E l'altra metà la serberò io
E l'altra metà la serberò io è il titolo già struggente ed evocativo di una mostra di prossima chiusura, dopo ripetute proroghe, al Museo degli innocenti di Firenze, l'antico “spedale” fondato nel 1419 che Giovanni Michelucci chiamò, con definizione non felicissima, una “reggia per bambini”. Quel che si espone sono “oggetti tagliati”: la metà di monetine, coccarde, immaginette, monili che le madri appuntavano alle fasce dei loro nati deponendoli nella “finestra ferrata” dell'istituto, e di cui conservavano l'altra metà: non solo amuleti, dunque, ma segnali di possibile riconoscimento futuro, quando la vita avrebbe forse permesso loro di riprendere i figli. In mostra ce ne sono settantuno; nell'archivio, quarantamila.
È sempre a Firenze che nel 1974 parte la pervicace caccia investigativa dell'undicenne John Campitelli, piccolo italiano “illegittimo” adottato da una famiglia americana e indomabilmente determinato a rintracciare la sua “altra metà”: la sua madre biologica. La ritroverà, e con lei la larga schiera della famiglia d'origine, e fratellastri e sorellastre più giovani. Legami parentali che, se riallacciati, integrano la percezione di sé e dalla propria vita, e dell'altro scenario in cui avrebbe potuto svolgersi se le “sliding doors” avessero funzionato altrimenti. Ma nella vicenda di John, come in quella di migliaia di bambini italiani adottati da famiglie statunitensi dal 1951 per due decenni, il caso ha una parte relativa. Perché quelle adozioni non erano di orfani, ma di “figli della colpa” (spesso dei padri) affidati ai brefotrofi da madri nubili, che per un periodo in quegli stessi istituti, accanto ai loro bambini, vivevano e prestavano servizio.
John Campitelli diventerà il motore di una rete di ricerche che porterà alla luce migliaia di queste storie, raccontate ora da Maria Laurino nel suo ultimo saggio Il prezzo degli innocenti, appena uscito per Longanesi nella traduzione di Alba Bariffi. Maria Laurino è scrittrice, giornalista, docente alla New York University, e questo è il suo primo libro pubblicato in Italia, in anteprima mondiale. Cresciuta a New York in una famiglia italoamericana, con nonni immigrati da Basilicata e Campania, ha sempre avuto al centro della sua riflessione la questione dell'identità. È questo il nucleo anche dei suoi libri precedenti, Were you always an Italian? e Old World Mother, New World Daughter – un'autobiografia che a me ha fatto pensare ai Legami feroci di Vivian Gornick – che, tra saggio e memoir, si muovono in maniera toccante tra la storia sua e di altri che hanno dovuto gestire una identità composita, un'alterità. Una vita, insomma, in cui l'altra metà dell’“oggetto tagliato” non è nelle mani di una madre biologica ignota, ma è rimasto al di là dell'oceano, in un altro luogo, e in un tempo che non c'è più.
È proprio la consustanzialità del tema dell'identità e del “dispatrio” alla sensibilità di Maria Laurino a dare un corpo tutto particolare alla sua indagine storico-giornalistica. Dopo una telefonata casuale del cugino, anche lui adottato e fatto volare in America infante, Laurino segue indizio dopo indizio una storia che la porta – e noi con lei, come in presa diretta – a scartabellare in archivi americani e italiani e a comporre il quadro più grande, costituito da un vero e proprio programma della chiesa italiana, coadiuvata da quella americana: fornire bambini a coppie cattoliche statunitensi. Bambini etichettati all'inizio come “orfani di guerra”, e poi semplicemente come “orfani”, ma che orfani non erano: erano solo ospiti di brefotrofi, e in alcuni casi in regolare contatto con le madri. Madri giovani, nubili – “ragazze madri” – violentate o che avevano “peccato” ma comunque scandalose, ostracizzate e in fuga, e dunque impossibilitate anche solo in via temporanea a vivere in maniera indipendente con il figlio. Madri che spesso avevano ricevuto un’istruzione semplice, e che sempre erano povere e sole, indotte a firmare documenti con cui rinunciavano ai diritti genitoriali che non erano nelle condizioni di capire, o in quel drammatico frangente di rifiutare. Così, davanti a una scrivania anche il parto in anonimato da diritto finiva per diventare imposizione. Un po’ come ora negli Stati Uniti la diffusione delle “safe haven baby boxes”, versione moderna della ruota, coincide con la negazione del diritto all’aborto e ne diventa l’unica alternativa, in uno slittamento di cui Laurino ha di recente scritto in un articolo-saggio su “The New Republic”.
