Emilio Ambasz architetto verde
In Perfect days, l'ultimo film giapponese di Wim Wenders, il protagonista, addetto alla pulizia dei bagni pubblici, riesce a inanellare le sue faticose giornate in un filo di pace. Quel filo è il komorebi 木漏れ日: una di quelle parole intraducibili che sembrano patrimonio esclusivo di una lingua, come correlativi oggettivi di un tratto peculiare di una cultura, e che descrive la luce che filtra tra i rami degli alberi, a cui lui dedica una contemplazione solitaria, difesa quotidianamente.
Vedendo il recente lavoro che i registi Francesca Molteni e Mattia Colombo hanno dedicato alla figura di Emilio Ambasz, nato in Argentina nel 1943, studi a Princeton, precursore – ma c’è chi ha preferito per lui il termine profeta – della green architecture, viene da chiedersi se abbiano pensato a quel concetto – anzi: a quello stato. Di sicuro il loro Green Over Grey, concepito con Fulvio Irace – che del maestro argentino ha curato per Corraini la raccolta Architettura verde & favole di design, e gli ha dedicato la monografia Emilio Ambasz. Una Arcadia tecnologica – riesce a trasmettere il senso di pace evocato dal baluginio un po’ magico di quell’espressione e dei caratteri che la compongono: quelli dell’albero, del percolare quasi liquido della luce del sole.
Il documentario ha aperto quest’anno in anteprima mondiale l'ultima edizione del Milano Design Film Festival, e sta girando in tutto il mondo – a Milano ha di nuovo fatto tappa nella cornice perfetta della BAM, la Biblioteca degli alberi, il parco che negli ultimi anni è diventato uno dei grandi poli di aggregazione della città, regalando a una metropoli che ne era tutto sommato povera una piazza verde, e anche lo scenario di un modo innovativo di fare cultura, così vivo da vincere nel 2024 un importante premio dalle Nazioni Unite.
Per descrivere l'attività, ma soprattutto la filosofia e visione del maestro argentino, il film prende le mosse dai suoi primi sette anni, vissuti in Chaco, prima del trasferimento a Buenos Aires, con una pastosa voce fuori campo che racconta il suo sguardo di bambino ipnotizzato dalle foglie dell'albero fuori dalla finestra della sua cameretta, in una sorta di imprinting che informerà per sempre la sua creatività. Per illustrarne il pensiero – o meglio il sentire: il documentario racconta che Ambasz non disegna, perché le immagini gli si palesano alla mente già formate – Francesca Molteni e Mattia Colombo scelgono quattro opere: l'andalusa e arcadica Casa de Retiro Espiritual (1975), il Lucille Halsell Conservatory del Giardino Botanico di San Antonio in Texas (1982), l’Acros Building di Fukuoka in Giappone (1990), e l'Ospedale dell'Angelo di Mestre (2008). Ambasz non compare quasi: mai intervistato direttamente, se ne sente la voce e si intravede di profilo, di spalle, in immagini lontane o sfumate che confermano la dimensione evocativa della sua architettura e della sua poetica: occuparsi “di cose primordiali: nascere, innamorarsi e morire”. Per farlo, si rivolge a ciò che è primordiale in natura: il suo lavoro parla “del sole, del cielo, delle stelle, e del vento sopra, e della terra e dell’acqua incanalata nelle pareti”, scrive Peter Buchanan nel volume pubblicato da Skira in occasione della mostra dedicata nel 2005 dal MoMA alla Casa de Ritiro Espiritual, fotografata da Michele Alassio. Come se queste opere volessero, collocandosi idealmente in simbiosi con la natura, condurre alla ricerca e all’esperienza di ciò che sta sul fondo delle cose, che le segue e le precede, “infinito ed eterno immortale e sempre presente”, come racconta Ambasz stesso. È alla sua voce, e a quelle degli architetti Tadao Ando, Kengo Kuma, Toyo Ito, James Wines, Michio Tase, del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, degli storici dell’architettura Barry Bergdoll e Fulvio Irace, che è affidato il racconto di quel che è stato ed è il ruolo e l’impatto del maestro anticipatore, in un intreccio con le voci di chi quegli ambienti li vive e li cura – abitanti, cittadini, giardinieri, pediatri. Così, nel film questa fondamentale e distintiva coralità tenta di mettere in parola quel che alla parola pare continuamente sfuggire, e che invece è incarnato dalle sue ideazioni.
