Hai qualcosa da dirci? Non vediamo l’ora di leggerti.

Partecipa al nostro questionario e aiutaci a immaginare il futuro di questa rivista. Bastano pochi minuti per dare la tua opinione.

Il tuo tempo è prezioso, i tuoi suggerimenti ancora di più.

Philippe Halsman fotografo. Parricida?

24 Marzo 2025

La fotografia ritrae Marilyn Monroe nell’istante in cui piega le ginocchia, getta le gambe all’indietro e salta. L’istante. Se credessimo all’istante saremmo inclini a pensare che Marilyn fosse priva di gambe, che fosse una donna mutilata. Sappiamo tutti che non lo era.

Al fotografo quello scatto non convince. “Facciamone un’altra, stavolta però cerca di esprimere un po’ di più il tuo carattere”, si raccomanda. “Vuoi dire che il mio salto mostra il mio carattere?” ribatte Marilyn. Il fotografo la prende per mano e la invita a saltare insieme a lui. Il nuovo scatto li ritrae entrambi sospesi in aria. Il fotografo è col braccio destro proteso verso l’alto e la faccia divertita rivolta all’attrice. Lei invece è di nuovo senza gambe, stavolta spunta solo un piede che sembra una propaggine delle ginocchia.

Il fotografo che considerava il salto alla stregua di uno strumento psicologico era Philippe Halsman. Secondo la sua teoria, il soggetto che si concentra sull’atto fisico del salto perde controllo e compostezza, in una parola, la sua inibizione: “Il salto non esprime sempre ciò che il saltatore è. Può esprimere anche ciò che vorrebbe essere”. Da qui il disvelamento. Ecco allora una serie molto famosa di soggetti saltanti. Non solo gente dello spettacolo come Marilyn Monroe, Grace Kelly, Sophia Loren, Brigitte Bardot, o artisti come Dalí e Chagall, ma anche figure solitamente caute, insospettabili, come Nixon, i duchi di Windsor, Oppenheimer, Steinbeck.

Ma cosa c’è dietro a quella che all’apparenza sembra essere una vaga teoria psicologica applicata all’arte dell’immagine? Ci sono letteralmente tre vite, un cambio di nome e una morte che può sembrare un incidente di montagna, una rapina finita male, o addirittura un parricidio. E in mezzo a tutto questo, due processi, una grazia e una fuga da un continente in fiamme. Se credessimo a quegli istanti impressi sulla pellicola, ci faremmo l’idea di un fotografo incline al gioco, festante, allegro, qualcuno che abbia vissuto una vita tutto sommato felice. Invece sulle spalle di Halsman, e dietro a quei salti, si nasconde un’odissea terrificante in cui un dramma personale si incrocia con il clima che preparò il più brutale progetto di sterminio della storia: la Shoah.

Quell’odissea è raccontata da Corrado De Rosa in La teoria del salto (minimum fax, 2025, p. 433), un ibrido narrativo tra saggio storico e biografia romanzata dedicato alla vita di Philippe Halsman, o Philipp, come si chiama per due terzi del libro, prima di cambiare nome nel tentativo di lasciarsi alle spalle il peso di una tragedia e il conseguente incubo giudiziario che lo coinvolse. Un libro che ripercorre a sua volta le orme di un lavoro di Martin Pollack, Assassino del padre. Il caso del fotografo Philipp Halsmann, pubblicato per la prima volta oltre vent’anni fa (in Italia nel 2009 per Bollati Boringhieri, con la traduzione di Luca Vitali).

De Rosa, psichiatra e consulente forense, ricostruisce nei dettagli il caso di Morduch Max Halsman, un dentista ebreo lettone che il 10 settembre 1928 trova la morte durante una gita sui sentieri della Zillertal in Tirolo. A condividere l’escursione con lui c’è il figlio Philipp, futuro fotografo e ventiduenne studente di ingegneria a Dresda, il quale racconta di essersi trovato qualche passo avanti a suo padre, quando ha sentito un grido e l’ha visto cadere in un precipizio. Ma i sospetti ricadono subito su di lui, nonostante la totale assenza di un movente. A infiammare il clima contro il ragazzo è il violento e secolare antisemitismo della comunità tirolese, su cui ora soffia il nascente movimento nazionalsocialista.

