Abitare il vortice
Finita la pandemia abbiamo spesso commentato, stupiti, che stavamo tutti vivendo una fase potente di rimozione collettiva come se non fosse successo nulla.
Spesso trovi articoli dedicati al turismo, ai consumi culturali e gastronomici, o alla produzione economica e relativi consumi, che riportano la frase: “sono stati superati i numeri pre-pandemici”, come se la corsa, estrema, a cui eravamo sottoposti prima del 2020 avesse semplicemente avuto un breve stallo, un accidente che era stato ampiamente riassorbito.
I commenti su come avremmo vissuto meglio e diversamente dopo la sosta pandemica sembrano essere svaniti come neve al sole; nessuna traccia; vietato citare il fatto, con un fastidio evidente nello sguardo e nei toni di voce di chi evidenzia l’infausto evento.
Eppure le tracce della lenta rielaborazione di questo dramma collettivo stanno silenziosamente emergendo e si fanno ferocemente concrete.
Sono personalmente convinto che ci sia una sorta di legame profondo tra la pesante virata a destra nella stragrande maggioranza dei paesi che recentemente hanno votato e la pandemia, come se la tragedia vissuta abbia fatto emergere paure radicate, senso di difesa da chi consideriamo straniero e abbraccio naturale ai “valori tradizionali” per esorcizzare la fine di un mondo che sta disintegrandosi nelle nostre esistenze. Questo vale per le nostre città e le nostre case dove i plateatici hanno immediatamente ridotto la sezione delle nostre strade imboccando una via di non ritorno che chiede riduzione del traffico veicolare e dell’inquinamento. Molte funzioni che prima erano rigidamente dislocate in spazi mono-funzionali, come il lavoro e l’educazione, adesso vivono una fase di transizione interessante che sta mettendo in discussione gli spazi che abitiamo. La casa stessa è al centro di una fase di ripensamento simbolico e funzionale interessante di cui vedremo gli effetti nei prossimi anni.
Il nostro modo di vivere gli spazi e di guardare alla nostra esistenza è indubbiamente cambiato o ha subito una radicale fase di messa in discussione da generare effetti nelle nostre scelte esistenziali e collettive.
In tutto questo la città torna al centro, malgrado quelli che ne decretavano la fine nella primavera del 2020 narrando un bucolico e improbabile ritorno ai borghi.
La città costruita pesantemente tra Otto e Novecento ci sta presentando il conto con tutti i suoi limiti, rigidità e incompatibilità con la vita contemporanea, dimostrando che ogni fenomeno urbano è soprattutto un fatto culturale, sociale ed economico e, come tale, soggetto a metamorfosi e cambiamento lungo il tempo e le generazioni.
Su tutto questo e su alcune possibili strategie di uscita si concentra Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare a ritrovarlo scritto recentemente da Bertram Niessen per Utet, a dimostrazione che una serie di autori stanno cominciando non solo a rielaborare il trauma collettivo ma a guardarlo con crescente attenzione come laboratorio per il nostro futuro.
Escono romanzi scritti e saggi pensati in quella fase, così come lavori d’artista, progetti di architettura, prodotti digitali e ricerche musicali che testimoniano un momento diverso, di riflessione e reazione a un trauma inatteso verso cui reagire. Ma quello che adesso interessa sono le rielaborazioni più lente e meditate, quelle che lasciano intravedere gli anticorpi e i frammenti di un pensiero possibilmente inedito e critico, non tanto sulla pandemia, quanto sul mondo che stiamo vivendo e abitando.
Questo ultimo decennio ha chiaramente mostrato i limiti delle realtà che abbiamo generato in termini economici (la bolla immobiliare e la crisi del 2008), ambientali (la pandemia del 2020 e la crisi ecologica globale), energetici e di consumi (la guerra in Ucraina), tanto che il termine “crisi” in questa fase impersonifica la crescente consapevolezza della rottura di senso epistemologico degli strumenti e contenuti su cui il nostro mondo è stato costruito lungo tutta la modernità per arrivare a elaborare una metamorfosi di senso che sarà molto lunga, radicale e occuperà l’azione di alcune generazioni a venire.
