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Darwin e l'estetica

15 Febbraio 2025

Arte ed estetica non coincidono: l’estetica cattura un campo di fenomeni assai più vasto.

Ammettiamo pure, per un istante, che qualsiasi considerazione di carattere estetico nasca da quel che Bataille ha chiamato “il miracolo di Lascaux”, facendolo valere come la prima manifestazione, forse meglio come la prima attestazione, di una capacità artistica presente e operante in età paleolitica. In quelle grotte potremmo situare l’episodio inaugurale di ciò che noi oggi designiamo come “arte”: da lì in avanti, quindi, di certo non prima, potranno prendere le mosse tutta una serie di considerazioni sul piano estetico.

Ma allora come spiegare la presenza di un’attitudine estetica in comportamenti di selezione sessuale molto anteriori all’ominazione? Il libro di Lorenzo Bartalesi, Storia naturale dell’estetica, edito recentemente per i tipi di Einaudi, non cerca semplicemente di offrire spunti per rispondere alla domanda. Intende fare molto di più: vuole illustrare, o per lo meno offrirci uno spaccato, di quel vero e proprio “paesaggio culturale” che si schiude di fronte ai nostri occhi quando evitiamo di ridurre l’estetica a una valutazione o a un gruppo di interpretazioni legate ai capolavori della storia dell’arte.

È un libro che ci può servire come mappa perché aiuta a orientarsi in un mondo nel quale è ormai definitivamente tramontata quella tradizione romantica e modernista, pur straordinariamente nobile e raffinata nelle proprie analisi, tendente a sacralizzare la nozione di arte collocandola in una sorta di “spazio etereo”, un’isola quasi inattingibile, circondata dal mare del disinteresse e separata da qualsiasi considerazione utilitaristica e pragmatica.

Si diceva, una mappa, di cui vorremmo offrire di seguito alcune coordinate. Per proseguire nella metafora cartografica, qui Darwin è qualcosa di più che un semplice punto cardinale: è piuttosto una bussola. Seguendo alcune sue folgoranti intuizioni sul ruolo svolto dall’estetica nel corso del processo evolutivo non solo siamo in grado di individuare una serie di questioni teoriche irrisolte e di falle sul piano concettuale implicite in certe teorie precedenti come la teologia naturale. In realtà il pensiero del biologo e naturalista inglese si rivela ancora in grado di segnalare incoerenze e problematicità presenti nei modelli computazionali e nei paradigmi esplicativi di matrice contemporanea. In tal senso potremmo adoperare le sue opere, e i suoi taccuini, cercando di trarre profitto dalla freschezza e dalla vitalità che caratterizzano ogni grande classico. Darwin riesce a farci da guida anche rispetto agli sviluppi più recenti di un complesso di discipline che spesso si presentano più ricche, informate, aggiornate e sofisticate di quanto fossero un tempo, ma sempre più incapaci di proporre una visione limpida e complessiva.

I. Veniamo ora ai punti cardinali. Il primo è senza dubbio il cosiddetto sense of beauty che noi troviamo disseminato negli scritti di Darwin. Sin dalle prime pagine, in realtà, Bartalesi inscena con dovizia di particolari la lotta acerrima che si consuma durante la seconda metà dell’Ottocento tra teologia naturale e teoria dell’evoluzione. Pur tenendo conto di tutte le sfumature, ricordando per esempio come in letteratura si parli di Darwin come “rivoluzionario riluttante”, la frattura appare incomponibile: l’idea di un meraviglioso meccanismo a orologio, di un’armonia prestabilita che presiede alle dinamiche naturali venne drammaticamente sostituita dall’immagine di «una creatura rossa di sangue, nelle zanne e negli artigli», come ha scritto Tennyson. In sostanza, la coda del pavone non è creata da Dio per deliziare gli occhi dell’uomo, ma è il frutto di un processo evolutivo implacabile, selettivo e cruento.

Chi voglia gustare le differenze tra l’approccio morfologico, ancora diffuso e imperante nella biologia romantica tedesca, e quello funzionalista che sta alla base dell’approccio evoluzionista; chi voglia apprezzare come il Paradise Lost di Milton, l’opera di Burke sul sentimento del bello e del sublime e come gli stessi versi di Coleridge abbiano potentemente influenzato l’immaginario di Darwin, fornendo all’autore tutta una serie di metafore e di analogie tramite cui articolare e trasmettere le proprie idee sul concetto di evoluzione – costui non ha che da avventurarsi tra le righe del primo capitolo del volume, ricchissimo di nomi, aneddoti e riferimenti testuali.

