Paolo Ricca in dialogo infinito

10 Settembre 2024

In una conversazione radiofonica del 2016 (Uomini e Profeti, Radio3), Paolo Ricca, pastore e teologo della chiesa valdese, morto a Roma nella notte fra il 13 e il 14 agosto 2024, affrontava l’oscurità di ogni discorso sulla morte ricorrendo sì alle Scritture e alle acquisizioni della scienza contemporanea, ma assottigliando via via ogni certezza, riconoscendo che ogni cultura ha elaborato “visioni fantastiche” intorno alla morte, senza però accontentarsi di quello che diceva una nota scienziata, secondo la quale ciascuno di noi si ridurrà a una “molecola” vagante nell’universo. Certo, il corpo se ne va. Ma non credo, diceva, che la “persona” possa ridursi a una molecola. È vero che la morte cancella la vita, tuttavia non dissolve la “persona”. Qualcosa rimane. Non solo nella memoria dei vivi, ma in quella che lui chiamava la “memoria di Dio”, e che noi potremmo chiamare una grandezza che ci trascende, un “oltre” in cui non valgono più le categorie “terrene” di spazio e tempo, ma che pure esiste anche se per noi rimane invisibile e inconoscibile. 

Chissà. Forse è così che si riesce a sopportare la scomparsa dal nostro orizzonte delle persone che ci sono state care. E che si sono spese fino in fondo in ogni momento della loro vita per rispondere a chi chiedeva qualcosa, qualunque cosa. Tenendoli vicini nella memoria. Ma anche collocandoli in un luogo dell’assenza nel quale una qualche impalpabile forma di presenza è custodita. 

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In ogni caso, oggi che la morte di Paolo Ricca è appena accaduta, e per questo ci appare così irreale, quasi impensabile per chi lo abbia conosciuto, il suo profilo è più vivo che mai. La cosa che colpiva di più, immediatamente, chiunque lo incontrasse e avesse la possibilità di ascoltarlo era il suo linguaggio. Nelle omelie, nelle conferenze, nei dibattiti pubblici, nei dialoghi radiofonici a imporsi era soprattutto l’impostazione della voce: robusta e sussurrata, sospinta come da un moto ondoso e spezzata da una pausa, una sottolineatura, un dubbio in forma di silenzio. Ma a sostenere l’impianto oratorio – inconfondibile – vi era una struttura geometrica del pensiero, basata su solide fondamenta: una passione inesausta per la Parola biblica; una fedeltà non passiva, ma continuamente interrogante, alla tradizione del protestantesimo e della riforma, in particolare al pensiero di Lutero (di cui ha curato e in parte tradotto tutti i volumi delle Opere scelte presso l’editrice Claudiana di Torino); un attaccamento affettivo ma anche convinto alla comunità valdese da cui proveniva (era nato, figlio di pastore, a Torre Pellice il 19 gennaio 1936); una fede incrollabile, ma non dogmatica, nel Dio delle Scritture; e una fede altrettanto forte e incrollabile nel rapporto e nel dialogo con persone di altre fedi e di altre convinzioni. 