La post-modernità oggi la vediamo come i titoli di coda di una modernità nata dalla fine del Quattrocento in una corsa forsennata e irresistibile che ci ha consegnato il pianeta attuale con una popolazione globale di 9 miliardi di individui e un tasso di urbanizzazione e antropizzazione che non ha pari nella nostra storia.
Le città sono sempre al centro delle nostre rivoluzioni e stanno diventando sempre più paesaggi complessi, stratificati e difficili da interpretare.
Il libro di Niessen, sociologo di formazione, saggista, animatore e progettista culturale tra le nuove comunità e gli ambiti metropolitani contemporanei, si applica a una rilettura della città d’oggi che segue, giustamente, tre sezioni tematiche: la città matura della post-modernità capitalistica, la città della pandemia e quella che rinasce dalle sue ceneri o dai vortici che possiamo generare.
Il libro è consapevolmente didascalico nei suoi passaggi e nella lunga teoria di testi e autori che vengono portati lungo la narrazione, appunto perché è immaginato per un pubblico di studenti, addetti ai lavori e anche di persone interessate a un tema così vasto. Il tono narrativo è di chi è abituato a parlare a un pubblico più largo, evitando ogni inutile forma di accademismo compiaciuto che non aiuterebbe la narrazione e i suoi obiettivi di allargamento del pubblico coinvolto.
La prima parte, quella intitolata “la città degli specchi”, punta a una lettura di come le nostre città sono diventate sotto la pressione di un abbattimento di ogni forma di critica attiva e di spazi conflittuali, per offrire al cittadino-consumatore luoghi splendenti, sorridenti, controllati con discrezione, prodotti da un marketing urbano sempre più sottile, aggressivo e smaliziato che ha come risultato l’espulsione della fasce più fragili della popolazione, come è testimoniato dal dibattito sulla casa e i suoi costi esorbitanti nelle nostre grandi città. La città descritta da Niessen è un paesaggio metropolitano di simboli rinnovati per creare un mercato diffuso, in cui il concetto di creatività sembra aver liberato l’uomo dalla prigionia della macchina e del lavoro per consegnarci un mondo smart servito silenziosamente da una parte della popolazione che lavora nel delivery, come rider o semplicemente senza alcuna forma di tutela sociale. La città che guardiamo oggi ha aumentato le disparità sociali ed economiche e il sogno di una metropoli di creativi sembra più l’ennesima invenzione pubblicitaria che una reale soluzione politica e sociale.
La seconda parte riporta con attenzione quello che abbiamo tutti abitato e vissuto durante la pandemia tra la casa che si ampliava simbolicamente e fisicamente di funzioni che prima erano urbane e una città che si deve ripensare nella sua relazione tra pubblico e privato. La pandemia ha portato in grande evidenza le disparità sociali ed economiche, oltre che una crisi ambientale ormai insostenibile, esplodendo i tanti mondi che prima facevamo finta di non vedere. La nostra realtà attuale è piena di crepe, come giustamente Niessen ci fa notare; le contraddizioni sono ai massimi livelli e la solitudine di grandi parti della popolazione sta esplodendo, spesso con rabbia, come recentemente si è visto nei fatti parigini. I “corpi indecisi” sono adesso arrabbiati, soli e invisibili di fronte a una gestione della cosa pubblica sempre più esclusiva e performativa che genera risposte dure, spesso violente e di reazione contro chiunque sia diverso per provenienza, scelte culturali e sessuali. I simboli e i linguaggi stanno cambiando e vanno riletti e interpretati con grande attenzione al punto che Niessen, giustamente, ci dice che “un giorno, qualcuno scriverà un Dizionario dei simboli attraverso la pandemia, elencando con dovizia ciò che si è rotto e ciò che è nato di nuovo nei rituali che legano il corpo allo spazio”.
Perché non è da dimenticare che i luoghi sono abitati da corpi con emozioni, occhi e anima, pensieri liberi, sensi che si stanno ricalibrando e che chiedono una qualità di vita che sembrava svanita dalle nostre pratiche quotidiane.
La terza sezione è dedicata alla “città dei vortici. Dove le città sono animate da forze nascoste. E dove turbinano nuove alleanze”. Niessen prova generosamente a lanciare qualche palla in avanti, consapevole che oggi è forse il tempo di riflettere e costruire silenziosamente, senza avere la pretesa di avere facili risposte per un futuro inquieto.