Insomma, la bellezza dei fiori, come tutti ormai siamo disposti ad ammettere, non dipende dalla bontà del creatore divino nei nostri confronti, ma in realtà è «il prodotto di “scelte” compiute da generazioni e generazioni di occhi animali» (p. 28): da ciò segue una complessa e intricatissima rete di relazioni coevolutive tra specie diverse, di concatenazioni dalla portata vasta e incalcolabile. Quando proviamo a descrivere simili dinamiche, però, ci troviamo costretti a porre inevitabilmente la parola “scelte” tra virgolette. Come dire: non è proprio così – intendiamoci – è una metafora. Allo stesso modo pure il concetto di “generazione”, e persino quello di “occhio”, sono proiettati un po’ indebitamente sugli animali che hanno “selezionato” la bellezza del fiore: in tal senso la scrittura di Darwin si rivela ancora oggi un sorprendente impasto di rigore scientifico e di enorme capacità metaforica.

Torniamo al “sense of beauty”, altra espressione metaforica che di per sé può voler dire tutto e nulla: se non è una capacità di valutazione connessa alla specie Homo sapiens, per parlarne dobbiamo coinvolgere l’intera dinamica di ciò che chiamiamo natura. Una cosa innanzitutto pare piuttosto chiara: se la bellezza sorge dalla coevoluzione di particolari caratteri che offrono un vantaggio all’organismo che li possiede, allora dovremo smettere di considerarla una qualità oggettiva delle forme naturali, dal momento che pare risiedere piuttosto nelle disposizioni percettive delle specie animali coinvolte (cfr. p. 35).

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Charles Darwin.

Alla luce di queste considerazioni siamo portati ad approfondire altre nozioni, come quella di istinto, che si trasforma in una sorta di memoria inconscia ereditaria. Nei singoli individui, così come nelle specie, agirebbe dunque una “doppia coscienza”, una «doppia individualità implicata dall’abito, quando si agisce inconsapevolmente seguendo un sé più forte, e allo stesso tempo lo si dimentica». È un’osservazione tratta dai taccuini. Difficile trarne una teoria scientifica in senso stretto, ma quante cose capiamo grazie alla sua carica metaforica: che magnifica prospettiva si spalanca all’improvviso sul funzionamento della mente umana! Associazioni mentali che si cristallizzano in abitudini, abitudini che lavorano in noi silenziose, al limite quasi ignorate, dimenticate, ma che partecipano segretamente alle nostre scelte … alle nostre, così come a quelle di tutti gli animali. È Darwin, ma alle sue spalle noi udiamo la voce di Hume!

II. Il secondo punto cardinale è un’implicazione della teoria, «che affidava agli organismi (e in particolare a quelli di sesso femminile) un ruolo attivo nell’evoluzione della loro stessa specie». Sono parole dell’ornitologo Richard Prum, ma potremmo citare quelle di Geoffrey Miller, quando nota che introducendo la scelta estetica del partner come parametro discriminante all’interno della selezione sessuale «la psicologia tormenta la biologia con lo spettro di una scelta dell’accoppiamento potenzialmente consapevole».

Qui il problema diventa epistemologico: un conto è parlare di evoluzione tramite meccanismi di selezione naturale, un altro è far dipendere tale processo da un fattore di selezione sessuale legato al gusto estetico. Bartalesi ci guida ricostruendo il dibattito che vede opposti Darwin e Wallace: su questo punto il fronte antidarwiniano risulta meno sguarnito di quanto saremmo indotti a pensare e può vantare biologi come Karl Groos e Vernon Lyman Kellog, ma tra gli alfieri della tradizione wallaciana si annovera anche il biologo inglese Julian Huxley, e per certi versi lo stesso Ernst Mayr – da ultimo, aggiungiamo anche il biologo cattolico George Mivart, per il quale è inconcepibile come l’evoluzione graduale, uniforme e costante delle strutture, assicurata dalla pressione selettiva della selezione naturale, debba essere inquinata da «un vizioso capriccio femminile».

