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Regimi opposti, progetti comuni

24 Marzo 2025

L’ultima fatica del celebre storico statunitense Charles S. Maier sarà ricordata come una delle opere che hanno ridefinito l’interpretazione del “secolo breve” (1914-91) e del trentennio che lo ha seguito. A differenza di studiosi come Eric Hobsbawm e Robert Conquest, Maier non offre una chiave di lettura del 900 come una lunga “guerra di religione” fra fedi politiche o “ideologie assassine”. Nell’opera di Maier termini come totalitarismo, democrazia, fascismo, socialismo, comunismo e liberalismo sono solo sottocategorie di concetti ben più ampi, che eludono i confini canonicamente tracciati tra le passioni politiche che hanno sconvolto il mondo contemporaneo. Primo fra questi concetti è appunto lo “stato-progetto”, un’entità politica del tutto inedita, la cui “agenda trasformativa” – mirata a stravolgere l’assetto politico, economico e sociale vigente, alterare profondamente la traiettoria della storia nazionale in conformità a “grandi narrative” ideologiche – si distingueva dai modesti obiettivi del tradizionale “stato amministrativo” e dalle ambizioni esclusivamente economico-materiali dello “stato di sviluppo”.

L’aspetto più degno di nota della reinterpretazione del XX secolo offerta da Maier è dunque il tentativo di individuare un denominatore comune “progettuale” a esperienze politiche comunemente interpretate in opposizione fra loro. Tra esse troviamo l’URSS di Lenin e Stalin, l’Italia Fascista, La Germania Nazista, la Turchia Kemalista e gli Stati Uniti di Franklin D. Roosevelt. Secondo Maier, sono inoltre appartenenti alla categoria dello “stato-progetto” sia le “democrazie popolari” sorte nei paesi del Patto di Varsavia nel secondo dopoguerra, sia le democrazie postbelliche dell’Europa occidentale, già definite dallo storico Martin Conway come “democrazie guidate dallo stato”. Queste ultime, per quanto determinate a mantenere il modello della democrazia parlamentare, non furono esenti da ambiziosi progetti d’ingegneria economico-sociale di cui la pubblica amministrazione e i propri alleati politici, industriali e sindacali furono i protagonisti indiscussi. È proprio in funzione dell’affermarsi dello “stato-progetto” che vennero varate importanti riforme di struttura postbelliche come le nazionalizzazioni industriali e bancarie; l’estendersi dello stato sociale; l’inquadramento del movimento sindacale nella gestione del patrimonio economico nazionale; e soprattutto la programmazione strategica di ampie porzioni dell’economia nazionale al fine di assicurare l’assorbimento di nuove tecnologie da parte di settori chiave come l’industria pesante, e a modernizzare le cosiddette “aree depresse”. Tra i nuovi veicoli politico-ideologici dello “stato-progetto” postbellico troviamo il laburismo inglese, le varietà di socialdemocrazia e democrazia cristiana continentali, e persino l’ordoliberismo della Repubblica Federale Tedesca, la cui “economia sociale di mercato” riconobbe la necessità di conciliare il mantenimento del capitalismo non solo con il potenziamento della previdenza sociale, ma con l’inserimento dei sindacati nella gestione della grande industria.

La stessa Italia Repubblicana è frequentemente citata fra gli esempi di “stato progettuale” postbellico illustrati da Maier. Organi come l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) di Oscar Sinigaglia, L’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) di Enrico Mattei, e l’Associazione per lo Sviluppo Industriale nel Mezzogiorno (SVIMEZ) di Pasquale Saraceno sono ripetutamente indicati da Maier quali esempi di manifestazioni amministrative e strategiche dello “stato-progetto”. Ciò non è per niente un caso, poiché questi uomini non concepivano il ruolo dello stato nella modernizzazione dell’economia italiana esclusivamente in senso pragmatico e “sviluppista”, ma anche in funzione di una precisa dottrina politica, derivata dall’incontro fra industrialismo, nazionalismo, socialismo e dottrina sociale cattolica. Il caso specifico di Sinigaglia – ebreo nazionalista romano, fascista della prima ora emarginato dalle leggi razziali e avvicinatosi ad Alcide De Gasperi durante il proprio esilio vaticano – è particolarmente indicativo di quell’osmosi di individui, idee, istituzioni e strategie che hanno caratterizzato il salvataggio dello “stato-progetto” fascista da parte della democrazia italiana postbellica.

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Come suggerisce il titolo della monografia, lo “stato progetto” non fu esente da rivali che sfidarono la sua agenda trasformativa. Secondo Maier, i due principali rivali dello “stato-progetto” furono “le sfere della governance e del capitale”. Tali termini descrivono rispettivamente la galassia delle organizzazioni internazionali, della società civile, delle ONG, dei ‘think tank’ e degli “esperti”, e il mondo dell’industria privata, della finanza e delle associazioni di categoria che condizionano la struttura e il funzionamento di mercati nazionali e internazionali.