La passione di Philipp per la fotografia non è ancora esplosa, ma quando il giudice istruttore Kasperer lo interroga sulla dinamica dei fatti, il ragazzo dice: “Dopo aver sentito il grido ho visto il corpo... come in un’istantanea”. “Non capisco”, replica Kasperer. “Ho la sua immagine fissa, inclinato, con la schiena verso il pendio. L’immagine di mio padre che si chinava all’indietro era congelata, come catturata in una fotografia. Non voglio dire chiara, voglio dire senza movimenti, fissa. Mi sembra anche che l’immagine fosse inverosimilmente piccola...” A ben vedere il dialogo è uno dei passaggi chiave del libro, malgrado compaia durante la fase delle indagini preliminari, ossia all’inizio.

j

La fotografia torna a fare capolino anche durante il processo, quando De Rosa ci mette al corrente che anche il pubblico ministero è un appassionato di fotografia. “L’occhio di chi ama fotografare è abituato a osservare”, leggiamo. “L’osservazione è la qualità che ogni fotografo ha l’obbligo di affinare senza dare nulla per scontato. Si tratta di un esercizio dinamico, potente, che va alimentato scegliendo con cura le giuste fonti da approfondire”.

Ma la sentenza è scontata: Philipp viene condannato. In carcere tenta il suicidio, ma si salva. Se il clima intorno a lui è decisamente sfavorevole, alcuni grandi nomi si muovono per chiedere la sua scarcerazione. Proprio come nel precedente dell’Affaire Dreyfus. Allora si trattava di Émile Zola, Édouard Manet, Jules Renard, André Gide, Anatole France. Ora scendono in campo Thomas Mann, Albert Einstein e Sigmund Freud. Si va verso un nuovo processo. Benché non si riesca ad accertare la verità dei fatti, e nonostante l’atteggiamento scostante, a tratti irritante, tenuto dallo stesso Philipp durante le udienze, anche questo secondo atto sembra rispondere a una precisa funzione sociale: rinsaldare l’identità tirolese al cospetto della “minaccia cospiratoria” ebraica.

Ma cos’è la verità? Scrive De Rosa: “Il processo penale si nutre di una smisurata ambizione: cercare la verità e dimostrarla. Nel processo penale, la verità è il giudizio che si plasma in esito alla grande rappresentazione che va in scena in udienza, che si fonda sul diritto e si stratifica fra documenti, testimonianze da interpretare, dubbi da fugare, ipotesi da confermare. Non è detto che corrisponda a quello che è accaduto davvero”.

Tra la verità e quello che è accaduto davvero si usa anche l’arma della psicoanalisi. Del resto sono passati ancora pochi anni da quando Freud ha posto la questione edipica. Il tema è sfruttato dall’accusa. Pessler e Mahler, i due avvocati difensori riflettono. “Vogliono farci credere che Philipp ha ucciso suo padre perché soffrirebbe del complesso di Edipo?” chiede Pessler. “È una supposizione senza sostanza”, replica Mahler. Ed è qui che Pessler pronuncia una battuta memorabile che ritrae l’enorme disparità delle forze in gioco: “Confrontarsi giuridicamente con un mito è una lotta impari”. Dovrà intervenire Freud in persona per ricordare a tutti che il complesso di Edipo è un tema universale e non avrebbe dovuto essere offerto come movente a favore della colpevolezza di Halsman.

Anche il secondo processo finisce come il primo. Ma stavolta insieme alla condanna arriva la grazia del presidente austriaco, insieme all’espulsione immediata dal paese. Da qui inizia la terza vita dell’ex studente di ingegneria, ora non più Philipp, ma Philippe. A Parigi Halsman diventa a tutti gli effetti un fotografo di moda. Poi nel 1940 il mondo assiste all’invasione della Francia da parte dell’esercito nazista. Philippe fugge negli Stati Uniti, dove diventerà l’autore di 101 copertine di «Life».

Ma il suo capolavoro sarà il Jump Book, a tutti gli effetti una sorta di collezione di lati B (gli scatti venivano realizzati dopo le sedute di ritratto commissionate dalla rivista, quando Halsman chiedeva ai soggetti di saltare davanti alla macchina fotografica per entrare a far parte del suo progetto personale).

L’istante, dicevamo. Se credessimo all’istante, considereremmo i salti di Halsman per quello che appaiono a prima vista: scatti curiosi, spiazzanti, divertenti, vitali. E non una sottile, dolorosa riflessione sugli effetti della gravità, della caduta e dell’impatto al suolo, gli stessi fattori che trent’anni prima provocarono la morte del padre. Una soglia continuamente attraversata per cauterizzare il più grande trauma della sua vita. Una soglia che il libro di De Rosa tenta di illuminare in tutta la sua enigmaticità.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO