppone erroneamente che non faccia alcun male (cfr. ivi, p. 63). Ma questo di Russel è un naturalismo troppo “forte”, decisamente più radicale di quello che ci propone Carroll: «Guardiamo il mondo che ci circonda e lo descriviamo in termini di cause, effetti, motivi per cui, finalità e obiettivi. Nessuno di questi concetti esiste veramente all’interno dell’intelaiatura della realtà nella sua forma più profonda. Emergono quando ci allontaniamo dal livello microscopico e passiamo al livello del quotidiano» (ivi, p. 53).

Emergono, cioè – in qualche senso – ci sono anch’essi. Allora potremmo dire così: gli esiti della rivoluzione scientifica e del suo metodo di analisi dei fenomeni ha generato una profonda disillusione rispetto alla plausibilità di certi concetti che usavamo considerare per certi versi inerenti all’universo. Ma non per questo possiamo vivere il nostro mondo adottando soltanto concetti come quello di entropia, di intervallo di confidenza, o di campo di Higgs. “Ricordi”, “cause”, “finalità”, “principio di ragion sufficiente” – solo per fare alcuni esempi – non trovano riscontro nella struttura microfisica: in sostanza, il nostro universo non è costruito per appagare il nostro desiderio di spiegazioni. Sono da buttar via perché inconsistenti rispetto alla meccanica quantistica? Forse no.

Arrivati a questo livello, però, quella che Carroll inscena è una sorta di gigantomachia tra ontologia ed epistemologia. Diamo una coordinata fondamentale per provare a chiarire lo spirito generale della sua proposta: l’ontologia fondamentale, quella di base, è effettivamente quella illustrata dalla scienza, ma vi sono molti altri modi – più o meno fantasiosi – per rivestire di senso questa realtà. «C’è un solo mondo, ma ci sono molti modi di parlarne» (ivi, p. 95). Tra questi ci sono modi scientifici, ma anche molte “parole magiche”, molte credenze. Veniamo però prima a quello scientifico. Carroll si sofferma, per esempio, sul metodo bayesiano, intendendolo come un metodo per calcolare via via i gradi di fiducia che siamo disposti ad assegnare a certe proposizioni, mostrando poi come la raccolta dei dati e il continuo aggiornamento dei gradi di fiducia conduca a una conclusione decisiva: «ognuno ha diritto ai propri gradi di fiducia a priori, ma non alle proprie verosimiglianze» (ivi, p. 81), nel senso che le prove dovrebbero progressivamente farci convergere verso l’unanimità.

Per certi versi questo metodo bayesiano si configura come «una carta stradale per avvicinarsi sempre di più alla verità» (ivi, p. 83). Ma tutto questo, nel naturalismo poetico di Carroll, non implica affatto che “in a long run” – come direbbe Peirce – arriveremo davvero a pensarla tutti in maniera analoga. Carroll sa benissimo che c’è tutta una serie di credenze nel genere umano, che si sostengono tra loro, un po’ come in un sistema solare: «i pianeti non sono posati su fondazioni; si tengono insieme secondo uno schema che si rinforza da solo» (ivi, p. 118). È in più, dinamiche come l’effetto backfire o i “bias di conferma” in un certo senso riescono a neutralizzare quella dinamica virtuosa di convergenza verso ciò che è “più vero” che verrebbe innescata dal metodo bayesiano: in breve, su certe credenze non siamo disposti a cambiare idea. C’è un intero capitolo intitolato “pianeti di credenza” che offre spunti davvero interessanti sull’interazione tra discorso scientifico, fede e dimensioni magico-religiose.

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A partire da queste credenze nascono molti modi di vedere le cose: in altri termini, “emerge la realtà” e la cosa crea enormi problemi, perché qui non si tratta soltanto di capire se le teorie “a grana più fine” (quelle microscopiche, fondamentali) siano più interessanti o più importanti. Il vero quesito è se ci siano cose che possiamo apprendere studiando il livello emergente che invece non capiremmo studiando solo quello microscopico (cfr. p. 109). Sia chiaro, l’autore non arriva a sostenere una sostanziale equipollenza tra i vari modelli, anzi, «ci sono molte teorie microscopiche distinte, tra loro incompatibili, ma compatibili con la stessa descrizione emergente» (ivi, p. 100), il che porta a dire che «tende a esserci un do ut des tra l’ampiezza di una teoria e la sua praticità» (ibidem). In tal senso all’interno di un dominio preciso di applicabilità la teoria emergente è di gran lunga più efficiente di quella microscopica anche sul piano della computazione, e d’altra parte la teoria che ha un più ampio dominio di applicabilità sarà anche quella più complessa dal punto di vista computazionale. Per fare un esempio, pensiamo a una teoria che in ambito morale adoperi il concetto di responsabilità, che ci consente di fare affermazioni molto precise entro un certo dominio, ma che si rivela poi inapplicabile anche solo rispetto al mondo dei fenomeni naturali, figuriamoci a livello di fisica delle particelle fondamentali: il fatto che certe teorie abbiano un campo limitato di applicazione non depone a favore della loro plausibilità generale, ma ciò non toglie che un certo modo di vedere il mondo, un certo vocabolario (un certo modo in cui la realtà emerge) consenta di comprendere molto bene certe dinamiche – magari a livello sociale o statuale, laddove la teoria dei quanti troverebbe forti ostacoli a una sua effettiva implementazione.