Riportiamo alcuni frammenti sparsi per dare l’idea di come la teoria darwiniana dell’evoluzione non sia, ancora oggi, un complesso monolitico universalmente accettato: le implicazioni di questa grandiosa rivoluzione sono ancora tutte da pensare, da ponderare, da calibrare e danno vita a un dibattito intellettuale vivacissimo. Qui si apre il campo di battaglia tra modelli diversi. Non si tratta soltanto di questioni legate a una dimensione matematico-computazionale, né alla mera capacità dei modelli di offrire per lo meno previsioni attendibili – in questo contesto il termine “spiegazione” ci pare francamente un po’ pretenzioso. È in gioco molto di più: parlare di scelta estetica non è una pericolosa antropomorfizzazione? E poi, anche ammesso che certe caratteristiche fisiche, come un piumaggio brillante o una coda lunga, siano indicatori di un pool genetico migliore, come spiegare che «il gusto soggettivo si stabilizza per lunghi periodi entro limiti ristretti di preferenze possibili» (ivi, p. 68)? Recuperando un’intuizione di Darwin, Fischer afferma che «le femmine scelgono maschi attraenti perché le altre femmine scelgono maschi attraenti» (ivi, p. 69), e dunque l’individuo che dovesse compiere una scelta contraria alla moda condannerebbe la propria prole a una coda corta e dunque allo scarso successo riproduttivo. Ma allora dovremmo proiettare sul campo dell’evoluzione una dinamica umana – troppo umana – come quella della moda? O la nostra moda non è altro che l’effetto emergente di una serie di meccanismi che condividiamo, a livello socio-biologico, con ampie porzioni del regno animale e vegetale?

III. Non possiamo addentrarci troppo in tutti i vari meandri e passiamo subito al terzo punto cardinale. Il problema della scelta estetica, infatti, sembra ampliarsi in maniera immane: le preferenze estetiche s’intrecciano e si scontrano con le direzioni adattative e con l’intero meccanismo architettonico della cognizione. Potremmo sintetizzare il tutto con l’espressione “fenotipo esteso” coniata da Richard Dawkins. I fattori che influenzano la scelta della femmina diventano incalcolabili e si estendono a elementi assai eterogenei: il nido, la posizione sociale, la capacità di procurare cibo. La scelta della femmina può essere dunque manipolata a vari livelli dal maschio corteggiatore e ciò consente di mettere in campo una serie di ulteriori risorse legate alla neutralizzazione della reazione immediata, alla sostituzione di un circuito di attenzione autotelico, il che coinvolge l’evoluzione di un sistema cognitivo più complesso, dove si gioca su bias sensoriali, percettivi e neuronali. Questo supplemento teorico consente in effetti di svincolarsi dalla tesi di un’origine esclusivamente sessuale del senso estetico animale – come già Darwin aveva intuito e ipotizzato.

IV. Il quarto e ultimo punto riguarda la caratura dell’estetico all’interno di quella specifica linea evolutiva da cui è emerso ciò che chiamiamo Homo sapiens. John Pfeiffer ha parlato di “esplosione creativa”, riferendosi a quella brusca discontinuità nell’evoluzione umana che ha avuto luogo tra 60.000 e 40.000 anni fa: di questo “grande balzo in avanti” l’arte paleolitica è senz’altro la testimonianza più evidente (cfr. p. 161). Forse l’arte parte da lì, ma non certo l’estetica: anzi, si può supporre, con Darwin, una sorta di anteriorità evolutiva della dimensione estetica rispetto al pensiero simbolico e forse persino allo stesso linguaggio articolato (cfr. p. 175). Dobbiamo concludere allora che l’intera capacità simbolica sia l’effetto emergente di un sistema complesso legato a componenti cognitive preesistenti?

Dovremmo pensare – come suggerisce Desideri – a schemi di tenore estetico assai indeterminati, particolarmente elastici e quindi capaci di catturare fenomeni tra loro assai distanti, in qualche modo mettendoli in dialogo tra loro? E quale ruolo svolgerebbe l’arte vera e propria in quest’ottica? L’arte scopre nuovi schemi, li implementa, amplia e rafforza quelli già operanti? Sono tante le piste di ricerca che si aprono gettando uno sguardo sulla storia naturale dell’estetica.

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