Gae Aulenti inesauribile

21 Giugno 2024

“Gae Aulenti dice, con calma: mai Decoration; soltanto Design. Spiega meglio, criticamente: Struttura, non superficie. Cioè, Forma, non epidermide, né rivestimento. Fondato su questi principi, il suo passaggio dall’architettura all’arredamento diventa un episodio addirittura emblematico di “storia culturale” nell’Italia attuale – e non meramente un aneddoto nelle “cronache del gusto”. 

L’incipit del ritratto di Alberto Arbasino dedicato a Gae Aulenti (in Ritratti italiani, Adelphi, 2014, p.37) è uno straordinario concentrato di acutezza rispetto al personaggio descritto e al tempo che abita, per quello che considero a oggi uno dei testi meglio sviluppati su uno dei talenti più complessi della cultura architettonica italiana del secondo dopo-guerra.

Ancora: “Non mi interessa trasformare o truccare una superficie, rivestendola di stoffa o di specchi o di marmo. Non mi interessa abbellire pareti che rimangono nude e inutili e senza senso finché non arrivano i mobili e i quadri. Mi importa soprattutto precisare uno spazio, definire una struttura, già tanto compiuta e completa di per sé, che entrando in questi ambienti vuoti, sembrino già perfettamente pieni, e ci si stia benissimo, abitando uno spazio già tutto risolto.” (id. p. 41)

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La scrittura di Arbasino chiede attenzione, misura le parole con sottigliezza e spesso ferocia, ma non in questo medaglione in cui traspare tutta la considerazione per la Aulenti, forse temperata da una collaborazione teatrale sul Laborintus II di Luciano Berio per il Festival di Spoleto, mai andata in porto. Da questa intervista, apparsa su Vogue USA nel 1970, si percepisce il tono concentrato, quasi nervoso di questa “signora pallida e bruna, molto seria oppure molto ridente, dalla allure quasi di campagna e dalla mente solidamente da ingegnere (che) appartiene a un’Italia perfettamente nordica.” (id. p. 40) Ricordo bene lo sguardo intenso e ironico con cui Gae Aulenti ti osservava. Poche parole, precise e definite, la sigaretta sempre in mano, la matita vicina e poi intorno una casa che era studio e che tornava a diventare casa grazie a una semplice porta che separava, fragilmente, i due mondi che facevano tutt’uno nella sua esistenza. Il suo era un mondo di forme e spazi, non di parole, sarà la matrice friulana, asciutta, essenziale, severa, “quasi di campagna” che però si fondeva mirabilmente con un’anima metropolitana, mondana e internazionale che ha fatto di lei una delle autrici più anomale e interessanti della scena artistica italiana dagli anni Sessanta a oggi. 

Relegata ingiustamente nel recinto dorato delle poche donne-architetto note e di successo in un’Italia che ancora oggi fatica a trovare una lettura naturale al talento senza cadere nelle riserve di genere, tipiche di un Paese in cui l’argomento non solo non è risolto, ma vede ancora un preoccupante discrimine economico e geografico. È indubbio che Gae Aulenti, insieme a Cini Boeri e a Nanda Vigo, siano le tre personalità migliori e di maggior impatto in un mondo professionale a trazione maschile, segno di un cambiamento sociale e culturale decisivo. Così come colpisce come tutte e tre le autrici siano state troppo spesso relegate nell’immaginario al mondo degli interni e del design, quando le loro storie dimostrano una versatilità disciplinare e un’originalità progettuale notevole rispetto al momento in cui hanno operato.

Per tutti queste esperienze individuali siamo entrati nella fase storica in cui è possibile cominciare a uscire dai luoghi comuni e dagli schematismi della critica, per leggere una diversa generazione di autrici e autori, tornando ai materiali d’archivio e a una fusione fredda che consenta una riflessione più generosa e necessaria su un momento della nostra cultura architettonica centrale e riconosciuto internazionalmente. 

Durante l’ultimo Salone del Mobile si è aperta presso la Biblioteca del Parco Sempione una piccola mostra ben pensata e di grande sensibilità dedicata a Cini Boeri, mentre tra le mura del Palazzo della Triennale si aprivano in sequenza le mostre dedicate ad Alessandro Mendini e a Roberto Sambonet. A stretto giro e con un importante sforzo produttivo si è appena inaugurata la prima vera mostra monografica dedicata a Gae Aulenti a dodici anni dalla sua scomparsa, curata da Giovanni Agosti.

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Foto di Alessandro Saletta-DSLStudio.

Non è un caso che queste mostre siano state prodotte e inaugurate in questo momento in cui sta diventando sempre più urgente rileggere un momento storico così denso dove l’azione progettuale e intellettuale di progettisti ha definito il carattere eterodosso e originale della nostra post-modernità a partire dagli anni Sessanta, definendo una linea di sottile separazione dalla prima stagione eroica del modernismo milanese post-bellico, incarnato da Casabella-continuità diretta da Ernesto Nathan Rogers e dalla Domus di Giò Ponti.

Non dimentichiamo che uno dei pochi maestri riconosciuti dalla “Gae” (modo familiare che ritorna in tutta la mostra) è proprio Rogers e quel laboratorio Casabella in cui una generazione intera si è formata, perché la Aulenti, giovanissima, disegna la grafica della rivista e tra le sue pagine è pubblicata la sua opera prima, la Villa a San Siro in cui l’autrice si confronta con i marosi generazionali del Neo-Liberty, che tanto agitarono i sonni del purista inglese Reyner Banham che gridò al tradimento italiano del modernismo. In quella stessa rivista si costruisce il rapporto di una vita intera con Vittorio Gregotti con cui manterrà una frequentazione mondana e intellettuale costante e decisiva, oltre che con Marco Zanuso e Aldo Rossi.

La mostra della Triennale, che ci accompagnerà fino alla fine dell’anno, è stata immaginata da Agosti insieme al Nina Artioli, che ha intelligentemente preservato e ricostruito l’Archivio Gae Aulenti, e a Nina Bassoli come un meccanismo complesso e sofisticato che merita attenzione e soprattutto tempo.

Il tempo è un carattere su cui vale la pena soffermarsi, soprattutto se guardiamo a una mostra di questa rilevanza: la scelta decisa di non correre, ma di prendersi il giusto tempo per ordinare i materiali dell’Archivio e trasformarli in materia viva e necessaria per tutti gli studiosi futuri, evitando una mostra veloce ma inutile; la compresenza di tempi storici e momenti differenti nel percorso della Aulenti materializzati da un allestimento potente che gioca sulla simultaneità di eventi diversi; il tempo per sedimentare una storia importante e presente nella nostra cultura, decidendo di coinvolgere un curatore “anomalo”, portatore di uno sguardo differente, grazie al rigore scientifico dello storico dell’arte, che però è insieme mondano e consapevole della complessità sociale e intellettuale della Aulenti; il tempo è anche quello preso per produrre un catalogo ragionato che uscirà con un tempo diverso, non facendo forse la gioia dell’editore, ma che sicuramente ci consegnerà un libro che diventerà il primo, vero, reference-book dopo la scomparsa dell’Aulenti.

Tutto queste considerazioni si riflettono perfettamente nella mostra dove la relazione tra materiali, contenuti, parole e messa in scena sono coerenti in un mix che può soddisfare specialisti, cultori e avventori dell’ultima ora. Le mostre di architettura sono tradizionalmente difficili perché composte da materiali ostici per il grande pubblico e scarichi di quella valenza estetica e simbolica che abitualmente riconosciamo alle tradizionali opere d’arte. 

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Foto di Alessandro Saletta-DSLStudio.

Ma in questo caso ci viene in soccorso la vita artistica di Gae Aulenti e la sua rotondità creativa in quanto grafica, architetto, designer, scenografa e progettista d’interni, che permette di lavorare su diversi registri visivi che portano contemporaneamente in mostra disegni e modelli, fotografie e bozzetti, lettere e piccoli dettagli originali. La ricchezza creativa e la sua irrequietezza progettuale consentono al visitatore di comprendere la straordinarietà di un percorso creativo che ha avuto modo di passare tra scale costruttive diverse grazie al confronto con alcuni personaggi essenziali come la famiglia Agnelli e Luca Ronconi, Ernesto Rogers e i Brion, il mondo Olivetti e la Fiat, Germano Celant e Umberto Eco, i Feltrinelli e Michel Laclotte, solo per citare alcuni personaggi di un mondo milanese e internazionale insieme, che rappresenta la vera rete sociale, politica e intellettuale che ha permesso alla “Gae” tutte queste occasioni progettuali.