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Ho avuto moltissime occasioni di sperimentare che cosa fosse per lui “dialogare”. Soprattutto nel corso dei lunghi cicli di trasmissioni a Uomini e Profeti, dove è stato fedele e seguitissimo ospite per quasi tutto l’arco di tempo in cui ho curato e condotto la trasmissione. Ogni anno realizzavo con lui un ciclo di trasmissioni, che potevano essere dedicate alla Predestinazione, o alle Dieci parole di Dio, o a Lutero, o a Calvino, o al Padre nostro, o al Vangelo secondo Giovanni, o alla Genesi, o all’ Alba del cristianesimo, o alle Lettere di Paolo apostolo.  Ogni volta, nel corso dei 45 minuti di ogni singola puntata, e di ogni singolo ciclo di puntate, colpiva l’acribia esegetica, ma anche la minuziosa ricostruzione del contesto storico, e il raffronto con le interpretazioni delle diverse confessioni e tradizioni, per arrivare poi – quasi lasciando affiorare pensieri sotterranei che lo avevano guidato in tutta la costruzione della sua esposizione – a mettere in chiaro “con timore e tremore” si potrebbe dire, ciò che di più personale emergeva in quelle meditazioni, e nello stesso tempo le risposte che, a suo avviso, le Scritture potevano offrire alle questioni contemporanee. Ma senza forzature, sapendo, e lo ripeteva spesso, che non tutte le parole della Bibbia hanno lo stesso valore, che nella vita – anche e ancor più in quella religiosa – rimane una porzione di “enigma” di cui non si viene a capo, sapendo che “Dio non è un’evidenza”, può essere solo una traccia di luce che, per alcuni, illumina la strada. Ma che altri, forse, possono trovare in altre sorgenti gli stessi bagliori di luce. 

Per questo, pur essendo bel saldo nelle sue convinzioni di fondo, amava confrontarsi con le sfide della contemporaneità. Forse era propria la difficoltà dell’impresa a sollecitarlo, a stimolare il suo pensiero a farsi aperto, azzardato. E a volte ritratto.

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In uno degli ultimi incontri pubblici in cui l’ho visto animarsi, nel marzo di quest’anno, pochi mesi prima di dover affrontare gli ultimi cedimenti del corpo, è stato al Teatro Comunale di Corato (Bari), una città che gli era molto cara e dove aveva affezionati amici – come del resto in tantissimi altri luoghi, grandi e piccoli, del nostro paese, dove a tutti veniva riservato lo stesso coscienzioso impegno e la stessa empatica attenzione. Lì, a Corato, ad esempio, ha tenuto una appassionata e veemente relazione sullo stato in cui versa l’Europa, sottolineando con drammaticità che cosa significa per la contemporaneità la perdita di tre dimensioni del tempo: quella dell’aldilà, intendendo con questa espressione una ulteriorità che tracimi dal contingente; quella di un’Europa e di un Occidente come patria di quella che fino ad ora abbiamo considerato democrazia; la fine del tempo in cui il nostro pianeta appariva come un luogo sicuro. A queste derive del tempo storico contrapponeva una dimensione del tempo nella prospettiva cristiana come nuovo inizio, una sollecitazione a restare vigili, e ad avere il coraggio delle scelte. Constatando però come il cristianesimo stesso non sia più in grado di “leggere i segni dei tempi”. Ma questo, per Paolo Ricca, non significava una “resa”; bensì la necessità di aprire una nuova stagione di “resistenza”. 

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Certo, questo è un momento critico per ogni forma di teologia. Stenta, e a ragione, un “discorso su Dio”. La teologia è in crisi pressoché ovunque: nel mondo occidentale, che ne è stato la culla, e che oggi è pressato e sollecitato da altre modalità del pensiero; e nei “nuovi mondi” che stanno in bilico tra antiche tradizioni e nuove urgenze. E tuttavia Paolo Ricca è sempre stato convinto che il discorso su Dio non è chiuso. Per lo meno, non è ancora il momento di rinchiuderlo nelle teche dei musei, ma se ne può ancora raccogliere quell’“acqua viva” che ha dissetato e nutrito tante infelicità e tante gioie nella storia. Di qui la fretta degli ultimi anni di raccogliere molti dei suoi pensieri intorno a ciò che lo aveva tenuto in vita, in un esercizio di gratitudine al Dio in cui credeva e alle creature tutte, perché da tutte aveva appreso qualcosa. Ricordo soltanto gli ultimi due libri, pubblicati in una nutrita collana della editrice protestante Claudiana: Dio. Una apologia, e Secondo Marco. Ma credo che le sue parole rimarranno vive anche proprio perché le sapeva porgere ogni volta con convinzione profonda. Ogni interlocutore, anche il più piccolo e talvolta il più improbabile, meritava la stessa considerazione e lo stesso impegno di quelli più grandi e autorevoli. Nelle dediche che faceva dei suoi libri, il nome del destinatario era sempre scritto in rosso, quasi a sottolineare una linea del cuore che deve unire ogni essere vivente a un altro. Ad ogni dialogo, o conferenza, o trasmissione si preparava con uno scrupolo e un impegno come se da ogni occasione, anche la più fuggevole, dipendesse la sorte di Dio su questa terra. Erano diventati leggenda i suoi foglietti di appunti, ordinatissimi e pienissimi, quasi che lasciare uno spazio vuoto fosse un insulto al tempo prezioso che ci è donato.  Nelle occasioni conviviali, ed erano tante, sempre generose, gaie, e sempre supportate dalla sua famiglia, la lettura e il commento, accuratamente preparato, di un versetto biblico che le precedeva era sempre l’inizio di ore gioiose, allegre, affettuose. Mai stare con lui diventava occasione di qualche lamentela o di malevolenze o di cadute di tono. La sua gratitudine – per Dio, per la vita, per le persone incontrate – superava sempre in fedeltà e devozione quella che gli altri, comunque, sentivano nei suoi confronti. 

