Il “Percorso d’amore” di Elda Mazzocchi Scarzella

21 Ottobre 2023

“Mi sembri un figlio di nessuno”: qualche volta nella lingua continuano a fluttuare espressioni che sono in fondo, proprio come dei traccianti nell’acqua, rivelatrici della cultura “a monte”. Questa non la si sente quasi più, ma era ancora abbastanza comune sentirsi apostrofare così per chi, bambino degli anni Settanta o Ottanta, si presentava scarmigliato e in disordine. Così comune che di primo acchito suonava quasi neutra, mentre la forza del suo sfregio sta proprio nel suo essere paradossale, così com’è, agli antipodi, per le sue cugine di campo semantico “figlio di mamma” e “figlio di papà”: perché com’è ovvio che non si può essere figlio di nessuno, così è ovvio che non si possono che avere dei genitori – e in questo secondo caso la ridondanza della definizione evoca al contrario un’esagerazione della cura. Questo modo di dire mi è tornato in mente leggendo l'ultimo libro di Maria Laurino, Il prezzo degli innocenti (qui la recensione), e il suo lungo articolo su The New Republic sulle “baby safe deposit boxes”, ossia nicchie riscaldate che vedono una nuova e larga diffusione in America dopo la svolta antiabortista. Mentre scorrevo l'articolo, mi è riaffiorata dai recessi della memoria una scena:

«Mi ero fermata a osservare l'antico portale di non so più quale luogo pio, lassù, quando mio padre mi indicò, sul fianco, una piccola finestra aperta ad altezza d'uomo con accanto una campanella logorata dal tempo e dall'uso. Si avvicinò e con qualche sforzo ne schiuse l'imposta di legno rozzo […] “Vedi, quella è la ruota”. Nella società romana antica, mi raccontò, il capofamiglia aveva diritto di vita e di morte sulla prole non gradita o illegittima; i figli rifiutati potevano essere soppressi, venduti, o deposti ai piedi della cosiddetta columna lactaria, dove i più idonei tra quelli che sopravvivevano erano destinati a diventare gladiatori, per concludere la loro esistenza combattendo nelle arene. La pietà cristiana condannò la soppressione dei neonati e cercò di porre rimedio al loro abbandono, e sul finire del medioevo il Papa Innocenzo III istituì presso gli ospedali e i conventi quella ruota che ora intravedevo dietro la finestrella, una bussola rotante in cui si deponeva il bimbo indesiderato […].

Mi pareva una di quelle fiabe che non ho mai voluto ascoltare, ma il babbo non mi aveva mai raccontato favole.»

La voce era di Elda Mazzocchi Scarzella, (1904-2005), e il libro Percorso d'amore, la sua autobiografia pubblicata da Giunti nel 1998 e ora fuori catalogo.

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Elda Mazzocchi mi si era già riaffacciata non alla mente ma agli occhi durante una passeggiata post-pandemica per strade secondarie del centro di Milano, quando mi ero trovata a costeggiare centocinquanta metri di faccioni che mi guardavano da un murales sul muro di cinta dell’ospedale Gaetano Pini. Tra Merini, Melato, Jannacci, Gaber, Visconti, Gadda, Ferreri, Ferrè, Ponti, Abbado e Volontè, ecco lei, la Mazzocchi anziana in un primo piano di quattro metri per due; e accanto: “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio – proverbio africano”. Tra quei grandi milanesi mi sembrava la meno nota, e mi aveva fatto piacere che l'avessero scelta, ripensando al volumetto color lillà che tanto tempo prima mi aveva emozionato e riavvolto nelle atmosfere edificanti (un aggettivo su cui ora spesso cade un accento ironico) delle letture otto-novecentesche della mia infanzia. Perché il libro di Mazzocchi Scarzella è così: non un testo teoricamente importante, ma su valori importanti, attorno ai quali la migliore Milano si raccoglieva e adoperava. E un libro su quanto conti l'intrapresa personale quotidiana, e possa essere “edificante” anche nel senso primo, di costruzione del termine. Durante il suo secolo abbondante di vita, vissuto tutto così, sull’onda di un altruismo dispiegato un giorno dopo l’altro con organizzazione imprenditoriale, Mazzocchi Scarzella si è guadagnata un posto al Famedio, e, sul campo, il titolo di pedagogista. Della più illuminata alta borghesia milanese, famiglia laica, a tredici anni – racconta novantaquattrenne nel 1998 – viene colpita dall'influenza cosiddetta spagnola: «perdetti i capelli, tanto che il parrucchiere della mamma le consigliò di farmi tosare. La prospettiva mi entusiasmava, il desiderio d'essere uomo continuava a vivere dentro di me, avevo perfino scritto a un medico chiedendo se non esistesse un siero per la trasformazione». È la sua indipendenza di spirito a farla andare sposa diciassettenne all'ingegnere Enzo Scarzella, per seguirlo in Sardegna in una tenuta mineraria. Domusnovas è uno sprofondare in un mondo arcaico, terricolo, in una dimensione quasi ctonia che il libro restituisce a tratti in descrizioni fosche, corrusche e mitologiche. Da quella povertà primitiva Elda cerca subito di sollevare le donne e i bambini. Con energia spregiudicata e fantasiosa mobilita dei notabili della zona e raccoglie i fondi necessari per creare il piccolo istituto che in quel contesto si può dire rivoluzionario: una “casa del bambino” ispirata alla “scuola rinnovata” di Giuseppina Pizzigoni, che vedeva in quegli anni la luce nel «vivaio di esperienze pedagogiche» che era Milano, e una mensa aperta. Mazzocchi Scarzella dà inizio così, sulla scorta anche dei suoi ricordi del giardino d'infanzia montessoriano dell'Umanitaria, alla propria formazione di pedagogista. E le sue realizzazioni sarde le sopravvivono, perché a Domusnovas un'associazione a lei intitolata ne raccoglie l'eredità ideale e ne persegue la missione.

