La tigre di Natale
Anni fa, partecipando a un festival letterario in una cittadina del nord Italia, durante una cena feci la conoscenza con uno scrittore peruviano che mi raccontò una storia.
– È accaduta nella tua città, – mi disse, – magari l’hai letta sui giornali.
Riguardava una bizzarra chiamata ricevuta dai carabinieri pochi giorni prima di Natale da un appartamento del centro di Roma, un presunto avvistamento di animali esotici e un’antica credenza scintoista.
– Secondo lo Scintoismo, ogni essere vivente possiede un’anima chiamata reikon, – mi disse. – Al momento del trapasso il reikon abbandona il corpo per ricongiungersi alle anime degli antenati, a patto che la morte non sia stata violenta o per suicidio. Una morte di questo tipo può fare in modo che il reikon si trasformi in yurei, un’anima piena di rimpianti che resta nel mondo dei vivi per infestare i luoghi in cui ha vissuto.
Sorseggiavamo del vino bianco seduti a un tavolo all’aperto, quando una goccia scura cadde dal ramo di un albero che ci sovrastava finendo dritta nel suo calice. Il peruviano guardò la goccia che si mischiava al vino, sorrise e iniziò il suo racconto.
La macchina era ferma sotto le luminarie natalizie, era un giorno assolato e freddo e il traffico corrosivo di Roma era al suo massimo grado. Una donna osservava i vigili che multavano le macchine in doppia fila, mentre pensava incredula a quel parcheggio trovato per carità divina.
– L’appartamento che visiteremo oggi è solo una possibilità, – disse a sua figlia, tirando il freno a mano e cercando nel vano portaoggetti le monete per il parcometro. – Ci sono un sacco di cose da valutare e lo faremo insieme.
La ragazza si chiamava Flavia e non si scompose. Del resto non aveva battuto ciglio nemmeno tre mesi prima quando sua madre le aveva comunicato di voler cambiare casa e quartiere. Scesero dalla macchina, camminarono per qualche metro e si fermarono davanti all’insegna nera di un ristorante giapponese.
– Hai segnato l’indirizzo?
La ragazza tirò fuori lo smartphone e finse di sbirciare sullo schermo. Disse che non lo trovava. Sua madre sbuffò e si ravviò i capelli, poi si portò il telefono all’orecchio e iniziò a parlottare con qualcuno puntando dritta verso il portone sull’altro lato della strada.
In giro c’era un’aria da esasperazione commerciale, Flavia seguì sua madre, la guardò di spalle mentre agitava il telefono sopra la testa chiedendo qualcosa alla vecchia donna che se ne stava seduta nella minuscola guardiola. Considerò ogni dettaglio di quell’atrio e fece fatica a immaginare se stessa mentre passava di lì la mattina presto, facendo un cenno di saluto alla portinaia, stirando un sorriso di cortesia e dirigendosi alla fermata dell’autobus per andare a scuola.
Erano quasi le undici del mattino e nell’androne c’era pochissima luce. Un pensiero si infiltrò nella sua mente: dopo aver fatto colazione aveva dimenticato di prendere il litio. Non sapeva bene a quali rischi sarebbe andata incontro, ma se sua madre non se n’era accorta allora sarebbe andato tutto bene. Il pensiero in quel momento si sovrappose all’immagine della portinaia che indicava la via dell’ascensore: – Quarto piano.
Una volta in cabina, Flavia schiacciò il pulsante. Sua madre le sorrise con un’espressione che tradiva una leggera ansia da prestazione: – Speriamo che sia la volta buona.
Ad aspettarle sul pianerottolo c’era una donna con gli occhi a mandorla, vestita con un tailleur grigio dalle linee asciutte: giacca tre bottoni e gonna stretta sui fianchi. La donna giocava con un grosso mazzo di chiavi. Non appena vide madre e figlia si mosse verso di loro con un sorriso elastico. Si chiamava Seki ed era stata mandata dall’agenzia immobiliare, sebbene non avesse affatto l’aria da agente immobiliare, piuttosto sembrava una gallerista nel giro dell’arte contemporanea.