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Mi si consenta un ultimo ricordo personale. Quando, circa un anno dopo il nostro primo incontro e lavoro insieme (eravamo a metà degli anni Novanta), mi invitò a Torre Pellice, ad assistere ai lavori del Sinodo della chiesa valdese, che si tiene ogni anno a fine agosto, ospitandomi nella sua casa di famiglia, con sorelle, fratelli, figli, vecchie zie, amici e amiche, per me fu una immersione totale in un altro mondo rispetto alla dimensione di chiesa che fino a quel momento conoscevo. Vi si respirava una vitalità, una libertà, che mi lasciarono molto sorpresa, nella mescolanza di pastori e pastore con bambini, giovani, vecchi, con uomini e donne provenienti da altri mondi, in un vivacissimo clima di lingue, costumi, mentalità diverse. Il dinamismo del dibattito durante i lavori, a volte davvero acceso senza scadere in grossolanità, la forza delle preghiere e dei canti, la partecipazione di tutti era qualcosa che, ingenuamente, non mi aspettavo. Mi fu presto evidente che questo era il risultato da un lato della provenienza libertaria e pauperista del piccolo popolo valdese proveniente in epoca medioevale dal sud-est della Francia, insediatosi, in parte, nelle valli del Piemonte orientale, e lì rimasto chiuso in un ghetto naturale fino alle lettere patenti di Carlo Alberto nel 1848; dall’altro dalla adesione alla Riforma calvinista che lo aveva aperto, attraverso i contatti con la Svizzera, al mondo internazionale. Lo stesso Paolo Ricca, dopo aver studiato alla Facoltà Valdese di teologia di Roma (dove poi sarà docente per lunghi anni), aveva completato gli studi a Basilea, con Oscar Cullmann e Karl Barth, prima di altri soggiorni in Germania e negli Stati Uniti. Certo, ciascuno vi dava il suo apporto personale. Ma Paolo Ricca aveva un modo così speciale di essere pastore e teologo al tempo stesso, devoto ai suoi affetti e insieme alla comunità dei viventi, alla sua chiesa e alle ekklesìae del mondo intero, alla tradizione e alle provocazioni della contemporaneità, che davvero lascia – uso la parola più banale del mondo, ma anche l’unica vera – un vuoto immenso in chi lo ha conosciuto ma anche nella storia del nostro paese. Ora che tutte le chiese storiche conoscono una crisi profonda, come è inevitabile nel tumultuoso smottamento della nostra epoca, maggiore è la tristezza, e anche lo sgomento, quando uno dei grandi testimoni se ne va. Per questo credo sia importante rielaborarne la memoria e tenerne cara la presenza. 

La commemorazione ufficiale avrà luogo il 16 settembre presso la Chiesa Valdese di piazza Cavour, a Roma, alle 17.00.

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