Berlino, breve utopia
Ogni generazione coltiva la propria utopia. Il motivo è semplice: l’utopia è il nutrimento della giovinezza. I nati nei primi anni Ottanta hanno connotato la loro utopia collettiva in senso geografico. Utopia del resto è il nome dell’isola di Thomas More. Etimologicamente: luogo che non esiste. Il luogo che quella generazione ha scelto invece esiste, o esiste in parte, o è esistito in un lasso di tempo limitato per poi tramutarsi in qualcosa di molto simile a un sogno. Quel posto è una città. È Berlino.
Vestigia di un passato di feroci ideologie, Novecento liofilizzato, città simbolo della divisione e della decadenza, commovente, sexy, emotiva, freddamente realista, Berlino all’inizio degli anni Zero aveva tutto fuorché il futuro. Per intenderci, ciò che la rendeva attraente agli occhi di un giovane non era tanto il fatto che in essa si potesse riconoscere il posto ideale in cui fare carriera, in cui sviluppare le proprie ambizioni e diventare qualcuno o qualcosa. Non era insomma la Parigi della fine dell’Ottocento, né la New York dell’american dream, e neppure la terra promessa, la speranza del colono, il miraggio del cercatore d’oro. Era un rifugio.
È da qui che bisogna partire per raccontare La chiave di Berlino, di Vincenzo Latronico, pubblicato nelle Frontiere Einaudi. Un’indagine intorno al tempo e allo spazio, prima ancora che a un modello urbanistico, o a una certa idea di modernità, o ancora a un particolare stile di vita. Non a caso il libro si apre con una citazione di Aldo Nove – “Allora era il tempo infinito” – e con un incipit sfacciatamente ossimorico: “Nessun’altra città è così piena di vuoto”.
Se raccontare una città è un modo sempre valido per scrivere di sé, partire dalla descrizione del Tempelhofer Feld, ex piazza d’armi e di sfilate, ex aeroporto, ex qualcosa mai riconvertito a qualcos’altro, significa localizzare subito le traiettorie interiori che traccia questo libro. Rifugiarsi nel vuoto, quindi. Ma rifugiarsi da cosa? Nel caso di Latronico da una borsa di perfezionamento a New York, per esempio, che avrebbe forse preluso a una carriera accademica e a un altro altrove. Da una vita troppo presto determinata. Dalla Milano dei centri sociali degli anni Novanta, che nel frattempo aveva lasciato il posto a una città che sembrava “ammettere unicamente la forma di vita dell’orario d’ufficio”. Dalla fine di certe prospettive di lotta politiche e sociali che in Italia coincise in larga parte con il G8 di Genova. Un’analisi quindi, o meglio, un’autoanalisi. Perlomeno se intendiamo la scrittura in senso freudiano, ossia come riparazione.
Ma nel caso della chiave di Berlino, più che di scrittura riparatoria, si può parlare forse del racconto di una riparazione. È una questione di prospettive. Cos’è l’età adulta se non un lungo e a volte patetico tentativo di riparare le crepe di gioventù? O piuttosto erano, quelle crepe, il mondo ancora intatto che scrutavamo ansiosi? Fatto sta che il ventenne sedotto dal vuoto che sbarca a Berlino nel 2009 lo ritroviamo nella voce che anima queste pagine, oltre un decennio più tardi, ora nostalgicamente assorto a vedersi di spalle che partiva. Autoanalisi di un expat, potrebbe quasi essere il sottotitolo. In effetti a un certo punto del racconto la psicoanalisi fa capolino. Un’anziana psicologa di nome Jutta impone all’autore di parlare in tedesco durante le sedute, nonostante lui si senta più a suo agio con l’inglese. Ritiene il paziente scisso, a cavallo di una frattura che non si salda, fermo a quel vuoto primigenio, il vuoto-rifugio, la forma in cui gli era apparsa Berlino al suo arrivo. Il classico problema dell’integrazione, o qualcosa di più profondo.
Ma come si vive in una città piena di vuoto? A un certo punto della storia umana, la filosofia ha ritenuto che il vuoto non rientrasse nel campo d’indagine di sua pertinenza, lasciandolo agli studi della fisica. Da quel momento il vuoto è stato inteso come forza o “campo potenzialmente attivo”. Nel suo ultimo romanzo, Le perfezioni (Bompiani, 2022), Vincenzo Latronico metteva in scena la vita di Anna e Tom, due creativi, due expat ben insediati a Berlino che a poco a poco finiscono per fare i conti con quella stessa vacuità, stavolta un vuoto di ritorno. Quello era un viaggio al contrario rispetto alla chiave di Berlino: dall’illusione al disincanto.
Nella chiave l’illusione invece non compare mai. Il giovane scrittore espatriato nel 2009 non si illude, piuttosto si adagia. Dà alle proprie giornate una piega di spirito dolce tipico di una certa flânerie (ricorrente è la figura di Franz Hessel, che nel 1929 fu autore di un libro di itinerari e passeggiate berlinesi dal titolo Spazieren in Berlin). Tratteggia una lentezza calma, rilassata, priva di affanno. L’idea di un dilettante (inteso nel senso originale del termine, ossia che coltiva un’attività per diletto) borghese, non coinvolto, che osserva sagacemente, che non vive neppure quando vive.
Prendiamo ad esempio i capitoli in cui Latronico descrive il mondo dei rave, dove il tempo non esiste, o quello dell’arte contemporanea, in cui a un certo punto trova impiego e che attraversa senza mai farne veramente parte. Sembra quasi che quel vuoto originario, il vuoto incarnato simbolicamente e materialmente dalla visione iniziale del Tempelhofer Feld, diventi una âge d’or, una nozione dello spirito cui tendere continuamente, uno spazio mentale da ricercare in ogni cosa, che sia un luogo, un’esperienza, una relazione, una professione, un romanzo da scrivere.
La chiave di Berlino è solo in apparenza quello che si dice, semplificando (sempre troppo), “un racconto generazionale”. Tantomeno appartiene al genere della letteratura di viaggio. Se devo trovare per forza una definizione, direi che assomiglia a un romanzo meditativo sul presente inafferrabile, un tempo in cui a fuggire la realtà non è chi espatria, ma chi al contrario mette radici.