Parlando di salti di scala in mostra, come a continuare questo gioco di relazioni e misure con cui l’autrice si cimentava continuamente e felicemente, l’allestimento disegnato dallo studio romano Tspoon, esalta questa condizione grazie a un impianto che disegna una fascia perimetrale, continua e per sequenza cronologiche di progetti, momenti e lavori che dalla fine degli anni Cinquanta ci porta al 2012, che dialoga con un nucleo centrale inatteso e sorprendente dove alcuni frammenti di architetture, interni e scenografie in scala reale si fondono in un labirinto che è quasi rappresentazione materializzata della sua mente per ricordi significanti. 

Sono tredici elementi che ti accompagnano, cominciando con un disorientante allestimento per la Triennale del 1964 che ti accoglie, poi per la mezza curva che sfida la gravità in una showroom Fiat a Zurigo, due scenografie dei lavori con Ronconi, l’interno di casa Brion, una memoria dell’allestimento semi-permanente per il piano terra della Triennale, un frammento della Gare d’Orsay a Parigi e la testa di cavallo di Donatello per la Metropolitana di Napoli. Queste materie differenti, non solo ti portano dentro gli immaginari costruiti dell’Aulenti, ma ci sollecitano ossessivamente sulla relazione assoluta che la progettista aveva con la solidità resistente e monumentale di ogni volume da lei concepito nel suo rapporto con la materia, il colore e la luce. Geometrie elementari e volumi essenziali sono evocati insieme a un’altra magnifica ossessione figlia degli anni Sessanta, ovvero l’uso della diagonale come elemento ordinatore dello spazio, capace di generare un dinamismo contenuto che rompe l’ortogonalità morale del Moderno, generando un cortocircuito di senso percettivo e simbolico che ritorna in molti autori tra l’Italia e la Francia, partendo da Claude Parent e arrivando a Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, Aldo Rossi e Carlo Aymonino. La passione per la diagonale, in pianta o volume che sia, ricorre nei suoi lavori e risuona con finezza nell’allestimento, perché questa traiettoria geometrica era fisica e simbolica all’interno del suo immaginario.

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Foto di Alessandro Saletta-DSLStudio.

Attraversare quella che Agosti definisce giustamente una “macchina evocatoria (..) (dove) gli spazi sono degli stati del luogo, quasi la realizzazione delle didascalie di un dramma, dove gli attori sono invece quelli figurati sulle carte da gioco” (“Non è una Gae come le altre”, in G. Agosti, Gae Aulenti. I mondi, Electa 2024, p.7) evoca immediatamente un ennesimo salto di scala presente in mostra in cui la dimensione del progetto si incontra con l’universo di personaggi, amici, committenti, sodali e familiari con cui “la Gae” ha collaborato lungo la sua vita, definendo quella trama di relazioni che hanno reso possibile il suo operare. Non potendo estinguere questa rete di sottile filigrana e densità tra gli spazi delle didascalie e dei pannelli di sala, Agosti compone un “gioco delle carte” portatile in cui, attraverso 88 passaggi e senza alcuna regola, si materializza la trama spessa dell’universo Aulenti e del contesto sociale e culturale in cui si è mossa. Le carte sono ben disegnate e scritte e sono una piccola mostra portatile nella mostra esistente. Trovo questa scelta spiazzante, ironica, snob e insieme necessaria, perché materializza scale visibili e invisibili di relazioni che difficilmente sono comprensibili, con il rischio di un approccio eccessivamente didascalico, mentre quel mazzo di carte ti accompagna dopo la visita e diventa un gioco privato che chiede attenzione e, ogni volta, compone abbinamenti differenti.

La mostra dedicata a Gae Aulenti ha il grande pregio di svelare a tutti noi un sipario abitato da contenuti ricchi e pronti per essere riletti e compresi nella loro completezza. Abbiamo davanti a noi un paesaggio che chiede di essere attraversato, che presenta giustamente una chiave di lettura senza l’arroganza di essere definitiva, riportando ai nostri occhi la completezza di un’autrice fondamentale per comprendere la cultura architettonica e visiva di questi ultimi sessant’anni grazie a un gioco di scale e di rimandi che non esaurisce la prospettiva in cui muoversi. 

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