Gli animali e le prigioni dell'uomo

19 Maggio 2024

Aver scalzato la dicotomia tra natura e cultura costituisce una conquista irrinunciabile: così Giovanni Leghissa al termine dell’articolo che chiude la sezione monografica dell’ultimo numero di “aut aut”. Il tema specifico cui è dedicato – La filosofia davanti al massacro degli animali – dev’esser inteso più come una sorta di casus belli che non come tentativo effettivo di perimetrare l’ambito di una discussione che in realtà spazia a tutto campo sulle questioni più care al pensiero antispecista. 

Leggere i diversi articoli è come guardare il cruscotto di quell’automobile che è la cultura occidentale mentre varie spie si accendono per segnalare una serie di avarie, malfunzionamenti e guasti che in vari punti e a livelli assai diversi di gravità mostra l’esigenza di un tagliando, quando non di una vera e propria revisione, di alcuni “meccanismi del pensiero” consolidatisi e perpetuatisi sino ad ora all’interno della nostra tradizione. Naturalmente quando ci troviamo in panne non ci rivolgiamo alle spie luminose sperando che ci indichino anche come risolvere i problemi, né confidando che siano già in grado di fornirci un nuovo veicolo col quale proseguire il viaggio, ma certo il loro lampeggiare insistito consente per lo meno di capire quali ambiti della vettura siano coinvolti nell’impasse

Nel seguito, a questo proposito, individueremo tre snodi nevralgici.

Veniamo dunque, in primo luogo, al superamento della dicotomia tra natura e cultura già menzionata: la direzione di una simile Überwindung rimane ancora da delineare. Leghissa auspica che ci si sia liberati dalle “ristrettezze epistemiche” di certo neodarwinismo: l’irriducibilità del vivente al proprio patrimonio genetico conduce alla necessità di elaborare un impianto analitico capace di tenere conto dell’interazione tra organismo e ambiente (anzi, ancor prima, dell’interazione tra organismi di varie presunte “specie” che si trovano a convivere all’interno del cosiddetto individuo); d’altra parte compare l’esigenza di porre in risalto le sinergie che si instaurano tra differenti organismi alla luce delle diverse forme di gerarchia, già ravvisabili nel mondo animale, ma che si complicano enormemente a livello umano – tutti questi fattori dovrebbero averci persuaso ormai dell’urgenza di una riformulazione complessiva del “quadro di riferimento” entro cui si sviluppa l’attività di studio di tali fenomeni. 

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Rendere conto delle diverse “lotte epistemologiche” in seno alle stesse discipline e assumere un atteggiamento critico dinanzi alla nozione stessa di gerarchia comportano una riflessione metateorica sulle forme medesime in cui tale “critica dell’ideologia dominante” prende corpo all’interno di certi movimenti sociali, attraverso strutture di pensiero peculiari, magari coltivate nell’ambito di note istituzioni accademiche. In tal senso, però, l’invito a “non separare la storia naturale dalla storia delle tradizioni culturali umane” si radica esattamente all’interno di una “sede epistemologica” che è nostra e soltanto nostra: come dire che la consapevolezza di una continuità tra natura e cultura è un fatto culturale. E allora qui probabilmente Hegel alzerebbe la mano per chiedere i diritti d’autore. Quando Marco Maurizi, per esempio, stigmatizza giustamente come «falso che la cultura e la civiltà siano veramente altro dalla natura» [“aut aut”, n. 401, 2024, p. 53], propone di considerare che «la cultura è natura, la civiltà è il modo specificamente umano di rapportarsi a sé e all’altro» (ivi, p. 54). Tale continuità, dunque, parrebbe profilarsi, per così dire, sullo sfondo complessivo della natura: allora com’è che all’autore, all’interno di un volume dedicato all’antispecismo, scappa detto – anzi scappa scritto – che tale modo di rapportarsi a sé e all’altro è quello “specificamente umano”? L’antispecismo non può che configurarsi come una “sollecitazione” che sorge nell’ambito di un’esplorazione “specificamente umana” delle possibilità del pensiero.