È come se il naturalismo poetico – rispetto al mero riduzionismo – fosse disponibile a riconoscere un grado di legittimità, per così dire, e dunque a valorizzare, anche altre Weltanschauung, altri modi di assegnare senso al mondo. Per ridurre all’osso la tesi del nostro autore, potremmo dire che lo strato profondo della realtà «è solo la funzione d’onda quantistica. Tutto il resto è un modo comodo per parlarne» (p. 177). D’altra parte, la scienza è un metodo, non un insieme di conclusioni: tutto si può, anzi si deve sottoporre costantemente a revisione.

Ma qui lo scontro tra epistemologia e ontologia non è affatto superato, per almeno due buone ragioni: la prima, «per essere una teoria che ha avuto un successo empirico senza precedenti nel prevedere e spiegare i risultati di esperimenti ad alta precisione, la verità imbarazzante è che i fisici non possono dire di capire bene in che cosa consista veramente» (ivi, p. 164). Già qui si deve registrare un primo scacco: la meccanica quantistica può vantare una lunga fila di successi clamorosi, non tanto nello spiegare, quanto piuttosto nel prevedere una serie di dinamiche. D’altra parte, questa stessa prevedibilità ha luogo su base statistica, non su base deterministica. E qui Carroll si lascia andare a un’altra affermazione assolutamente decisiva: «se osserviamo la palla per determinare la posizione, la vediamo davvero situata in un punto o in altro, ma quando non guardiamo, la palla non ha una posizione; ha una funzione d’onda, che è una sovrapposizione di ogni possibile posizione in cui potrebbe trovarsi» (ivi, p. 169). Altro che naturalismo! Sono parole – verrebbe da dire – che manderebbero in brodo di giuggiole l’idealista classico.

Ma c’è, come abbiamo detto, anche una seconda questione riguardo a questo scontro senza quartiere tra ontologia ed epistemologia. Citando Bohr, il nostro autore spiega che «è sbagliato pensare che il compito della fisica sia scoprire come è la natura. La fisica riguarda ciò che possiamo dire sulla natura» (ivi, p. 173). Sono conclusioni a cui, per altra strada, era arrivato lo stesso Planck. A partire da qui Carroll riparte con osservazioni assolutamente decisive. Quando noi diciamo che la teoria quantistica vanta conquiste formidabili, ciò non ci dice nulla – di per sé – sulla struttura effettiva dell’universo. Per dirla con l’autore: «La teoria quantomeccanica di che cosa?» (ivi, p. 178). Possiamo anche chiamarla core theory, come ha proposto il premio Nobel Frank Wilczek, ma rimane pur sempre un quadro teorico … di una potenza enorme, che tuttavia si riferisce a qualcosa d’altro. Della “realtà sottostante” non sapremo mai nulla. Persino “realtà”, ormai, è una di quelle parole magiche che ci siamo vietati: non ci sono le cose, ormai è abbastanza chiaro che ci sono solo processi.  D’altra parte, non sembra che Carroll sia disposto a trarne tutte le conseguenze più radicali di questo discorso. Quando si chiede: «ma di che cosa è una funzione la funzione d’onda», la sua risposta è: «dei campi di fermioni e bosoni della core theory» (ivi, p. 182). È chiaro però che fermioni e bosoni non sono che l’esito, a loro volta, di una certa teoria. Anche quella degli atomi, e dei fermioni, e dei bosoni, è una storia, non è la realtà. Certo, una storia consolidata, tale per cui se anche scoprissimo che la sostanza fondamentale della realtà è completamente diversa da tutto ciò che la fisica ha immaginato, «nel nostro mondo quotidiano, la fisica continuerà a funzionare secondo le regole della teoria quantistica dei campi» (ivi, p. 197), nel senso che quella core theory «non andrà mai via» – benché si possa sempre sperare in una teoria futura capace di attingere a livelli più profondi.

Da qui in avanti, se il lettore è curioso, si aprono domande decisamente bizzarre. Perché esiste l’universo, e non il nulla? Naturalmente non si citano i precedenti, da Leibniz a Heidegger. Oppure si discute se l’universo abbia avuto inizio oppure no, di fatto ripercorrendo le antinomie kantiane. Ma si procede oltre, e si chiede se vi sia una differenza tra essere ed apparire. Qui l’autore sa di dover pagare i diritti d’autore a un certo Parmenide. In altri termini, tutti i quesiti che sorgono ora abitano quel sottile crinale tra fisica e metafisica.

Di quante cose ancora dovremmo e vorremmo ancora parlarvi: come s’incanala l’energia, il fenomeno dell’organizzazione spontanea, le ipotesi di Schrödinger sulla vita, e poi ancora evoluzione versus progetto, i fini emergenti, la destrutturazione radicale di ogni antropomorfismo (ma fino a che punto? Dato che, mentre portiamo avanti questo compito, continuiamo a esprimerci in un linguaggio umano, … troppo umano direbbe Nietzsche). E ancora fotoni versus coscienza, essere e dover essere e da ultimo un curioso capitolo finale dal titolo “terapia esistenziale”. Un libro ricco, pieno di spunti e di occasioni per riflettere sui tanti livelli, i tanti punti di osservazione, le diverse credenze che costituiscono il mondo, assieme alle funzioni d’onda e ai diagrammi di Feynman. Tutto questo intreccio di piani e di processi che articolano quello che ci ostiniamo a chiamare ancora, nonostante tutto, il nostro mondo, la nostra realtà.

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