… saremo Fenici o Micenei?

14 Novembre 2024

La storia, scriveva Croce, è sempre storia contemporanea: quando Eric H. Cline nel suo nuovo libro La sopravvivenza delle civiltà, edito per Bollati Boringhieri, e tradotto da Susanna Bourlot, studia gli Egizi, i Fenici, gli Assiri o i Micenei non sta parlando di loro, ma di sé. Meglio ancora, sta parlando di noi.

Alzi la mano chi non ha mai sentito l’espressione “Medioevo ellenico”, quel periodo buio in cui i feroci guerrieri dorici, con le loro armi di ferro, posero fine alla civiltà micenea: la grande invasione dei Dori, avvenuta attorno al 1200 a.C., avrebbe gettato la Grecia continentale in un declino secolare. A prima vista tutto chiaro, anzi ineccepibile, almeno a partire da una serie di riscontri archeologici, di ricerche e volumi pubblicati lungo l’arco di un intero secolo.

«Solo che, probabilmente, – ironizza Cline – non è andata così». In realtà quella di un’epoca buia nella storia della Grecia arcaica è una favola, un mito nato negli anni Novanta dell’Ottocento e alimentato, ancora sino a pochi decenni fa, da volumi come quello di Antony Snodgrass, The Dark Age of Greece, 1971 e Vincent Desborough, The Greek Dark Ages, 1972.

I. La leggenda vuole che attorno al XII secolo a.C. si sia verificato uno stato di stagnazione e declino generalizzato, che coinvolse non soltanto la Grecia, ma tutte le maggiori civiltà dell’epoca: un collasso dell’organizzazione amministrativa e della classe dirigente tradizionale tale da determinare quasi ovunque la scomparsa della scrittura; il crollo della produzione economica e della rete commerciale; il calo demografico, l’abbandono di vari centri abitati e l’inizio di grandi ondate migratorie. Tutto ciò comportò un abbassamento degli standard e delle aspettative di vita connesso a periodi di siccità, di carestia, allo scoppio di epidemie e alla ripresa di un’intensa attività bellica.

Oggi i contorni di questa autentica catastrofe appaiono assai più sfumati: l’autore mostra come, alla luce degli studi più recenti, il passaggio dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro possa trovare spiegazione soltanto venendo inserito all’interno di un contesto assai vasto, in cui si tenga conto di una serie di dinamiche e processi peculiari.

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Quello che Cline chiama “il Collasso” non si costituisce come una netta cesura rispetto al passato: nessun crollo repentino, non abbiamo una coltre che cala uniformemente su tutte le civiltà, anzi le tipologie di reazione messe in campo di fronte alla crisi appaiono estremamente differenziate, magari anche parzialmente confrontabili, ma mai perfettamente omologabili. Come abbiamo detto sin dall’inizio, non stiamo parlando semplicemente dei tempi che furono: si parla sempre di noi. Per esempio, a proposito dell’antico regno egizio, l’autore prova a sintetizzare in pochi tratti l’impatto causato dalla crisi: «il paese sopravvisse, ma con un minore livello di vivacità socioculturale, un’amministrazione spaccata in più fazioni governanti, un ruolo internazionale limitato e un potere relativamente esiguo per la maggior parte del tempo» (Cline, p. 62-63). Sarebbe difficile trovare, oggi, un paese occidentale a cui non si attagli una simile descrizione.

Al posto di generalizzazioni, tuttavia, Cline cerca di dipingere un quadro estremamente dettagliato, in cui distinguere nella maniera più accurata possibile la cultura egizia da quella di Israele, le dinamiche dell’impero assiro da quelle babilonesi, gli Ittiti dalla cultura minoica e micenea. Abbiamo adoperato la parola “quadro” non per caso. Gli archeologi Patricia McAnny e Norman Yoffee hanno paragonato lo studio del collasso di una civiltà all’osservazione di una fotografia digitale ad alta risoluzione, per cui la foto – nitida e compatta se guardata a distanza – si dissolve in elementi sconnessi se esaminata da vicino. In polemica con questo approccio, Cline paragona piuttosto il Collasso a un quadro impressionista: “è vero che la rete globalizzata del Mediterraneo crollò, e che ci fu un passaggio, una profonda transizione dall’Età del Bronzo a quella del Ferro, ma se ci avviciniamo le cose diventano più granulose – le singole macchie (cioè le società) risultano separate all’occhio, e cominciano a emergere anomalie ed eccezioni, tanto che lo spettatore rischia di non vedere più il quadro nel suo insieme e di perdersi invece nei dettagli” (Cline, p. 168).

