Corpi e città
L’ombra della pandemia è sempre più lunga.
Non tanto per la drammatica conta delle vittime e le conoscenze incerte sulle tracce che ha lasciato nei nostri corpi, ma anche per l’onda lunga di scritture, ricerche, saggi e racconti che sono stati generati dal rapporto diretto con una delle esperienze globale più potenti e simbolicamente devastanti della nostra Storia recente.
Per chi ha avuto il coraggio di evitare il processo di rapida rimozione del trauma decidendo, invece, di guardare dritto negli occhi della Medusa (magari forniti di un utilissimo specchio) si è aperto un mondo importante di riflessioni e rallentamenti concettuali che stanno cambiando la nostra prospettiva sulle cose, su di noi e sul mondo che ci circonda.
Uno dei recenti lavori che entra nella carne viva di questa condizione è sicuramente Le mura di Troia. Lo spazio ricompone i corpi, ultima fatica di Cristina Bianchetti per Donzelli Editore, che punta dritto alla relazione complessa e irrisolta tra il corpo, i nostri corpi e l’urbanistica, disciplina di cui la Bianchetti è sicuramente una delle intellettuali e teoriche più interessanti e sofisticate.
I lavori di Cristina Bianchetti sono tutti segnati da una qualità scientifica molto alta che sta alla base dell’impostazione e la struttura imponendo al lettore un’attenzione necessaria nell’affrontare temi e problematiche che hanno alle proprie spalle una lunga tradizione di ricerche che non possono essere disattese, ma questo corpus teorico di riferimento viene accolto ed elaborato da una scrittura chiara e lineare che ti accompagna lungo il percorso, rendendo un vero lavoro accademico accessibile anche al pubblico più largo. Non esiste alcun compiacimento, anzi a volte si percepisce il riguardo per chi legge e una forma di pudore intellettuale nell’affrontare temi a volte scomodi e che chiedono di essere elaborati maggiormente e sviluppati all’interno di un dibattito sempre più povero.
L’autrice entra in punta di piedi nel tema del rapporto tra corpo e urbanistica malgrado si percepisca chiaramente l’urgenza che ha portato a sviluppare questi argomenti così importanti e centrali se si vuole cercare di rilanciare una disciplina come l’urbanistica che sembrava destinata a essere considerata un apparato del secolo appena passato.
In diversi passaggi del libro l’autrice tiene a sottolineare che “è solo l’inizio” e che “c’è ancora molto lavoro da fare per affinare” questo tema e approfondirlo, perché l’obiettivo di fondo è passare da un’idea di urbanistica che guardava ai corpi come a dei numeri, oggettivi e impersonali, inseriti in una visione della città meccanismo in cui diverse quantità erano inevitabilmente coinvolte e considerate, all’immagine di paesaggio urbanizzato popolato di corpi desideranti, vivi nella loro carne, contraddittori, individuali e insieme collettivi, che modificano quotidianamente il corpo vivo della città, mettendo continuamente in contraddizione le sue forme e gli strumenti con cui si cerca di regolarla.
La cautela dimostrata è una forma sottile di rispetto per un tema epocale che va affrontato al di là dei facili slogan e di semplificazioni che rischierebbero di portare a danni maggiori e a una demagogia del corpo che si presterebbe a interpretazioni errate.
“Il corpo dunque come tema del fare urbanistica. Un modo che permette di ridefinire un campo critico e un campo di esperienza. Mettere il corpo al centro non significa guardare al corpo in faccia, ma coglierne lo statuto ontologico nella precarietà, nella vulnerabilità, nel desiderio, nel lutto”. E ancora “È necessario un disassamento: guardare al corpo come apertura al mondo. Come tracce e stracci. Strati, impronte, posture, respiro, voci. Al corpo nella sua irriducibile materialità, alla sua immanenza. L’ambiguità, l’apertura, la contaminazione sono il corpo.”
