Un palcoscenico chiamato società
Il libro di Richard Sennet, dal titolo La società del palcoscenico, Feltrinelli, Milano 2024, tradotto da Giuliana Olivero, dedicato al ruolo giocato da performance e rappresentazione in politica, nell’arte e nella vita, comincia da Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl. E forse non poteva che essere così. L’HorstWessel-Lied in sottofondo, il grido all’unisono della folla, l’uso sapiente della tecnica al rallentatore tramite cui viene filmata la parata, tutto “congiura” affinché «la teatralità di tipo non verbale renda vivo il carisma del Führer» (Sennet, p. 18). Anzi, l’autore nota come paradossalmente i passaggi più deboli siano quelli in cui Hitler parla effettivamente. E anche qui si inserisce un silente lavoro di compensazione, attraverso l’inquadratura delle espressioni facciali, i gesti delle braccia, i movimenti del corpo, al fine di rendere «fisica e viscerale la presa del demagogo sulle persone». Potremmo continuare: un uso accorto del “Wach auf” dei Maestri cantori di Norimberga, così come, nel film successivo, Olympia, l’esibizione della nudità dei tuffatori come simbolo del corpo ariano idealizzato. In breve, una trasfigurazione del nazionalsocialismo tesa ad affascinare il pubblico: «I traumi si sono trasformati in esperienze che non ammettevano repliche» (ivi, p. 19).
Cambio di scena: Sennett ci catapulta nella New York dei primi anni Sessanta, in cui Bob Dylan entusiasma più di Schubert, i grandi jazz club animano la 125a Avenue e comincia a prendere piede quell’economia dello spettacolo che si fonderà sempre più col culto della personalità, fino a quando diventerà più importante sapere chi suonerà che non che cosa verrò suonato.
Sono pagine capaci di provocare una sorta di effetto choc che si costruisce attorno a una constatazione strana, fastidiosa, a tratti addirittura sgradevole: una ineludibile porosità caratterizza idee, costumi e modi di pensare. Le culture si contaminano, hanno confini sfumati, non si affezionano a questo o a quel fronte: nemmeno la guerra riesce a irreggimentarle, costringendole a militare solo da una parte o solo dall’altra. Qualcosa di simile accade, per esempio, nel film Taking side diretto nel 2001 da István Szabó. A Berlino, nel 1945, in una chiesa scoperchiata per via dei bombardamenti, si esegue il Quintetto per archi dello stesso Schubert: comincia a piovere e si aprono gli ombrelli per continuare a seguire l’Adagio. Sequenza immediatamente successiva: il salone di un palazzo della medesima capitale ospita funzionari, collaboratrici e ufficiali delle truppe alleate che trascorrono serenamente la serata ballando il twist.
La sensazione di spaesamento nel testo di Sennett rimane costante: il lettore si sente continuamente travolto in una girandola di autori, luoghi, epoche storiche e citazioni apparentemente distanti, talvolta quasi del tutto eterogenei tra loro: in realtà, avendo la pazienza di intuire le loro correlazioni, seguendo il taglio proposto da Sennett, noi vediamo comporsi delle “mappe a n dimensioni”, in cui molti livelli si intrecciano contribuendo a offrire piena profondità ai problemi e dunque a sollecitare nuove prospettive e punti di vista decisamente inediti.
