Angelo Casati, un prete nella città
Un disordine accelerato si presenta alle nostre menti in tutti gli ambiti della vita pubblica. E di conseguenza anche nel nostro privato. Questo primo quarto di secolo, e in particolare gli ultimi anni, ma direi proprio gli ultimi mesi e settimane, ci aggrediscono con segnali confusi che sollecitano una miriade di interpretazioni e di tentativi di comprensione. Ma l’impressione è che ben pochi arrivino a fare chiarezza, ad avere una visione limpida delle cause che hanno prodotto questo caos, a capire quale direzione il mondo dovrebbe prendere, per uscire dal tragico trambusto nel quale siamo precipitati.
Parole di segno opposto – pace, guerra; democrazia, tirannide; genocidio, giustizia per tutti i popoli – sembrano diventate interscambiabili, a seconda della prospettiva da cui si mettono a fuoco i drammi che si svolgono sulla scena della storia. Così tutti si accapigliano con tutti. E rare sono le parole che hanno un sentore di verità.
Anche la geografia delle fedi ne rimane sconvolta. Inevitabilmente. Sembra contaminata da una nuova Babele. Anche a guardare soltanto al cristianesimo ne emergono le istanze più diverse. A fronte di un tradizionalismo soprattutto in campo etico nei paesi dei continenti africano, asiatico, latinoamericano, che si sposano in maniera fantasiosa con antiche tradizioni locali, nel mondo cosiddetto occidentale si va da istanze di severo conservatorismo (c’è chi dice, appunto, che papa Francesco è un falso papa, perché non combacia perfettamente con i dettami della tradizione); all’esasperazione nazionalista del versante ortodosso, accentuata negli ultimi tre anni dalla crisi russo-ucraina; alla deriva ideologica di alcune chiese cosiddette evangelicali, fino ad arrivare a quella tragicomica (ma più tragica che comica) pantomima della “religione della prosperità” di cui si fa profeta lo stesso Trump, salvato da Dio, per salvare l’America e dunque il mondo, il cui verbo è diffuso dalla portavoce dell’ufficio della fede alla Casa Bianca, Paula White.
All’interno del cattolicesimo il declino fisico di Francesco lascia aperte molte incognite in una chiesa che, nonostante la popolarità di questo papa riempia le piazze, sta vivendo una emorragia di fedeli in tutte le fasce di età: i bambini che trovano altrove nutrimento ai loro interessi; gli anziani – che una volta erano la riserva aurea del popolo dei fedeli – oggi sono più interessati a ricevere aiuti e stimoli piuttosto che prospettive spirituali; per non parlare delle donne, che, stanche di essere messe ai margini dalle gerarchie, sempre più trovano spazi alternativi per nutrire la loro mente e il loro spirito. La formazione dei giovani presbiteri vede, nei seminari, tranne qualche eccezione, una tendenza a un conservatorismo arcaico, come se si potesse con ciò porre riparo alla deriva di senso che la fede inevitabilmente incontra nell’era della complessità.
Tuttavia a guardare in maniera più ravvicinata il fantasmagorico mosaico delle fedi, si incontrano figure – ovunque – nelle quali è possibile ravvisare ancora il senso di una “appartenenza”, senza che esso strida con le esigenze della contemporaneità e senza che vi sia conflitto con le persone che – ovunque, di nuovo, ma in contesti non religiosi – cercano di operare con giustizia, con una creatività non distruttiva, con passione di conoscenza, con amore gentile e generoso nei confronti di tutto ciò che vive su questa terra.
Alcune di queste figure – non ne ho conosciute poche, negli anni – mi sono particolarmente care. Trovo in esse una coerenza non formale, una “rettitudine” di fondo, sulla quale so di poter fare affidamento. Tra queste, un anziano prete – guai a chiamarlo “sacerdote”! – che vive, ora che è in pensione, in una casa parrocchiale a Milano, nel cuore delle strade del lusso, della moda, della ricchezza esibita e sfrontata. Senza farsi minimamente scalfire da quel contesto così in contrasto con la sua semplicità di vita, predica tutte le domeniche, nonostante l’età e le fatiche di un corpo gracile e consumato. Per questo ogni volta che vado a Milano mi ricavo una piccola porzione di tempo per andarlo a trovare.
Angelo Casati è prete – “presbitero” sarebbe più corretto – si può dire da sempre. Entrato presto in Seminario, ha esercitato il ministero a Busto Arsizio e a Lecco, poi è stato chiamato a Milano dal cardinal Martini, a fare il parroco a San Giovanni in Laterano. Ben presto la sua disponibilità nei confronti del prossimo, la chiarezza e la lucidità con cui ha affrontato le asprezze delle Scritture, la sua capacità di rapportarle senza forzature al travaglio e alle sofferenze in cui versa questo nostro tempo gli hanno conquistato una solida e unanime fama di uomo giusto e mite, un docile guerriero che combatte senza ferire, ma per rivendicare con umiltà serena e ferma l’esigenza di essere dalla parte dei deboli, degli sfruttati, degli umiliati. Denunciando senza remore e senza reticenze, ma anche senza spietatezze inutili, i raggiri e le atrocità dei potenti. Svelando con ciò il significato profondo, talvolta nascosto, di ogni parola contenuta nei testi “sacri”. Senza feticismi: se alcune parole o versetti della Bibbia sono oggi indifendibili e improponibili li lascia cadere: non arbitrariamente, ma riconsegnandoli al tempo in cui sono nati. Si concentra, con libertà e con acume, su tutto ciò da cui le nostre povere vite possono trarre linfa e sostegno. Abituato a sostare sulle parole, essendo egli stesso poeta, si serve di questo suo “mestiere” per sondare in profondità la gamma espressiva del linguaggio biblico. Sapendo però, allo stesso tempo, che le parole della fede, così come le parole della poesia, non arrivano mai a circoscrivere una verità. Vi si possono solo approssimare, lasciando sempre libero uno spazio per ulteriori esplorazioni.