Pensiamo anche solo al termine “natura”, nella sua contrapposizione – e persino nella sua continuità – rispetto alla cultura: nell’ambito delle principali lingue indoeuropee noi parliamo in effetti di “natura”, o “nature” in inglese – cambia poco nel tedesco “Natur” o nel francese “nature”: quanto poco sia “naturale” e ovvio questo concetto è dimostrato dal fatto che si tratta di un participio futuro, tipico della lingua latina, dal verbo “nascor”. Come è noto, i Greci usavano tutt’altra terminologia: “phýsis” indica un campo semantico totalmente diverso. Il termine “natura” viene dunque costruito, articolato e intenzionato in maniera specificamente umana: in questo caso, specificamente latina.

La nozione di “natura” – da leggere in continuità oppure no rispetto a quell’altro participio futuro che è la “cultura” – è un’invenzione della cultura. Perciò giustamente l’articolo di Filippi intende sbarazzare il campo da presunte ambiguità, ricordandoci che siamo pur sempre collocati all’interno di un discorso culturale, prodotto da soggetti incarnati e storicamente situati: a tal proposito la formula “antropomorfismo strategico” evita qualsiasi ricaduta in un mero naturalismo o in un realismo ingenuo. Proprio su questa scia risulta estremamente proficuo rimarcare (cfr. ivi, p. 8) la distanza tra l’atteggiamento della Scuola di Francoforte, e dello stesso Derrida, nel definire “in negativo” l’animale, implicitamente riconducendolo all’uomo, rispetto alla postura assunta da Deleuze nel qualificare “in positivo” l’animale. Ma, di nuovo, l’animale per così dire “puro”, pienamente assorbito entro il piano di immanenza, non è ancora forse una modalità “umana, troppo umana”, di immaginarsi l’intera situazione? 

Veniamo a un secondo segnale luminoso che si accende sul nostro cruscotto: staremmo per dire l’inevitabile inerenza dell’animalità al soggetto, ma forse la terminologia rischierebbe di suonare troppo aristotelica. Allora diciamo che si tratta «di fare i conti con l’animalità che cifra il soggetto» (ivi, p. 128). L’interrogativo concerne una “critica” della nozione di soggetto puro, con l’evidente esigenza di prestare maggiore attenzione all’embodiment e alla ineludibile contestualità del pensiero. Certo il binomio empirico/trascendentale può essere assunto come Standpunkt particolarmente efficace per cominciare ad affrontare la questione, accorgendosi in realtà di come la strettissima interrelazione anzi l’indisgiungibilità dei due, costringa a riconoscere l’impossibilità di residuare uno spazio del pensiero che non sia intrinsecamente affetto dall’animalità. 

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Fotografia di Simen Johan.

Sotto questo profilo, l’esigenza di una riformulazione della nozione di “soggetto” tende ad articolarsi su più fronti, coinvolgendo un novero amplissimo di diramazioni. Per un verso ci si potrebbe chiedere letteralmente, con Elisa Bosisio, “chi lavora?”, mettendo in risalto l’impossibilità di circoscrivere e perimetrare la categoria stessa di Arbeit (cfr. ivi, p. 105), e sottolineando in particolare come ogni “operatore” astrattamente considerato si costituisca in realtà come l’esito di una serie di tecniche di potere che cingono i corpi, innervandoli in un tessuto di rapporti che da un lato li trascende e dall’altro li costringe entro specifiche prestazioni. A partire da una direttrice diversa, ma strettamente imparentata a quest’ultima, Federica Timeto mostra – con un linguaggio forse ancora più esplicito – come si tratti di preservare i “corpi della natura”, femminizzati, razzializzati e animalizzati dal rischio di essere immobilizzati in quanto “risorse per l’estrazione di valore”, in quella forma specifica di produzione che è la ri-produzione. La dislocazione del soggetto ritorna, per vie diverse, anche nel saggio di Marco Maurizi, che si domanda «Cosa significa pensare la natura come soggetto?» (ivi, p. 56), rievocando le analisi di Adorno, Marcuse e Horkheimer. In particolare, ci si interroga sulla possibilità di concepire “la natura come soggetto”, senza con questo ricadere in forme più o meno obsolescenti di antropomorfismo o di animismo. 