Facciamo qualche esempio e prendiamo il tema della rappresentazione di fronte alla morte. Tutto si gioca su un’analogia: il rito viene visto come una specie di performance, come espressione collettiva. Ed ecco balzare fuori il riferimento al Kaddish, la preghiera che nell’ebraismo accompagna il funerale, recitata accanto alla tomba e poi ripetuta nei mesi successivi alla morte: malgrado alcune clamorose affinità, vi sono poi fattori – come le tempistiche rigorose, l’incomprimibilità, l’impossibilità di pensare a delle variazioni – che rendono il Kaddish decisamente irriducibile a una mera performance. Tutti elementi che non impedirono ad Allen Ginsberg di trasformare il rituale del Kaddish in un’opera d’arte con il suo poema del 1960, in cui piange la madre Naomi Ginsberg. La trasformazione dell’opera in una pièce teatrale, affidata al regista Robert Kalfin, è l’occasione in cui emerge un interrogativo ulteriore relativamente al pubblico: «fino a che punto deve essere coinvolto nelle passioni rappresentate sulla scena?» (Sennett, p. 40). Altri esempi vengono citati: come le performance di Beuys intitolate Come spiegare i dipinti a una lepre morta; la Sinfonia n. 3 di Bernstein intitolata appunto Kaddish e dedicata a J.F.K; per arrivare a The Call di Gibson Kente. Tramite questa “rassegna” si comincia a delineare un quadro ben preciso, che consente di “misurare la distanza” tra la trasgressività della performance e l’esigenza caratteristica di ogni rituale ossia reintegrare i singoli nella comunità.
Affrontando, invece, il rapporto tra morale e performance, là dove il gioco della finzione finisce per perdere la propria innocenza, sono preziosi i pedigree che Sennet ci offre, lungo due direttrici fondamentali: da un lato troviamo Huizinga-Piaget-Winnicott, dall’altro Goffman-Austin-Barthes. Ora comincia l’effetto girandola: la veste e la maschera di Machiavelli, il ruolo dell’attore tra Diderot e Stanislavskij, per finire con le lacrime di Giuda nella Cattura di Cristo del Caravaggio. Anche qui, una sequenza a prima vista bizzarra, una maniera insolita di cartografare il problema, ma che consente di guadagnare un’ottica affatto scontata.
Un po’ come accade per il capitolo dedicato alla spettacolarizzazione della violenza: si parte da Berretti verdi, film del 1968, realizzato da John Wayne; due parole sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, per poi tornare a Guerra e pace di Tolstoj; un confronto tra Verdi e Wagner, tra La forza del destino e il Tristano e Isotta, per poi approdare a Coleridge. Qualcuno dirà: “Un guazzabuglio incomprensibile”. E invece le riflessioni sulla sospensione dell’incredulità e sulla violenza spettacolarizzata consentono di mettere a fuoco il ruolo della religione nella formazione delle civiltà, la perdita della componente magica, per concludere col rischio maggiore che la società moderna sta correndo: quello di rimanere schiacciata dai fatti, dalla considerazione dei meri fatti. Qui intervengono le analisi di Max Weber, i contributi di William James sulla natura e la caratura dell’esperienza religiosa, poiché si scorge come «l’esperienza individuale della fede mette in risalto l’esperienza collettiva della violenza» (Sennett, p. 70).
Se il lettore avrà la pazienza di seguirci, vorremmo offrire un ultimo spunto, relativo agli spazi costitutivi del teatro. Sono tre: il primo luogo è l’agorà, uno spazio aperto; il secondo è l’anfiteatro, uno spazio chiuso – e che verrà chiuso progressivamente sempre di più: pensiamo a quando Palladio verso la fine del Cinquecento progettò il primo teatro in Europa completamente coperto e racchiuso tra muri; il terzo è lo spazio scenico nascosto delle grotte, considerate da sempre luoghi sacri per eccellenza, dove sacerdoti e custodi dei misteri rivelavano poteri e influenze esercitate dalle divinità sulla vita quotidiana. È un percorso di ampio respiro – tutto giocato sulla tripartizione: palcoscenico aperto, chiuso e nascosto – che ci conduce verso una transizione spaziale, sino a quando la strada stessa diventa uno spazio per gli spettatori.
