Trump, Harris e il male minore

23 Settembre 2024

«Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male» diceva Hannah Arendt. Certo, in quel caso si stava riferendo al Terzo Reich, «che nemmeno con tutta la migliore volontà del mondo – precisava nelle righe successive – si poteva chiamare male minore». La formula del “male minore”, tuttavia, è riuscita a insinuarsi con grande rapidità anche nei paesi democratici.

Anzi, nel secondo dopoguerra la democrazia stessa si presentava vestendo i panni del male minore: «potrebbe non esistere alcun buon regime politico, ma la democrazia è sicuramente la meno malvagia delle alternative»: prima di essere riciclata da Churchill, durante un dibattito alla Camera dei comuni nel 1947, la frase era stata coniata qualche mese prima da Camus, in un intervento apparso sulle colonne del “Combat”, giornale nato qualche anno prima su iniziativa della Resistenza francese durante l’occupazione nazista. 

In un tono a metà tra disillusione e prudenza l’autore si muove tra le prime, fragili impalcature della Quarta Repubblica con le stesse movenze di una Trümmerfrau: la sua parola d’ordine, collocata in vari luoghi nevralgici dell’articolo, è modestia

Il ricordo troppo recente, troppo cocente, di quanto era accaduto proibiva a chiunque di ammantarsi di una presunta superiorità morale: rispetto ad altri regimi politici la democrazia non osava presentarsi come il bene, come il vero, come merce da esportazione. Con una buona dose di modestia, si proponeva piuttosto come il meno peggio.

In questa retorica del male minore, tuttavia, si annida – temo – qualcosa di incoercibile, di intrinsecamente connaturato alla dinamica democratica: l’ideale di una perfetta eguaglianza mal sopporta persino il minimo dislivello che si viene a creare tra governanti e governati sicché, come scriveva Tocqueville, «per la democrazia il governo non è un bene, è un male necessario». Indipendentemente dal colore politico, i governanti tendono a presentarsi come “il meno peggio”.

La democrazia si trova contesa tra il dogma trinitario della governabilità, della stabilità e della legittimità e quel senso di costante insoddisfazione che aleggia sul complesso dei cittadini. La maggioranza – come insegnava Dahl nella sua Prefazione alla teoria democratica – non si configura come una maestosa falange che marcia compatta alla conquista dei propri obiettivi comuni: gli innumerevoli compromessi, le continue concessioni estorte da gruppi relativamente esigui di votanti erodono quella supposta unità d’intenti. Tensioni interne e veti incrociati indeboliscono la capacità di realizzare un programma e riducono la maggioranza a una sorta di espressione aritmetica. Senza dimenticare che, dall’altro lato, la minoranza sconfitta è (quasi sempre) al lavoro per cercare di spostare il confronto politico su altri piani e recuperare porzioni di elettorato.

Il malcontento è sollecitato, peraltro, da una sorta di insaziabilità che connota a monte uno “stile di vita”, tipico dei paesi democratici, che si radica sul terreno economico-produttivo prima ancora che a livello politico-istituzionale.

Questa “incontentabilità di fondo” – per cui alla democrazia si chiede di generare sempre più benessere, di erogare sempre più diritti: sempre di più, di tutto … di più – determina una irrequietezza diffusa che se da un lato è benzina preziosa per l’intrapresa economica, dall’altro è fautrice di osmosi continue e repentine tra gli elettorati dei vari partiti: si scatena la caccia agli indecisi.

La stessa leadership oggi si misura sulla capacità di “cambiare tavolo”, immaginandosi e inventandosi nuove occasioni di scontro, tramite cui ottenere consenso: non solo tra maggioranza e minoranza, ma anche all’interno della stessa maggioranza i partiti – o le correnti – testano continuamente la tenuta degli argini dell’avversario, per cercare di raccoglierne il flusso di voti in uscita.

Kamala Harris o Donald Trump? Nella sua risposta, prima di sciogliere il dilemma, il pontefice ha evidenziato come «ambedue siano contro la vita». 

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Due brevi osservazioni sul punto. La prima. Fiumi d’inchiostro sono già stati spesi, e verosimilmente molti altri articoli verranno scritti, con l’intento di sottolineare l’incomparabilità delle posizioni assunte dai due candidati rispettivamente sul tema dell’aborto e dell’immigrazione: io credo sia invece importante apprezzare lo straniamento, potremmo dire l’effetto di “rimbalzo”, prodotto da questo abbinamento. L’equiparazione inusitata tra i due risveglia per un attimo dal torpore di una quotidianità ridondante. Le parole del pontefice, di questo «ottantottenne “imperatore della pace”» – per usare la formula con cui Musil si riferiva nel suo grande romanzo al sovrano Francesco Giuseppe – operano quasi come una cartina di tornasole, una sorta di “marcatore di civiltà” capace di segnalarci un elemento trascurato, sottaciuto, ignorato all’interno dell’assetto cui sono improntate le dinamiche politiche attuali.