In tutte queste occasioni – citiamo di nuovo Leghissa – «le emozioni da sole non bastano» per indicare una concreta via di fuga dall’attuale assetto economico-politico. Malgrado l’assenza di soluzioni – staremmo per dire: “a buon mercato” – rimane nevralgica l’operazione deleuziana ripresa da Filippi: a essere reale non è di volta in volta il ragno, la zecca – o più in generale questa o quella specie – bensì il divenire stesso, da proiettare al di là di ogni possibile classificazione, di ogni “ritaglio concettuale”. Né si tratta semplicemente di sostituire alcune specie attraverso altre: l’invenzione di nuove etichette, magari secondo altri criteri, non farebbero che confermare e anzi consolidare, in realtà, una certa forma mentis – ancora irrigidita attorno alla “superstiziosa credenza nell’esistenza di eterne essenze”, cosa che s’intenderebbe invece mettere in questione. Anche nell’ambito della discussione sulla pregnanza del termine “specie”, assistiamo a un transito dalla domanda socratica – e poi platonica, aristotelica, e in fin dei conti occidentale – “che cos’è?” a un’interrogazione più vasta, più ampia, che ruoti effettivamente attorno a un altro quesito, ossia “che cosa fa?”. Non stiamo indagando, appunto, “che cosa” una certa nozione sia in grado di selezionare e di astrarre dal flusso, dalla concatenazione dei corpi, bensì quali trasformazioni, quali riformulazioni possano essere messe in gioco da quest’ultima sul piano effettuale. Detto ancora in altri termini, non la ricerca di una corrispondenza tra la realtà e le sue rappresentazioni, bensì un’indagine a tutto campo sui gesti operativi in grado di avviare delle transizioni (cfr. ivi, p. 29).

Da ultimo, come terzo punto, è chiaro che tutte queste spie sul cruscotto nel loro lampeggiare mettono in risalto la crisi fondamentale di quell’autoveicolo di fabbricazione occidentale che chiamiamo “ontologia”. Alle spalle di tutti gli interrogativi sul rapporto tra natura e cultura, o sul nesso tra soggetto e ambiente, dietro all’esigenza di oltrepassare l’essenza mirando all’effettività si cela in realtà un’istanza ben precisa: «liberare la vita dalle prigioni dell’uomo», come dice Filippi citando Deleuze. Innanzitutto da quella prigione specificamente europea che prende il nome di ontologia.

Su più versanti s’invocano dunque “pratiche di trasformazione”: più che una “pulizia epistemica” (cfr. ivi, p. 30), si mira a ribellioni capaci di far vacillare la presunta identità umana evitando l’errore di «ricadere nelle secche dell’antropocentrismo» (ivi, p. 13). È inevitabile ravvisare in questa terminologia un intento intrinsecamente rivoluzionario, da giocare contro i vincoli e i condizionamenti del sistema attuale. L’attuale assetto socio-economico, tuttavia, è ben lungi dal presentarsi come un impianto sistematico: si tratta al contrario – per adoperare una felice espressione di Sombart – di un “sabba delle streghe”, ansioso in qualche modo di svincolarsi rispetto ad ogni rigidità strutturale, una materia che ribolle in certo senso avida di novità, di modi inediti di pensare, di innesti, appunto di trasformazioni. 

A proposito di tutte queste spie che si accendono sul cruscotto, torna in mente un passaggio benjaminiano, in cui si sottolinea «la differenza decisiva che esiste tra il semplice rifornimento di un apparato produttivo e la sua trasformazione» [W. Benjamin, L’autore come produttore, Einaudi 2012, p. 154]: gli spunti e le sollecitazioni che emergono leggendo il numero di “aut aut” ci sembra possano essere rubricati nel secondo gruppo, anziché nel primo.

In copertina, fotografia di Simen Johan.

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