Il tema che il nostro autore considera come centrale è quello delle politiche culturali e, insieme, educative, che devono essere alla base per la ricostruzione simbolica di strumenti, e narrative che aiutino le tante comunità a risemantizzare il mondo che abbiamo davanti.
Senza una rivoluzione culturale e i suoi strumenti profondi non esiste un reale cambiamento collettivo che sappia imprimersi nelle forme dei luoghi che abitiamo.
E in questa sezione, la più generosa e rischiosa, Niessen si lancia e, a volte, si perde, forse perché siamo ancora troppo vicini al vortice, consapevoli che la distanza critica si rafforzerà nel tempo. Alcuni fatti sono ancora in corso e le conseguenze delle nostre scelte attuali sono imprevedibili, ma è indubbio che esistono alcuni elementi su cui cercare di fare resistenza come la centralità delle comunità come referenti di una vera, sincera, radicale, politica culturale, l’abbattimento di ogni forma di discriminazione economica e sociale, oltre che la necessità di una politica di investimenti culturali che sia matura, consapevole e molto ragionata.
Come dice giustamente Niessen, “la città non è data: la città si fa” e in questa frase molto elementare c’è tutta la responsabilità che la cittadinanza attiva da una parte e la politica, dall’altra, hanno negli indirizzi che prenderemo nei prossimi anni e che decideranno molto del nostro futuro.
Il tono e le letture dell’autore nell’ultima parte non sembrano ancora aver introiettato il fatto che in questi ultimi dieci mesi stiamo assistendo a una crisi diffusa della proposta culturale progressista in Italia e in Europa accompagnata da una contro-rivoluzione reazionaria sui valori e i diritti acquisiti che non ha pari negli ultimi decenni.
La cultura è sotto scacco in Italia ed è stata trasformata in un “wonder” liposuzionato e grottesco, in cui il ministro della Cultura italiano consiglia di leggere un libro al mese con lo stesso entusiasmo militare di chi deve andare a messa!
Ma tutto questo ci deve però ricordare che la politica è al centro, per quanto le nostre comunità possano fare pressione e intervenire, il peso delle scelte politiche entra enormemente nelle nostre vite e le condiziona.
Leggere la terza parte del libro di Niessen ha comportato una grande ammirazione per l’ottimismo della ragione espresso dall’autore e insieme gli interrogativi più angoscianti sul perché il mondo, o una sua parte importante e votante, abbia deciso di andare dalla parte opposta.
La centralità dei luoghi resistenti per la cultura che dai centri sociali si è evoluta nei tanti spazi di comunità e di cittadinanza attiva che popolano le nostre metropoli è un valore fondante e sono esperienze che dobbiamo confermare e difendere, così come l’importanza della cultura come atto politico e critico all’interno del sistema che abitiamo.
Lavorare sui corpi, il concetto di cura e benessere diffuso contro ogni forma di sfruttamento e performatività disumanizzante sono al centro di una riforma necessaria degli spazi urbani, pubblici e privati.
Riformare e allargare il processo di partecipazione che vedrà sempre di più la condizione fisica e digitale interagire, lavorando sul libero accesso ai dati per tutti e sul controllo critico della dittatura dell’algoritmo, è un obiettivo politico vitale per il nostro futuro.
Il testo ha il pregio di considerare il conflitto e le contraddizioni come un elemento centrale alla vitalità di ogni politica culturale e di comunità, contrastando l’idea vellutata ed estetizzata di una città senza macchie e crepe. Le ambiguità e le zone d’ombra sono un bene comune da coltivare se vogliamo costruire pensieri altri, scomodi ma necessari a riformare le nostre visioni del mondo individuali e collettive. L’immagine di una città luminosa, igienizzata, trasparente e senza contraddizioni elimina l’idea di scarto, altro e fragile che, invece, è materia vitale per le nostre vite e che rende la città così preziose.
Tornare a guardare alle nostre città come a paesaggi di viventi che convivono insieme è fondamentale ed è l’unica direzione culturale auspicabile in un tempo irrigidito, impaurito che, per scacciare gli antichi mostri, sta generando mostruosità ancora più terrificanti che dobbiamo contrastare con gli strumenti culturali, sociali e simbolici che avremo la forza di ripensare.