Strano, stranissimo che in questi “passaggi”, così come su quelli legati al rapporto tra politica, spettacolo e masse non salti mai fuori il nome di Walter Benjamin. Eppure la sua domanda rimbomba nelle pagine di Sennett: la crisi della democrazia è connessa in qualche modo al rapporto tra aura e riproducibilità? Come cambia il ruolo del politico quando costui accresce a dismisura la propria esponibilità di fronte ai mezzi di comunicazione bypassando quell’anfiteatro politico che è il parlamento? In ogni caso, Benjamin non viene convocato, e la cosa può risultare eccentrica. Così come, vedendo che si parla diffusamente del potere messo in scena, del carisma del corpo, in particolare concentrandosi sul Medioevo, ci si aspetterebbe almeno un breve accenno al famoso testo di Kantorowicz, che invece risulta “non pervenuto”.
Grandi assenti, certo, ma anche un sottosuolo ricchissimo di riferimenti, opere e autori dal quale appare evidente come il libro non intenda essere una ricerca appiattita sulla “società del palcoscenico” concepita come prodotto culturale novecentesco: all’opposto, Sennett indaga a fondo, scavando nel passato, rintracciando genealogie che non hanno certo lo scopo di ripristinare linee di perfetta continuità, ma piuttosto di mantenere la complessa trama della provenienza – come scriveva Foucault – nella dispersione che le è propria. Insomma, il centro del libro non è il XX secolo, bensì la sua “costruzione” nel corso dei secoli precedenti.
Potremmo dunque accennare al teatro dei vinti, alla personalizzazione della sconfitta, e nello specifico alla riduzione dell’attore sconfitto a spettatore – da Marcuse ad Agamben. Forse ancora più intriganti sono le ricerche sul teatro della paura, dove la Tyche greca si trova a colloquio con il Racconto del monaco di Geoffrey Chaucer e con alcuni versi dell’Inferno dantesco. Ma davvero, i percorsi si moltiplicano, assieme alle prospettive che l’autore è in grado di offrire.
Sino a quando, nel quinto e penultimo libro, «l’arte si apre» (ivi, p. 173), nel senso che si avventura negli spazi aperti e «il palcoscenico torna a cercare la strada»: teatro mobile, teatri porosi, dove complessità e accessibilità si intrecciano in un groviglio inestricabile. Da un lato l’illusione, di breve momento, di essere in grado di creare “geometrie assolute”, valide in ogni tempo e in ogni luogo, dall’altro la constatazione dolorosa che ogni appello al «genius loci rischia di diventare il “mantra del guscio”» (ivi, p. 184).
Simmel, Arendt, Barthes e Habermas, altra casata di alto lignaggio che viene convocata per mostrare come arte, teatro e performance sfocino nello spazio dell’agorà, la stessa dimensione in cui si elabora e si costituisce la cosiddetta opinione pubblica. L’arte ha a che fare con questa dinamica sociale: corpi che collaborano, a volte anche senza parole, gesti di cooperazione, questo eterno e inesausto “lavoro di fronte all’incertezza”. L’arte è quindi improvvisazione, invenzione di spazi nuovi, e insieme però anche perdita di quegli spazi che i nostri corpi non possono o non vogliono o si dimenticano di abitare.
Nel binomio finale – conflitto e riconoscimento – trova espressione questa doppia natura dell’arte: l’arte come luogo di contesa, ma insieme anche come occasione per elaborare equilibri inediti, quelle sottili opere di conciliazione socioculturale che ancora chiamiamo epoche: piccole stazioni di posta in cui per un attimo l’artista incanta il caos e procura un mondo a tutti noi. Non potevano mancare, a questa altezza, le pagine della Fenomenologia dello spirito, in cui Hegel delinea la lotta tra signore e servo; ma troviamo anche il “carnevalesco” di Bachtin, le arie di Figaro, Brecht, Abramović, Susan Sontag, Roy Schafer, e molti altri.
Il libro si chiude sul crinale che distingue e in cui però al contempo si trovano a combaciare Kultur e Zivilisation, dopo aver attraversato in lungo e in largo la cultura occidentale e non solo, residuando uno spazio alle performance di civiltà, vale a dire a quelle performance che danno dignità alla vita.