Secondo la tesi di Maier, almeno fino agli anni 70 del XX secolo, il capitale, le organizzazioni sovranazionali e le entità non-governative svolsero un ruolo funzionale – se non addirittura subordinato – all’agenda trasformativa dello “stato-progetto”. Ad esempio, nei primi decenni del secondo dopoguerra istituzioni internazionali come la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD) e ‘think tanks’ come la Ford Foundation assicurarono la loro assistenza tecnico-finanziaria a programmi di modernizzazione economico-sociale concepiti dagli “stati-progetto” sia nel Nord che nel Sud del mondo. In tale contesto, persino importanti manager industriali come Paul Hoffman, amministratore delegato della Studebaker, Direttore dell’Economic Cooperation Administration (ECA) durante il Piano Marshall e infine direttore della Ford Foundation si auto percepivano come dei funzionari ‘paragovernativi’ piuttosto che degli agenti del capitale privato. Il caso Hoffman è indicativo della condizione in cui secondo Maier versava il mondo del capitale durante l’apogeo dello “stato progetto”. Non solo quest’ultimo era riuscito a integrare il capitale nella realizzazione delle proprie ambizioni, ma il capitale stesso era profondamente cambiato, poiché il tradizionale capitano d’industria era stato eclissato da una nuova “tecnostruttura” di manager, propensi a compromessi sia con il potere pubblico, sia con il “potere di equilibrio” dei sindacati e dei consumatori organizzati. Non è dunque un caso che Maier prenda in prestito questi termini dagli scritti di John Kenneth Galbraith – Il Capitalismo Americano (1952) e Il Nuovo Stato Industriale (1967) – entrambi concepiti per descrivere un sistema economico pianificato e organizzato del tutto nuovo che aveva, di fatto, rimpiazzato il capitalismo liberale.

Il predominio dello “stato-progetto” sui propri rivali ebbe tuttavia una breve durata. La crisi economico-energetica subita dai paesi industrializzati negli anni 70 costituì l’opportunità chiave sia per le organizzazioni internazionali che per la galassia degli organismi non governativi di asserire la propria ‘indipendenza’. Dietro alla ‘mobilitazione’ della “sfera della governance”, ricorda Maier, vi erano tuttavia élites economiche e politiche, determinate a “riorientare” (e contenere) le spinte egalitarie che avevano caratterizzato l’attivismo dello “stato progetto” negli anni 60’. Massimo esempio di quello che Maier descrive come il “decollo della governance” fu la Commissione Trilaterale – finanziata da David Rockefeller e comprendente intellettuali come Zbigniew Brzezinski, Michel Crozier, e Samuel P. Huntington – i cui rapporti sottolineavano l’incapacità degli stati di contenere richieste e aspirazioni collettive sempre più irrealistiche, denunciavano un’eccessiva burocratizzazione della vita pubblica, e richiedevano il ridimensionamento delle attività governative esterne alla difesa. Fu dunque in seguito alla crisi strutturale del 1973-79, che tra gli anni 80’ e 90’ la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la Comunità Europea, i think-tanks sostenuti dal capitale privato e dai propri interlocutori politici, amministrativi e intellettuali si trovarono “schierati intorno ad un programma neoliberista”. Le misure che caratterizzarono tale programma includevano una marcata riduzione della spesa pubblica e del ruolo socio-economico dello stato, la deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati, il libero movimento dei capitali e ampie privatizzazioni in campo creditizio e industriale. Concetti come “governabilità” e imperativi come la riduzione del debito pubblico furono appositamente mobilitati per smantellare lo “stato-progetto”.

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Charles S. Maier.

Anche in questo caso, Maier utilizza l’esempio del nostro paese, il cui governi di fine secolo si adeguarono all’imperativo europeo di smantellare gli organi dello stesso “stato-progetto” che la repubblica aveva ereditato dal Fascismo, primo fra tutti l’IRI. Persino avvenimenti come la caduta dell’Unione Sovietica e delle ‘democrazie popolari’ dell’Europa centro-orientale non risultano come la conseguenza di una sconfitta subita durante una guerra di religione tra liberalismo e socialismo, bensì come un caso particolare del ben più ampio tramonto globale dello “stato-progetto”.

Veniamo dunque alla fase conclusiva della monografia, quella riguardante le ripercussioni economiche, sociali e politiche della scomparsa dello “stato-progetto”. Secondo Maier l’ondata populista che ha sconvolto il mondo sin dalla crisi finanziaria del 2008 va attribuita alle “ineguali remunerazioni del successo capitalista” e al “fallimento generale delle dichiarazioni della governance”. Mercato, società civile, e organizzazioni internazionali hanno dunque fallito nel loro intento di porre rimedio ai problemi del mondo globalizzato: diseguaglianze e instabilità economico-sociale, crisi climatica, squilibri geopolitici e tensioni etnico-culturali. Il populismo e le tendenze autoritarie odierne sono frutto dell’incontro fra il senso di alienazione e il malcontento espresso dalle masse popolari di fronte a tali problemi e le aspirazioni di nuovi “imprenditori politici” come Trump, Orban, Modi, e a modo suo Giorgia Meloni. L’obiettivo di questi nuovi soggetti è tuttavia distinto dall’agenda trasformativa dello “stato-progetto” e consiste semplicemente nella loro auto-affermazione come unici mediatori fra le masse, il capitale e le organizzazioni internazionali, a scapito di capri espiatori meticolosamente scelti, fra i quali figurano esponenti dell’alta finanza, delle tecnocrazie sovranazionali, della comunità accademico-scientifica e gli organismi non-governativi a loro vicini.

Di fronte al pericolo rappresentato dagli imprenditori politici, Maier lancia “con una certa trepidazione” il motto “osate più stato” pur di “riequilibrare i rapporti con le reti del capitale” e fornire una soluzione ai problemi del nostro, tempo. Tale invito non è esente da moniti. Lo studioso statunitense è consapevole del fatto che lo “stato progetto” sia stato un’esperienza “potenzialmente pericolosa”. Tuttavia, esplicitamente in polemica con l’antistatalismo adesso riproposto da riviste liberali come l’Economist egli insiste che nelle sue forme migliori lo “stato-progetto” abbia costituito “un mezzo per far progredire il bene comune”. Maier dunque conclude – parafrasando Willy Brandt – che solo ‘osando più democrazia’ e perseguendo fini collettivi che vadano al di là della mera sicurezza nazionale, il nuovo “stato progetto” potrà assolvere nuovamente alla propria funzione trasformatrice e innovatrice.

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