Questo ci conduce direttamente alla seconda osservazione. Parlando da una posizione – verrebbe quasi voglia di dire da un tempo, forse da un evo – in cui non si è ancora consumato il taglio che separa il trascendente dal gioco politico, le parole del papa, ispirate alla non negoziabilità della vita, producono un esito inconsueto: accomunando le due posizioni, pur così diverse, emerge un fattore strutturale che consente di guardare per un istante al sottosuolo del dibattito, al di là del peculiare giudizio di valore o dello schieramento partitico di appartenenza. La leadership oggi si consuma letteralmente nella capacità di creare a più riprese quelli che potremmo chiamare dei “capri espiatori al margine”.

Nell’operazione simbolica del capro espiatorio Girard ci ha insegnato a riconoscere l’unanimità non violenta: l’individuazione e dunque l’esclusione del capro espiatorio diviene momento aggregante attorno a cui si rinsalda la comunità, che proprio perciò non si avvede del carattere escludente, e dunque violento, di quella stessa operazione. Siccome accettata dall’intero gruppo, non se ne avverte la dimensione cruenta. 

La frammentarietà inesprimibile che caratterizza oggi la società si riflette nella composizione estremamente variegata delle aggregazioni politiche: il tasso di eterogeneità rende qualsiasi manifesto programmatico, qualsiasi coacervo di idee o di riferimenti del tutto insufficiente a garantire la coesione complessiva del partito, che dunque ha bisogno di ricompattarsi continuamente al margine tramite l’invenzione di tutta una serie di figure che garantiscano su singole questioni, durante brevi congiunture, la “tenuta locale” di varie porzioni periferiche di elettorato.

Aborto e immigrazione sono esempi magari anche emblematici di un medesimo schema di gioco: sono carte che i partiti estraggono di volta in volta dal mazzo per costringere alcune fasce di votanti, quelle via via più sensibili alle tematiche in questione, a schierarsi toto corde per una fazione, senza un’effettiva adesione, ma per esclusione dell’avversario, cadendo nella trappola … del meno peggio.

Il ragionamento dell’elettore potrebbe essere simulato in questo modo: “quel partito mi appare impresentabile sotto vari punti di vista, … ma per lo meno mi garantisce il diritto all’aborto”. Mentre l’altro pensa: “quel partito non mi convince su vari punti, … ma per lo meno mi garantisce dall’immigrazione selvaggia”. I partiti moltiplicano le occasioni e la superficie di attrito – generando continui capri espiatori – senza preoccuparsi di assegnare coerenza e sistematicità all’insieme delle proprie istanze. «Sempre più ordini e sempre meno ordine» direbbe forse Musil, ricordando come nelle democrazie non c’è verso che si generi una filosofia convincente: si filosofeggia moltissimo al minuto, «mentre regna una pronunciata diffidenza contro la filosofia all’ingrosso».

E dunque Kamala Harris o Donald Trump? Nella risposta finale papa Bergoglio finisce per riesumare, forse inevitabilmente, la retorica del male minore, senza nemmeno precisare quale sia, affidandosi piuttosto alla voce della coscienza del singolo, che è un modo tramite cui far rientrare surrettiziamente dalla finestra quella trascendenza che il congegno politico moderno aveva provveduto a scacciare dalla porta mediante quel processo che per semplicità riassumiamo col termine “secolarizzazione”. Di questa illuminazione trascendente … si faccia carico il singolo, scegliendo il meno peggio.

D’altra parte, nel suo Tractatus, persino Spinoza avvalorava, a sua volta, la logica del meno peggio, ricordando come nessuno sia disposto ad abbandonare qualcosa che giudica bene se non per la paura di un danno maggiore. Oppure, oppure, ci sarebbe anche un’altra possibilità: abbandoniamo qualcosa che giudichiamo bene per la speranza di un bene maggiore. Questa parrebbe l’alternativa scartata per così dire a priori dalla dinamica democratica, che finisce per giocare sempre al ribasso: i pezzi che compongono l’ingranaggio vengono mantenuti rigorosamente separati, anzi vengono giocati uno contro l’altro, piuttosto che essere indirizzati verso una progressiva integrazione e sinergia. Inutile dire che l’innesco di una logica del bene maggiore consentirebbe, forse, di allargare lo sguardo e conseguire traguardi di portata più vasta.

Anche l’appello alla coscienza, di questi tempi, rischia allora di cadere nel vuoto, nel vuoto dell’indecisione, dell’incapacità di decidere. «Noi siamo l’epoca della scheda elettorale» leggiamo in L’uomo senza qualità, dove in realtà mettiamo la scheda in mano ai cosiddetti fatti perché votino essi in nostra vece. Noi oramai votiamo per esclusione, guidati dai fatti, dai fatti più minuti, dall’ultima notizia. «Non c’è il coraggio di decidere che cosa ha valore e che cosa non ne ha, e democrazia, per dirlo con la massima concisione, significa: “Fai quello che accade”».

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