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Rientrata a Milano nel 1933 con due figli piccoli, è la gravidanza di una domestica nubile a offrirle l'occasione di visitare il brefotrofio di viale Piceno: «un edificio lungo, basso infossato, con sbarre alle finestre. Avrei appreso in seguito che la squallida costruzione, già appartenuta ai Gesuiti, nel 1780 era stata destinata […] a “Casa dei pazzi” per la custodia di centinaia di “matti, balordi, storpi”; un secolo più tardi, i pazzi erano stati trasferiti lontano dalla città, a Mombello, in una villa adattata a ospedale psichiatrico, ma la tetra Senagra aveva continuato a essere ospizio delle varie categorie di indesiderabili, sezionata in Ricovero di mendicità, Asilo per i derelitti, Asilo per le derelitte… Ricordo ancora quelle camerate: tanti letti, bambini in fila legati alle seggioline, occhi senza espressione. In quell'ambiente manicomiale, di diseredati, era relegata, non a caso, la maternità non legittimata dal matrimonio». Da quel momento, Mazzocchi Scarzella non si fermerà più: si ingaggia personalmente con le donne che incontra, e in parallelo coinvolge e si lascia coinvolgere da chiunque a Milano possa e voglia aiutare i suoi progetti di assistenza, durante la guerra impegnandosi a trovare aiuto per le famiglie dei ricercati e nascondigli per ebrei. La concitazione del 25 aprile precede di poche ore l’incarico ufficiale: il Comitato di liberazione la nomina responsabile dell'accoglienza dei reduci. Il primo arrivo in stazione centrale, di lì a pochi giorni, è di ottocento persone: «gli sportelli si aprirono: grappoli umani, parevano redivivi» a cui dare riparo e cibo. Nel giro di poco diventano migliaia; tra loro le donne, e «molti dei loro sguardi non cercavano incontri, li sfuggivano». C'è chi è incinta, chi ha un figlio nato in Germania, chi in Germania è cresciuta. Elda ne raccoglie subito la necessità di non essere ridotte a numero, di non finire in enti e istituti chiusi, separate dai figli, e sceglie: c'è un giardino da sempre chiuso al pubblico, quello di palazzo Sormani – l’attuale sede della biblioteca civica – bombardato, e nel magazzino del Comune giacciono inutilizzati dei prefabbricati. Chiede udienza al sindaco Antonio Greppi: quelle sette casette sono il primo nucleo del Villaggio della madre e del fanciullo, e lì Elda stabilisce il suo ufficio che battezza l'Osservatorio: perché l’importante è «saper osservare le persone per capirle senza catalogarle».

Del villaggio, che accoglierà senza distinzione e contro ogni stigma madri nubili, sposate, minorenni, Percorso d’amore ci racconta la storia, attraverso cui si coglie in filigrana l'evoluzione della società, della mentalità e dei sentimenti. Lì Mazzocchi Scarzella finisce molto presto per trasferirsi, ed essere affiancata da personalità come Elinor Goldschmied, con cui produrrà documentari pedagogici che sarebbe bello fossero di nuovo più fruibili (uno per tutti: Lasciatemi almeno giocare).

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Quella duratura, innovativa, finanziariamente travagliata realtà diventa negli anni un laboratorio oggetto di attenzione internazionale, ed Elda Mazzocchi è chiamata a partecipare a convegni e studi in tutto il mondo, senza che però queste attività la distolgano dal coinvolgimento in prima persona nella gestione del villaggio e anche nelle vite delle sue ospiti, alcune raccontate nel libro.

“Le parole di Elda” – titolo di un documentario a cura di Anna Frigo del 2015, settantesimo anniversario della fondazione del Villaggio – sono da riascoltare e rileggere. Perché nessuno sia più “figlio di nessuno”, e perché in questi anni, che ci portano nuove povertà e madri e minori s-paesati in tutti i sensi, facciamo nostro il proverbio africano che accompagna il sorriso di Scarzella dal murales degli Orticanoodles, e che ha camminato per il mondo: per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio. It takes a village to raise a child.

La biblioteca e l’archivio di Elda Mazzocchi Scarzella si trovano in parte presso l'Università Cattolica di Milano, sede di Brescia, in parte al Villaggio della madre e del fanciullo, che ora ha sede nel quartiere QT8 in una struttura progettata dal figlio Alberto Scarzella.

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