Il corpo è al centro di un mondo globale che sta vivendo una potente e radicale metamorfosi, con tutti i gradi di ambiguità e fragilità che può esprimere.
Il corpo malato della pandemia, in cui i sensi erano annullati e il contatto negato; il corpo ostentato nella cultura occidentale e negato in quella orientale e islamica, ma con il risultato paradossale di una condizione sempre più impalpabile, quasi assente; il corpo parlato, la sessualità ostentata in un tempo sempre più sterile e performativo; il corpo smaterializzato nel digitale e insieme cyborg perché iperconnesso in un continuo passaggio tra reale e virtuale i cui confini sono ancora tutti da comprendere; il corpo anziano e fragile dell’umanità occidentale contro il corpo giovane dei Paesi che crescono in altre latitudini del mondo; il corpo di genere, di una sessualità che moltiplica le denominazioni per essere sempre più inclusiva e che rischia di individuare un genere per ogni, singolo, abitante della terra; i corpi dei viventi, non solo umani, che con noi condividono il pianeta, che siano alberi, forme organiche e inorganiche, batteri, l’aria che respiriamo, la terra che calpestiamo, i mari che si fanno più piccoli; il corpo che desidera e che si esprime nei social e nelle nuove forme pubbliche di ri-occupazione di luoghi dalle manifestazioni alle occupazioni passando per le forme comunitarie di riappropriazione; il corpo domestico e il corpo pubblico; il corpo funzionale e quello emozionale. Tutta questa massa di carne, sogni, parole, sensi, contatti, scontri e gesti compongono le nostre città e i paesaggi che attraversiamo continuamente e devono ritornare ad essere al centro di ogni possibile ragionamento progettante e regolante sulla forma delle nostre metropoli nei decenni a venire se vogliamo superare la logica della città-macchina che ha costruito il nostro immaginario e le forme degli spazi negli ultimi duecento anni.
Il libro di Cristina Bianchetti fa il grande sforzo di affrontare questa prospettiva analizzando i tentativi che la cultura del progetto e filosofica ha portato avanti, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, di rendere visibile lo statuto del corpo come necessario per guardare in maniera più ricca e problematica alla forma della città e alla sua crescita provando a definire quelle forme di cartografie dello spaesamento indispensabili, oggi, per affrontare la condizione di metamorfosi liquida in cui siamo immersi. In questo l’autrice ci porta definitivamente al di fuori di una logica prescrittiva del progetto, unita a una specifica lettura politica della relazione tra corpo e autorità decisiva per interpretare la città minerale del XIX e XX secolo. Provare a guardare alle logiche del progetto partendo dal “punto di vista del corpo” credo sia necessario per avviare la riforma radicale degli strumenti concettuali e pratici che applichiamo per guardare alle forme urbane che verranno. Io sono convinto che i prossimi decenni chiederanno sempre più urbanistica, ma sicuramente non l’urbanistica che viene ancora insegnata in molte università e che definisce gli strumenti di piano applicati nelle nostre amministrazioni. Si tratta di una riforma radicale e necessaria perché questa arte del fare città possa tornare a essere un motore di costruzione fisica e poetica dei nostri spazi collettivi e individuali.
Come ci ricorda la Bianchetti “Il progetto non si costruisce dunque a partire da un’interrogazione morale su cosa si debba e non si debba fare per avere una città bella, equa e sostenibile, ma su ciò che si è in grado di fare stando dentro quello spessore liquido, quella marea lucente. Non si costruisce a partire da un’interrogazione che riguarda il dovere, ma ciò che i singoli fanno quando agiscono, si muovono, abitano. Ciò che sono capaci di fare. È un punto di vista pratico prima che morale”.
Il cambio di prospettiva che l’autrice invoca è quanto mai necessario ed è anche grazie a lavori di ricerca teorica come questi che possiamo cercare di definire gli strumenti che ci aiuteranno a immaginare spazi e città differenti per gli anni che verranno.