L’ho conosciuto molti anni fa – direi una trentina – in un ambiente di incontri ecumenici e interreligiosi. Mi aveva colpito anche allora la misura del suo parlare, il desiderio di confrontarsi con altri, anche per vincere la solitudine della vita di prete, che non nascondeva dietro disinvolture di facciata. Il suo sguardo, affaticato dalle letture, ma reso vigile dalle ampiezze del cuore, già allora ti guardava senza scrutare troppo, semplicemente accogliendo. Negli anni, ho potuto leggere moltissime cose uscite dalla sua penna. Non perché lui abbia cercato il prestigio della pubblicazione. I suoi sono tutti libri nati dal desiderio di qualcuno che lo ha ascoltato, e non ha voluto permettere che le sue parole andassero disperse nell’aria magari distratta e sonnolenta di una navata di chiesa (anche se, per la verità, chi lo segue fa sempre tesoro prezioso di ciò che dice la sua esile voce).
Particolarmente cara mi è questa ultima piccola raccolta, Sconfinamenti, edita da Qiqajon, della Comunità di Bose, fondata da Enzo Bianchi. Come scrive il priore Sabino Chialà, nella sua prefazione, la sua è una “parola dolce e forte, mite e tagliente”. Si potrebbe aggiungere: severa ma non malevola, colta ma non erudita. Ma il tema del confine e dello sconfinare è da sempre uno dei preferiti di don Angelo. Anche il suo stesso linguaggio – “procedo in modo rapsodico, vado per trasalimenti” – indica il suo appartenere a questo tempo, alla nostra storia, alla città in cui vive. Ma nello stesso tempo gli è necessario sconfinare verso luoghi altri, verso un “oltre” rispetto alla pura quotidianità dell’esistente, che però non indugia nelle forzate immagini della dottrina, ma scavalca i fili spinati delle convenzioni, e si apre a inediti orizzonti.
“Occorre camminare – scrive – per le strade delle nostre città, custodendo l’arte di interrogare i cieli, di interrogare la terra, di interrogare la vita”. A girare per le strade delle nostre città si è colti da una specie di spaesamento. Troppa velocità, e violenza, e indifferenza. Ma non bisogna farsene schiacciare. Occorre saper scovare anche quel “sommerso di bene che non appare. Un sommerso di bene, di sacrificio, di generosità, di fatica quotidiana, di passione di ricerca, di attesa che non appare”. La città, nelle sue parole, è il luogo ideale per vivere un’esperienza spirituale. Non perché non ci sia bisogno anche di “rallentare il passo”, “fare silenzio”, “incantarsi”. Ma perché la vita dello spirito, se così la si può chiamare, è vita di relazione, di critica, di discernimento. “La strada della città, proprio perché terra di pluralismo, è luogo delle domande: quelle serie, quelle della vita, così diverse dalle domande coltivate in laboratorio!”. Le domande delle Scritture hanno una loro ragion d’essere, anche in questo tempo del disincanto e spesso dello scoraggiamento, solo se si intrecciano con le domande della vita, di quella vera, dura e fragile, spietata e tenerissima.
Anche questo è uno sconfinare: il fluente – non sempre indolore – trasmigrare tra le parole delle sapienze e quelle della vita. Occorre “fare racconto”. Costruire “piazze del racconto”. La piazza è il luogo degli incontri variopinti, plurali, talvolta anche conflittuali, oppure in cui si ritrova comunanza di ideali, speranze sopite, costruzioni di socialità. È nella piazza che ci si confronta, che si trovano, eventualmente, anche soluzioni. In fondo, questo dovrebbero essere le chiese: assemblee di comunità dove il centro si mescola alle periferie, i giovani con gli anziani, i più ricchi con i più poveri, i più semplici con i più sapienti. “Miracolo non è rinchiudersi e separarsi nelle diversità, nelle corporazioni; miracolo è formare il popolo delle diversità”.
Ma come nelle vite c’è un tempo per ogni cosa, così anche nelle piazze c’è uno spazio per la moltitudine e uno per le panchine. Le panchine sono il luogo di un incontrarsi più casuale, in cui si scambiano poche parole, in cui senza timore si può confidare qualche verità, si può tacere senza imbarazzo, riprendere a parlare senza preoccuparsi della forma e della coerenza del discorso. Si possono costruire amicizie senza obblighi, affidandosi alla casualità, o alla segreta tessitura della vita. Quando si va da don Angelo, ti riceve nel suo studio. Ti offre ospitalità affettuosa su un divanetto che lui chiama la “panchina”. Lui sta di fronte, seduto su un’altra piccola panchina, in modo che ci si possa guardare negli occhi. E lì pazientemente ascolta le tue storie, e generosamente ti offre le sue, facendo sì che si intreccino, fino a comporre una nuova realtà per entrambi. “Il racconto non è mai nel vociare, va negli occhi”.
Ecco, mi piace pensare che le comunità di fede possano essere anche questo, nel mondo che vorticosamente sta cambiando: costruire, mattone su mattone, racconto su racconto, parola su parola, esitazione su esitazione, piccoli spazi comunicanti
“in cui l’audacia di fare cose nuove
sarà più forte dell’abitudine di fare
come prima
….
in cui ognuno potrà pregare nella sua lingua,
esprimersi nella sua cultura,
ed esistere con la propria storia”.
