Cesare Tacchi, "La primavera Allegra", 1965

11 Maggio 2023
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Perché un artista contemporaneo sente il bisogno di rifare l’opera di un maestro del passato, e per giunta una tra le più famose dell’intera storia dell’arte?

Le ragioni possono essere varie. Fra le tante è che quell’opera ha smesso di funzionare, perché il suo scopo è venuto meno, o perché semplicemente sono mutati i mezzi necessari a raggiungerlo, e quindi l’opera è stata, per così dire, liberata da sé stessa.

Un’altra possibile ragione è che col passare dei secoli l’opera si è trasformata, tanto da apparire agli occhi del presente come un “fatto nuovo”, e come tale ha bisogno di essere reinterpretata.

Più di tutto però la questione ha a che fare con la tenuta nel tempo. L’immortalità di un’opera infatti è data dal suo sapersi conformare di volta in volta alle ere che mutano. Ma è data anche, nel caso di un manufatto artistico, dal modo in cui si modifica per effetto del suo naturale deterioramento (è dai tempi di Teodosio, sedici secoli fa, che il Colosseo ha smesso di essere il luogo in cui si svolgevano gli spettacoli dei gladiatori, e oggi la sua funzione di rovina è radicalmente diversa da quella di anfiteatro, senza che questo abbia fatto venire meno la sua centralità). Ma è data, soprattutto, dalla diffusione a cui viene sottoposta e dalla sua capacità di colonizzare l’immaginario pubblico.

Non sappiamo con piena certezza quale fosse lo scopo di Sandro Botticelli nel dipingere La primavera. L’argomento è oggetto di molteplici interpretazioni da parte degli studiosi. Per diversi aspetti è un’opera tutta ancora da scoprire. Questo mistero legato all’iconografia ha fatto sì che la sua forma travalicasse il proprio senso, diventando qualcosa a sé, e in particolare la quintessenza di un concetto umano assoluto: la bellezza.

Per Kant la bellezza non definisce l’oggetto, ma esprime piuttosto qualcosa legato al soggetto che formula il giudizio. Vale a dire: quel giudizio non ci fa conoscere nulla dell’oggetto definito “bello”, ma attraverso di esso viene espressa la relazione che intercorre tra il giudicante e il suo stesso sentimento di piacere. La primavera di Botticelli è senza dubbio fra quanto di più bello vi sia al mondo. Ma questo giudizio viene espresso in virtù della sua forma. È il significante, e non il significato, a determinarne la qualità suprema.

Benché il problema della bellezza non fosse secondario nelle intenzioni di Botticelli, questo verdetto ci svela, in senso kantiano, non il valore estetico dell’opera, ma il sentimento del bello che governa il mondo d’oggi.

Ciò che fa Cesare Tacchi in La primavera allegra è lavorare su questa “opera nuova”, intendendo non tanto il portato allegorico della tavola botticelliana, quanto la sua qualità. Una qualità avvertibile come essenza di natura, come l’inestinguibile profumo di una rosa. Al dipinto rinascimentale sottrae alcuni elementi. Per esempio, il Cupido. E ne aggiunge altri, in particolare due motivi pubblicitari: la figura femminile stesa ai piedi della dea e la mano nei capelli che occupa l’angolo inferiore di sinistra.

Se la bellezza, così com’è percepita dal pubblico moderno che osserva l’opera di Botticelli, è svuotata di senso allegorico, allora Tacchi fa ricorso alla tappezzeria floreale in luogo dell’aranceto sullo sfondo. Una forma di stilizzazione industriale prende il posto dell’elemento naturalistico, il che suona come una nota di elegantissima ironia. Il lavoro intellettuale dell’artista consiste in uno spostamento da un ordine estetico – la bellezza – a uno stato d’animo, peraltro dichiarato fin dal titolo assegnato all’opera: l’allegria.

La vezzosità botticelliana delle figure femminili viene rimpiazzata da un’evidente mascolinizzazione dei volti che mette in moto un gioco di forti ambiguità. Il quadro diventa così un fondale in cui prende corpo una tammurriata dei femminielli. Rispetto all’opera originale, a emergere qui è un umore nuovo, un fluido impalpabile che sprizza e invade la scena. È un’allegria, come la intendeva Leopardi, “madre di benignità e d’indulgenza”.

L’arte pittorica trascende. La tavola che fa da supporto all’opera diventa théatron, “luogo di pubblico spettacolo”, dove le figure rappresentate sono attori. È una recita il cui palcoscenico, come nell’antichità e nel medioevo, è riservato ai soli uomini. Poiché è del tutto evidente che di attori si tratta, e non di vere dee.

Nella foto un dettaglio dell'opera "La Primavera Allegra" di Cesare Tacchi, 1965, Ph. Carlo Vannini.

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