Andrea Branzi fisico teorico del design
Alcuni anni fa, durante un’importante conferenza rivolta agli studenti in Triennale, Andrea Branzi, scomparso ieri 9 ottobre 2023 a quasi 85 anni (era nato il 30 novembre del 1938), avviò il proprio discorso con un’affermazione spiazzante per i più: “Io sono come un fisico teorico. Non guardo apparentemente alla realtà e alla sua materia, ma indago le sue logiche profonde e produco teorie astratte, lontane da ogni possibile applicazione pratica. Ma senza il mio lavoro, i fisici del futuro non potranno elaborare i teoremi e le formule che poi applicheremo per costruire macchine e i dispositivi per intervenire nel mondo concreto.”
Trovai quell’affermazione tagliente, spiazzante ma necessaria. Davanti a un pubblico di giovanissimi, quello che è considerato come uno degli esponenti di punta del design italiano e mondiale, affermava con forza la necessità del pensiero astratto e della teoria come unica possibilità per affrontare il mondo reale e mutevole.
Quella parlata lenta e risoluta, con un’inflessione leggermente fiorentina, aveva riempito l’aria e spiazzato tutti coloro che si attendevano una carrellata di prodotti di successo e atteggiamenti da star del progetto.
La forza del pensiero e la sua urgenza visionaria raccontano precisamente la figura di Andrea Branzi e la sua importante eredità che viene troppo spesso liquidata come “radicale” ma che, invece, descrive una figura che ha aggredito amorosamente la contemporaneità oltre i luoghi comuni e le apparenze.
L’esercizio della visione che Branzi portava nei suoi progetti, negli scritti e nell’attività educativa partiva dalla costante, quasi tignosa, messa in discussione degli assunti e degli strumenti con cui noi leggiamo la realtà, proprio perché consapevole che oggi noi stiamo vivendo una metamorfosi radicale, che ha messo in crisi le regole e gli apparati con cui abitualmente pensavamo di regolare la complessità del quotidiano.
Fiorentino di origini, figlio di uno dei fondatori della prima Democrazia Cristiana in una città che, dal secondo dopoguerra visse in maniera originale il dialogo tra cristianesimo e comunismo attraverso l’esperienza di La Pira e che negli anni Sessanta diventa uno dei laboratori originali di quella che poi verrà definita la stagione radicale italiana. In quegli anni l’alluvione dell’Arno del 4 novembre del 1966, che portò migliaia di giovani a salvare il suo patrimonio, la presenza delle prime università americane con la prima libreria che portava materiali e testi di contro-cultura dall’Inghilterra e l’America, le prime discoteche di musica elettronica che mescolavano performance, azioni politiche e musica sperimentale, le incursioni del Living Theatre, fanno di questa città apparentemente addormentata il centro della cultura Radical italiana con la nascita dei collettivi Superstudio e Archizoom, fondata da Massimo Morozzi, Paolo Deganello, Gilberto Corretti e lo stesso Andrea Branzi. In una fase culturale in cui la tradizione del Movimento Moderno si stava confrontando con la nascita del pensiero Post-Moderno, le azioni progettuali e teoriche di una generazione diversa, inquieta e attenta ai cambiamenti politici che stavano attraversando il mondo da Est ad Ovest, aprono un fronte culturale nuovo, in cui “tutto è architettura”, come aveva dichiarato l’austriaco Hans Hollein e da cui emerge la necessità di un pensiero debole, alternativo e problematico attraverso cui leggere un mondo in profonda trasformazione.
Il lavoro di Andrea Branzi si nutre di questa necessaria lateralità e si svolge, coerentemente, lungo i decenni che portano alla sua maturità.
Quando a partire dal 1969 gli Archizoom lanciano il progetto “No-Stop City” impongono immediatamente un immaginario diverso per la cultura del progetto che si nutre di visioni e riflessioni che incrociano il Pop alla nascita dell’elettronica, gli esordi del pensiero ecologico alla musica di John Cage, L’immagine della città è ormai quella di un universo di organismi e oggetti che popolano in maniera instabile la griglia rigida e inutile della metropoli contemporanea rivelando l’idea della città come organismo che vive, muore e rinasce continuamente sotto lo sforzo operante e progettante di ogni vivente. Tende, motociclette, letti, radio e televisioni, corpi, computer, forme minerali, tutte svolte in un paesaggio uniforme di colonne di acciaio moltiplicate all’infinito da specchi. L’universo globalizzato delle nostre vite ridotte a oggetti posseduti, a merci che abitiamo in un mercato infinito e che possiamo solamente muovere e trasformare, diventa la preconizzazione del nostro presente e insieme la base che produrrà, lungo i decenni, nuove forme teoriche in forma d’immaginari.
Quando nel 2010 Andrea Branzi viene invitato da Kazujo Sejima, in occasione della 12 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, porta nel Padiglione Centrale la sua “Nuova Carta di Atene” che azzera il sogno modernista di le Corbusier e dei Ciam lanciando la necessità di nuovi “modelli deboli di urbanizzazione” che combinassero ogni forma vivente all’interno di una visione di paesaggio circolare e solidale tra forme organiche e inorganiche.
A distanza di trent’anni non vedo alcuna distinzione tra gli immaginari distopici di No-Stop City e le tante forme di paesaggi sperimentali sognati e progettati da Andrea Branzi se non per una progressiva translitterazione tra l’immaginario di una metropoli macchinista a un paesaggio in cui l’architettura veniva assorbita dall’agricoltura diventando quel paesaggio agronico da lui auspicato per entrare in un tempo nuovo.
Alcuni dei suoi libri andrebbero riletti in sequenza per ritrovare le forme di coerenza concettuale e gli scarti progressivi dettati da un tempo in profonda e rapidissima trasformazione: : La casa calda (1984), Introduzione al design italiano (1999), Modernità debole e diffusa (2006) sono tre testi, dei tanti volumi pubblicati, di forte attualità teorica, uniti alle mostre sul Design italiano a cui ha collaborato in maniera decisiva per la Triennale di Milano e all’attività didattica, prima alla Domus Academy che ha contribuito a fondare e poi, finalmente, al Politecnico di Milano.
Con il passare degli anni la sua figura come teorico del progetto ha acquisito una notorietà e una considerazione internazionale che lo conferma, a tutti gli effetti, come uno dei pensatori più originali di questo periodo a cavallo tra i due millenni.
All’attività teorica e di polemica culturale Branzi alternava un mondo fragile e delicato di disegni e oggetti di design in cui cercare ossessivamente un possibile dialogo visivo e simbolico tra forma artificiale e quella naturale. Oggetti imperfetti e spiazzanti perché appunti di viaggio. Mai affermativi e arroganti ma sempre dubitativi, come in un punto interrogativo sospeso sulla realtà che non smetteva mai di sorprenderlo.
Mi piace pensare che uno dei contributi più intriganti dell’attività teorica e progettuale di Andrea Branzi possa essere condensata in alcuni aggettivi che lui ha salvato dall’estinzione in un mondo sempre più sterile e performativo: caldo, debole, fragile. Come a ricordarci che per affrontare un tempo così nuovo e spaesante dobbiamo accogliere la fragilità delle nostre esistenze capaci di fare spazio alla meraviglia di un tempo che chiede pensieri diversi e delicati per un mondo da ripensare e curare.