La ricerca delle proprie origini da sempre si agita, tra desiderio e senso di colpa, dentro molti figli adottivi – mi vengono in mente il recente equilibratissimo film Ritorno a Seul di Davy Chou (che in inglese era stato significativamente intitolato All The People I’ll Never Be), e il meno recente Stolen Babies, Stolen Lives di Peter Svatek, che racconta la lacerazione di figli di donne incinte desaparecide in Argentina adottati da militari. Ma il trauma che sempre si accompagna all’abbandono (subito o agito) e alla separazione forzata tra madre e figlio, nella vicenda raccontata da Laurino non sarebbe esistito: i bambini venivano sottratti perché oggetto di una domanda e di un'offerta, e di una transazione, anche economica, che si inseriva in una filiera che si voleva sempre più efficiente e ricca. Contro quella massima degli assistenti sociali secondo la quale “l'adozione serve a trovare genitori per i bambini, non bambini per i genitori”. Non si usava il lessico proprio del mercimonio – come fa l’Alberto Sordi mediatore di prole tra Napoli e l’America nel “Giudizio Universale” di De Sica, a cui Zavattini mette in bocca perfino l’espressione “stock” – e in genere chi gestiva il tutto era forse convinto di agire per il meglio. Ma questo “meglio” era pur sempre un traffico di esseri umani. In uno spadroneggiamento sul corpo e la volontà delle donne che pare non vedere una fine – è degli ultimi giorni l’emergere di una situazione molto simile per le adozioni avvenute in Corea.
Le madri finivano semplicemente dimenticate, e a nulla valevano i loro sforzi di conoscere il destino dei figli, che venivano anche loro dichiarati morti. La “legge dei 100 anni” poi, in Italia, impediva la desecretazione dei documenti relativi alle adozioni prima del compimento del centesimo anno degli adottati. Internet, i social, la digitalizzazione dei documenti, i test genetici disponibili in kit alla portata di tutti hanno smosso irrimediabilmente la terra sotto cui quelle identità e legami venivano sepolti, in un lutto senza salma, incomponibile.
Nel suo stupefacente lavoro investigativo, Laurino è guidata da e verso storie vere di “figli della colpa” e di “madri ignote” che per decenni si sono cercati, si cercano. Basta dare un’occhiata al gruppo facebook del vecchio brefotrofio di Torino, dove in tante approdavano anche dal sud e che ha fornito circa un terzo dei bambini al programma americano, per vedere come quelle ricerche continuino o comincino ancora oggi, in un insopprimibile, primigenio bisogno di indagare la propria origine, di rispondere alla domanda semplice e basilare di una di quei fratelli e sorelle di culla: “Chi sono?”.
Rispetto a questi temi, viviamo in un’epoca più che mai contraddittoria: mentre il diritto all'aborto viene messo in discussione o negato, i bambini nel mondo occidentale sono un bene sempre più raro e che può venire commissionato, con genitorialità e origini anche biologiche sempre più frante, gameti e uteri che possono appartenere a tre persone diverse, proprio mentre i siti di genealogia e i genealogisti genetici conoscono un successo lontano da ogni previsione, e si formano addirittura movimenti contrari tout-court all’adozione. Su questo sfondo, leggere con mente libera il libro-inchiesta doloroso, ricchissimo e così umano di Maria Laurino su un passato recente, aiuta a porsi domande fondamentali anche sul presente e sul futuro, e anche a darsi qualche ineludibile risposta.