A tenere insieme quegli elementi primi, c’è l'ala bianca della Casa de Ritiro Espiritual, che si apre come un libro sulle alture e i laghi vicino a Siviglia, come sul punto di prendere il volo, e segna il luogo di uno spazio domestico ipogeo, costruito e poi ricoperto di terra e prato. Così, il movimento dalla casa interrata lungo una doppia scala speculare metafisica fino al belvedere sulla sommità esterna, contenuto nel ricamo ligneo di una griglia che ricorda le grate di certi edifici religiosi, acquisisce, a maggior ragione nel verde paesaggio idillico e privo di costruzioni che la circonda, qualcosa di sacrale e rituale, di ieratico, com’è nel film la figura lenta del cavallo bianco. L’intento di Ambasz di fare dell’architettura una vera e propria componente del mondo naturale si realizzava già in quegli anni anche dal punto di vista della sostenibilità energetica, in una casa che mantiene da sé una temperatura ideale costante in ogni stagione – e che fa pensare all’alfiere dell’interrata “architettura gentile” Malcom Wells.
Un’altra struttura scelta dai registi a mostrare questa sfida a compenetrarsi con la natura è l’iconico ACROS (Asian Cross Road Over the Sea) Building di Fukuoka, forse l’opera più famosa di Ambasz: edificio polifunzionale a gradoni che ospita uffici pubblici e spazi culturali costruito dove prima c'era l’unico parco, e ricoperto di vegetazione a formare una piccola foresta urbana, tanto da far ritrovare lì, una volta cresciute le piante (che dalle trentasettemila messe a dimora sono diventare spontaneamente oltre cinquantamila), le brezze ed escursioni termiche delle montagne intorno. In questo caso, l’intento era di restituire ai cittadini il cento per cento del verde perduto, e di ribadire la possibilità di costruire nuovi spazi verdi anche al centro delle città – viene da ricordare, come già vedendo Perfect Days, che in giapponese nel kanji che significa “riposo, vacanza” (休) si saldano quelli di "persona" (人) e di "albero" (木). Un intento riuscito, dato che di Fukuoka l’Acros Building è diventato il simbolo e il cuore.
Lo stesso è accaduto per il Lucille Halsell Conservatory di San Antonio, giardino incantato ipogeo che pur lontano dal centro della città ne è diventato il luogo più frequentato.
Infine tra le opere visitate dai registi, c’è l'Ospedale dell’Angelo di Mestre, che incorpora una sorta di giardino botanico e offre ai ricoverati di ogni piano l'affaccio su piattaforme verdi che sembrano prati, in una “cura del paesaggio” che viaggia a doppio senso, e in accordo con quegli studi scientifici che confermano l’impatto della “green therapy”. Sempre a Mestre, Ambasz ha progettato l’edificio della Banca degli Occhi (2009), mentre a Roma sorge un alto progetto italiano, l’edificio del quartier generale ENI (1998), precursore dei boschi e giardini verticali a venire.
Diffidente dei manifesti, che considera di facile obsolescenza quanto la cultura che li produce, Ambasz preferisce affidare le sue idee alle favole, che meglio esprimono la sua tensione al mito, al trascendente, a uno stato anteriore al linguaggio. Questa ricerca riverbera nella regia, felicemente mimetica dell’immaginario che racconta. Le apparizioni sfumate di Ambasz, la scelta, per l’intero delle architetture, di ricorrere non al più facile impatto delle riprese aeree, ma ai modellini trasportati dallo studio newyorkese di Ambasz in un teatro di posa, ritratti con sfondi di colori e luci che li fanno apparire come oggetti magici, con lo spettatore che assume così quasi il punto di vista di un bambino, e infine il contrappunto ravvicinato della vita della fauna e della flora degli ecosistemi creati da Ambasz, scandita dalle musiche originali di Luca Maria Baldini, rendono questo lavoro tra i più felici e ispirati della produzione della “factory of projects” Muse.
Laureato honoris causa in Ingegneria civile – Architettura a Bologna nel 2021, in Design sistemico al Politecnico di Torino nel 2023, vincitore di tre Compassi d’Oro (1981, 1991, 2001, e nel 2020 l’ultimo, alla carriera), insignito di premi e riconoscimenti innumerevoli in tutto il mondo, Ambasz è stato anche dal 1969 al 1976 a capo della sezione di architettura e design del MoMA a New York. Lì ha voluto nel 1972 la storica mostra Italy: The New Domestic Landscape, evento cardine per il design italiano. Per chi volesse sapere di più anche di questo, Ambasz ne parla, in ottimo italiano, qui.