II. Qui vorremmo concentrarci soltanto su tre esempi: tre porzioni del quadro che offrono un’immagine piuttosto eterogenea di ciò che soltanto per semplicità possiamo ancora continuare a chiamare “crisi della civiltà”.

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Primo: l’impero egizio reagì al crollo in maniera nettamente diversa rispetto a quello assiro. Già nel corso del regno di Ramses III alcuni ritrovamenti attestano quella che viene considerata una sorta di vertenza sindacale ante litteram; risalgono invece all’età di Ramses IX i cosiddetti “Papiri dei furti delle tombe”. Tutti elementi che confermano l’idea di una diffusa instabilità economica nella regione. Lo stesso racconto di Wenamun, che narra il viaggio di un sacerdote del tempio di Amon, avvenuto attorno al 1075 a.C., mostra la perdita di importanza patita dall’Egitto sulla scena internazionale. Cambiano le condizioni e cambiano anche i costumi: se ci affidiamo ad alcuni passi della Bibbia, noi sappiamo che nell’Età del Ferro il faraone aveva dato la propria figlia in moglie a un re straniero, in questo caso allo stesso re Salomone (cfr. 1Re 9, 16-17): usanza semplicemente impensabile durante l’Età del Bronzo.

Anche gli Assiri chiaramente si trovarono ad affrontare un peggioramento delle loro condizioni complessive, ma – forse anche beneficiando di una tregua climatica durata una cinquantina d’anni – il re Aššur-reša-iši e suo figlio Tiglatpileser I riportarono straordinari successi militari: sconfissero Nabucodonosor colmando un vuoto di potere politico; intrapresero grandi progetti architettonici mantenendo la macchina amministrativa; ottennero grandi donazioni da parte delle città costiere di Bibo, Sidone e Arwad. Certo, commenta Cline, il quadro andò sensibilmente deteriorandosi: all’apice dell’Età del Bronzo, nel corso del XIV secolo, Assiri ed Egizi si scambiavano doni sontuosi, già nel XII secolo i re delle città minori inviavano tributi al re assiro, mentre dal IX secolo in poi gli Assiri si dedicavano semplicemente alle razzie, che colpivano Fenici e altri popoli limitrofi.

Secondo: di fronte al crollo dei grandi imperi assistiamo all’ascesa di piccoli regni. Forse il caso più emblematico è dato dal sito di Rehov, una città cananea: per dare l’idea della ricchezza della città, Cline precisa che gli scavi svolti tra il 1997 e il 2012 hanno portato alla luce un apiario, collocato in una zona abbastanza centrale, con trenta arnie, della capacità di oltre cinquanta litri: forse anche per questo – suggerisce l’autore – si parlava del paese in cui scorrevano latte e miele (si veda ad esempio Es 3,8; Num 14,8; Deut 31,20). Volendo ampliare, però, la prospettiva, tale riferimento si presta ad essere collocato entro un’ottica decisamente più vasta: «l’ascesa delle microsocietà dell’Età del Ferro, dai regni aramei a quello di Israele e di Giuda, forse dipese solo dal fatto che finalmente questi regni uscirono dall’ombra di imperi un tempo potenti come l’ittita, l’egizio, l’assiro e il babilonese – è esattamente quel che secondo Renfrew capita dopo il crollo di un sistema – e dal fatto che piccole attività mercantili private presero il posto di quelle statali del Bronzo» (Cline, p. 197).

Terzo: Ciprioti e Fenici rispetto ai Micenei. Grazie alla grande capacità dimostrata nell’assorbire gli effetti della crisi, Ciprioti e Fenici sono stati contrassegnati da Nassim Nicholas Taleb come un caso di “prosperità nel disordine”. A sua volta Carol Bell, una storica e archeologa britannica, ha mostrato come Cipro e i Fenici abbiano assunto una posizione peculiare all’interno della crisi che colpì la regione: «privi di mire imperiali e già abituati a operare in un ambiente commerciale decentralizzato, i mercanti di queste due regioni rimasero aperti agli affari, con l’obiettivo principale di generare guadagni sufficienti a portare avanti il commercio».

