Officina Rinascimento

27 Maggio 2024

Il Rinascimento italiano è stata una delle fasi artistiche più vitali, spiazzanti, radicali e innovative della storia italiana e mondiale, eppure, spesso, lo si guarda come a una cartolina raggelata, fissa nella sua prospettiva storiografica. Questa condizione riguarda soprattutto l’architettura e le tante opere che hanno sedimentato lungo la penisola un universo inquieto e produttivo di corti ducali, sedi pontificie, vitalità ecclesiastica e intraprendenza patrizia che hanno dato forma a un atlante di opere costruite e immaginate che non ha pari per qualità diffusa. Credo sia per una certa tendenza della cultura accademica ottocentesca che si è riverberata lungo il Ventesimo secolo di guardare a quella stagione schiacciandola sulla sua prospettiva neo-classica attraverso la definizione di canoni linguistici e formali fissati nei trattati, che sono stati alla base della formazione di generazioni di architetti e ingegneri. Condizione che è stata progressivamente corrosa da un’ampia stagione di studi e ricerche che trovano nel lavoro di Eugenio Battisti dedicato all’Anti-Rinascimento, uno dei momenti critici più interessanti per rileggere la complessità e le contraddizioni di un periodo storico così compresso.

Tutto nasce da un libro, il De Architectura di Marco Vitruvio Pollione, l’unico testo di origine romana arrivato intatto come manoscritto nel Quattrocento, ma senza alcuna immagine di accompagnamento. 

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Lo scritto viene considerato come la pietra angolare su cui costruire una nuova teoria del progetto umanistico, ma l’immaginario era ancora tutto da inventare. 

Il manoscritto arriva senza alcuna illustrazione in una sola copia che venne commentata alla corte di Carlo Magno. Per tutto il Medioevo De Architectura rimane una curiosità per pochi studiosi, senza alcun effetto sull’architettura del tempo, finché l’umanista fiorentino Poggio Bracciolini rinviene nel 1414 una copia del libro nella biblioteca di Cassino. L’uomo giusto nel momento giusto, perché la divulgazione del libro di Vitruvio ha un effetto deflagrante sulla cultura del tempo, al punto da diventare il riferimento unico per tutti gli architetti a partire dall’Umanesimo almeno fino alla fine dell’Ottocento. Non potremmo immaginare Leon Battista Alberti, Palladio e la trattatistica classicista senza questo libro, mentre le tre categorie da lui indicate: “Utilitas”, ovvero la funzionalità, “Firmitas”, la solidità, e “Venustas”, la bellezza, sono state le basi solide su cui la cultura architettonica occidentale ha costruito le sue fondamenta teoriche.

Su questo nodo problematico si appoggiano altri due elementi decisivi: la prospettiva sperimentata e teorizzata da Brunelleschi e Piero della Francesca e il rilievo delle fabbriche romane sopravvissute in Italia. 

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Piero della Francesca, Pala Montefeltro ©Pinacoteca di Brera, Milano.

Con l’inizio del Cinquecento le prime edizioni del Vitruvio appaiono con illustrazioni di architetture che sono frutto di pura invenzione dedotte dalle parole dell’architetto romano, che diventano la base teorica per dare forma a un mondo nuovo. Ogni edizione prodotta, manoscritta o a stampa a partire dal lavoro di Fra Giocondo, presenta immagini che cambiano a testimonianza che il testo generava immaginari diversi e complementari a seconda dello sguardo e delle esperienze del suo autore.

Il Rinascimento è un incredibile cantiere di pura invenzione e di costruzione di quei vocabolari di forme, geometrie e linguaggi che ci accompagneranno fino alle avanguardie del Movimento Moderno. Cambiare prospettiva ci offre la possibilità di ritornare alla nostra Storia come a una dimensione viva, che ha ancora il potere di sedurci e d’insegnare. 

Il libro Rinascimento adattativo scritto recentemente da Pietro Valle per Libria e accompagnato dal ricco patrimonio d’immagini originali di Giuseppe Dell’Arche, va esattamente in questa direzione, ovvero quello di rileggere uno dei momenti più radicali della nostra Storia con una prospettiva spiazzante e fortemente contemporanea.

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Basilica palladiana.

Valle, da subito, mette le mani avanti, dichiarando di essere un progettista e non uno storico dell’architettura, per evitare inutili critiche e rafforzare il diritto alle scelte, sempre supportate da un buon apparato di studi e letture. Il libro è coraggioso perché affronta di petto uno dei momenti più densi e complessi dell’architettura occidentale, ma è il titolo che colpisce, affiancando la parola “Rinascimento” a un termine inatteso come “adattativo”. 

Quando pensiamo a quel momento storico emergono opere che s’impongono per forza e dimensione all’interno delle città e dei paesaggi italiani. Basti pensare alla costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi, oppure alla fabbrica di San Pietro a Roma che ha consumato i progetti di Bramante, Raffaello, dei Sangallo per poi arrivare alla versione definitiva di Michelangelo, a Santa Maria della Consolazione ai piedi di Todi, a Palazzo Farnese nel cuore di Roma o alla Rotonda di Palladio alle porte di Vicenza. 