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Di contro all’antifragilità manifestata da ciprioti e fenici, quasi opposto fu l’atteggiamento dei micenei, che non riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni. Anche in quel caso ovviamente, come nota Cline, il Collasso non si configurò come una netta cesura: gli stili dell’arte fittile sopravvissero e si registrò una certa continuità anche a livello religioso, in particolare nel culto delle varie divinità. Tuttavia, i segni del declino sotto il profilo economico, politico e culturale sono evidenti: gli stessi palazzi risalenti alla tarda Età del Bronzo – secondo Alex Knodell – non devono essere considerati il culmine di una traiettoria evolutiva di formazione dello Stato cui poi seguì un crollo, bensì una serie di anomalie storiche ed esperimenti sociali falliti.

III. Misurare il diverso grado di resilienza manifestato dalle varie civiltà di fronte alla crisi si riflette inevitabilmente anche sul presente. Potremmo infatti rivolgere a noi stessi la domanda: siamo Fenici o Micenei? Cline si pone sulle orme di Erika Weiberg, dell’Università di Uppsala, che adopera la teoria della resilienza per cercare di capire meglio che cosa comportò il collasso, ma soprattutto per chi. Già, per chi? Per chi si trattò effettivamente di un collasso? Per chi di una transizione? E per chi invece di un’occasione utile addirittura a migliorare la propria qualità della vita?

Alla luce del libro di Cline cominciano a saltare tutta una serie di presupposti: forse non si trattò affatto di un “periodo buio”, anche perché sarebbe piuttosto bizzarro pensare che questo tempo oscuro cominci con una delle più grandi innovazioni tecnologiche mai viste.

E non si trattò nemmeno di un “Medioevo”. Tale terminologia, infatti, viene mutuata, a sua volta, a partire da un pregiudizio: si ritiene in effetti che al termine dell’impero romano l’Occidente avrebbe attraversato una supposta “fase buia” – cui dobbiamo, peraltro, cose come i mosaici di Ravenna.

Ma, in realtà, persino la dicitura apparentemente più “neutra” di un passaggio dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro manifesta ormai una certa inadeguatezza: senza nulla togliere alla genialità dei fabbri ciprioti, sottolineata nei suoi studi da Susan Sherrat, la scoperta e la diffusione di tali tecniche dipende chiaramente anche dall’interruzione di alcune vie di commercio che portavano stagno e rame dall’Afghanistan e dall’Asia centrale. Né si deve pensare a una sostituzione improvvisa di certi metalli grazie all’innovazione determinata dalla scoperta del ferro. Come ha scritto l’archeologo Nathaniel Erb-Satullo, per lo meno in certe aree, il ferro dapprincipio potrebbe essere servito più come «una integrazione a un’economia di metalli in espansione più che come sostituto del bronzo».

Certamente la transizione fu talmente lenta e legata a un complesso di fattori talmente eterogeneo da non essere stata nemmeno lontanamente percepita dagli effettivi protagonisti. Tale osservazione ci conduce a una considerazione ulteriore, formulata da Jean Paul Crielaard, archeologo ad Amsterdam: «membri dell’élite cipriota erano in contatto con individui di rango elevato in Sardegna e, tramite loro con aree lontane dell’ovest. […] una rete mediterranea del commercio internazionale stava già cominciando a riformarsi, perlomeno a livello di élite, con l’obiettivo di acquisire merci esotiche di grande valore intrinseco e simbolico».

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Non soltanto ci sono civiltà che si adeguano passivamente alle condizioni legate al Collasso, mentre altre manifestano una certa resilienza ed altre ancora assumono un atteggiamento cosiddetto antifragile: oltre alle differenze che caratterizzano le varie civiltà, noi troviamo anche, all’interno delle medesime civiltà, delle differenze legate – diremmo così – alla classe sociale di appartenenza. Una “differenza di prospettiva” che potrebbe proporsi nuovamente, di fronte alle crisi che minacciano la nostra civiltà, per cui anche oggigiorno il Collasso, qualora si manifestasse, non verrebbe percepito da tutti allo stesso modo.

Ma, ancora, l’idea che vi sia stata una qualche cesura appare problematica non solo dal punto di vista di questa o quella civiltà, o di questa o quella classe sociale, ma addirittura per noi che osserviamo il fenomeno a millenni di distanza. Perfino la nozione di resilienza è soltanto uno strumento tramite cui noi misuriamo le diverse risposte messe in campo di fronte al Collasso.

Qui ritorna prepotentemente la domanda di Weiberg, che in qualche modo pare ispirare il saggio di Cline. Dinnanzi a ogni crisi occorre chiedersi innanzitutto: “per chi?”

Tutte le immagini sono state prese dall’archivio online del Museo Egizio di Torino.

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