Rispetto a questo immaginario “classico” che manca chiaramente nel volume, Pietro Valle ricava una prospettiva complementare, ovvero quella della necessità degli architetti del Rinascimento di confrontarsi con i contesti, i luoghi e le geografie esistenti per costruire opere che avessero la forza di adattarsi all’esistente e affermare con chiarezza un diverso postulato teorico e linguistico.

Si passa così dall’idea del monumento solo, eccezionale nella sua natura di diversità rispetto al contesto esistente a una pratica progettuale che, invece, è chiamata a confrontarsi con i vincoli dei luoghi, i limiti economici, gli accidenti politici e la necessità del progettista di confrontarsi con contesti complessi e stratificati.

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Come spiega Valle “questo accidentismo del Rinascimento, i suoi tentativi falliti, il non-finito di molti edifici, ne mostrano l’aspetto relazionale ampliato nella dialettica tra generalità e adattamento. La lettura caso per caso non è intrapresa per promuovere un empirismo anticlassico dell’architettura del Quattro-Cinquecento, ma, anzi, per dimostrare la disseminazione dialogica del modello nella sua ibridazione con altre realtà, nelle sue declinazioni diversissime.”

Il libro, organizzato per nove famiglie tematiche come “aggiunta”, “adattamento”, “sito/paesaggio”, “mega/infrastrutture”, “ricostruzione”, “deformazione”, “montaggio”, “processo” e “interrotto” rilegge alcuni dei capolavori assoluti del Rinascimento da una prospettiva contemporanea perché ha la capacità di rinnovare il nostro punto di vista su queste opere e di rileggerle secondo parametri che vanno oltre la questione squisitamente linguistica. 

Ancora l’autore afferma che “la scelta è parziale e atta a forzare una lettura problematica dei casi studio proposti. Ognuno di essi, infatti, apre delle questioni piuttosto che dare risposte definitive. 

È forse questa interrogazione continua sul ruolo dell’architettura l’eredità più interessante del Quattro-Cinquecento, la quale riverbera nella nostra contemporaneità, secondo una necessità pervasiva, non solo economica, di riadattare l’esistente.”

Nella costruzione del libro attraverso le sezioni tematiche e leggendo i testi che accompagnano le opere emerge con chiarezza la formazione di Pietro Valle come progettista che interroga l’architettura come spazio attraverso le sue piante, sezioni e volumi che dialogano con la geografia del luogo e il suo paesaggio di linee e materie. Questo approccio non esclude una lettura colta e consapevole delle opere selezionate ma si allontana consapevolmente dalla biografia intellettuale e artistica degli autori per concentrarsi coerentemente con il manufatto e la sua relazione con il reale.

Così la Basilica di Palladio a Vicenza o il Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti a Rimini sono generate dal confronto muscolare con edifici medioevali preesistenti, l’addizione Erculea di Ferrara rilegge il vuoto della pianura padana e lo rifonda pensando alla città romana per realizzare la città nova della famiglia D’Este, mentre la Villa Imperiale di Pesaro nasce nel dialogo con i suoi giardini e costruisce un nuovo paesaggio sulle colline marchigiane. 

Rimini, Tempio Malatestiano.

L’Ospedale della Cà Granda di Filarete a Milano e gli Uffizi di Vasari a Firenze sono guardati come mega-strutture complesse e moderne realizzate nel cuore della città medioevale, mentre la Basilica della Santa Casa di Loreto o il palazzo Ducale di Urbino sono riletti come corpi densi che definiscono micromondi quasi labirintici in cui città e palazzo si fondono. La Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, a firma dell’anziano Michelangelo, si fonda utilizzando le possenti mura e geometrie delle Terme di Diocleziano, mentre l’antica abbazia di San Benedetto Po a Polirone viene fasciata da un nuovo corpo “moderno” che definisce il suo fianco e la facciata pubblica da Giulio Romano, architetto del Gonzaga e fine sperimentatore di spazi e figure.

Quello che entusiasma dei progetti individuati da Pietro Valle è la capacità d’invenzione degli autori selezionati e di utilizzare il corpus di linguaggi e materie classiche come un corpo vivo, magmatico, instabile e da interrogare continuamente in ogni progetto. In questa fase storica i linguaggi non sono ancora codificati e ogni soluzione d’angolo, facciata dalla geometria irregolare o relazione con il paesaggio circostante diventano occasione per sperimentare e spingere le soluzioni spaziali e linguistiche al limite, quasi per verificarne la forza e la compattezza di una visione nuova rispetto alla realtà.

Il libro rappresenta un bel viaggio che vale la pena fare, accompagnati da schede che combinano interpretazioni personali e una lettura scientifica ben documentata e, soprattutto, illustrate dall’ottimo lavoro fotografico di Giuseppe Dell’Arche che dà forma alle intuizioni di Valle grazie a un lavoro unitario e coerente per tutte le opere selezionate. 

Avremmo desiderato un saggio introduttivo più denso e meno didascalico, vista l’intuizione originale dell’autore, e questo è l’unico vero limite di un libro che rilegge il Rinascimento italiano, consentendoci di guardare a questo momento storico come a una magnifica officina d’invenzione libera e inquieta.

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