Quando entrarono nell’appartamento, la prima cosa che colpì l’attenzione di Flavia furono degli strani disegni che correvano lungo le pareti: raffiguravano dei piccoli cavalli alati che volavano su un tappeto di spighe di grano. Le ricordavano una filastrocca che spesso le leggevano da bambina: Cavallino arrì arrò, / prendi la biada che ti do, / prendi i ferri che ti metto / per andare a San Francesco; / a San Francesco c’è una via / che ti porta a casa mia; / a casa mia c’è una vecchiaccia / che fa sempre la linguaccia. Non si faceva menzione di quegli affreschi nelle quattro righe dell’annuncio. – L’uomo che viveva qui era un pittore, – spiegò Seki. Si guardò bene dal rivelare che si era suicidato gettandosi dal balcone.
Flavia immaginò che le due donne potessero fare a meno di lei. Dovevano discutere dei dettagli tecnici, dell’impianto di riscaldamento, dell’esposizione solare, dello stato di conservazione delle tubature. («È da queste cose che dipendono la riuscita di un affare e il senso di una vita», commentò il peruviano). Mentre le due donne si muovevano verso le camere, lei tornò nel living. Si fermò al centro della stanza e si guardò intorno, fece dei piccoli passi all’indietro.
Con le mani alla schiena sfiorò la parete grumosa. All’improvviso avvertì un tremolio che si propagava lungo tutta la superficie. Rimase immobile, la schiena dritta, i sensi allertati. Dopo un po’ eccone un altro, stavolta più forte. Dev’essere il passaggio della metropolitana – pensò – al più una scossa leggera di terremoto. Girò la testa verso la finestra e tese l’orecchio ai rumori provenienti dalla città, poi batté un colpo con le nocche e appoggiò di nuovo il palmo della mano al muro, un istante dopo ecco ancora un fruscio. Batté per due volte: le vibrazioni in risposta le giunsero in assoluta sincronia, stavolta seguite da uno scalpiccio e da un lamento ovattato, come un mugolio rauco.
Poi un lungo silenzio.
Osservando i cavallini alati, alla ragazza venne in mente il suo nuovo planetario portatile. Si chiamava Homestar. Era una piccola sfera che grazie a una lente ottica poteva proiettare circa diecimila stelle in una stanza. («Ne ho comprato uno uguale a mia figlia», mi disse il peruviano. «Davvero uno spettacolo mozzafiato»). Quella mattina, appena sveglia, Flavia aveva sollevato una palpebra e aveva lasciato ondeggiare i suoi grandi occhi mielati tra la Via Lattea e la Piccola Nube di Magellano, rimestando con una mano sotto al materasso dove nascondeva gli avanzi del cibo. Un istante dopo era comparsa sua madre sulla porta: – Abbiamo un appuntamento per una casa, – le aveva detto. Flavia si era stiracchiata. Aveva acceso la luce e le stelle erano scomparse.
Né sua madre né Seki si erano accorte delle vibrazioni e dei rumori. Forse perché provengono dall’appartamento accanto, pensò Flavia, mentre loro sono troppo impegnate a esplorare questo. Voleva vederci chiaro, perciò si arrese alla curiosità. Prima di aprire la porta e uscire sul pianerottolo, si accertò che le due donne stessero ancora facendo il giro delle stanze. Poi sgusciò fuori, socchiuse gli occhi sotto la luce rossastra di una vecchia lampada condominiale e si avvicinò alla soglia del secondo appartamento. Appoggiò una mano sulla porta e subito sentì un tonfo più forte dei precedenti. La porta era aperta. Diede una spinta leggera e le sue narici vennero invase da un fetore selvatico di aria satura ed escrementi. L’alloggio era vuoto, diroccato, freddo e scuro. Avanzando intravide appena le pareti grezze senza intonaco. Al centro, il predatore alfa la fissava con occhi di ghiaccio.
Flavia entrò, tenendo lo sguardo basso, rabbuiato, quasi fosse reduce da una battaglia. Avanzò silenziosa, nell’oscurità, in punta di piedi. La giovane tigre bianca studiò quel piccolo essere umano che era appena apparso dal nulla e che sembrava provenire da un’altra dimensione. Nel funzionamento meccanico dei suoi istinti si domandò quale fosse la sua utilità immediata. La ragazza sfruttò la luce tenue che fluiva dal pianerottolo per mettere a fuoco quegli occhi ipnotici, il naso rosa e le striature marroni sul manto liscio e candido. Non aveva paura, si sentiva solo assediata da tanta brutale bellezza.
Si avvicinò alla tigre fissandole il naso spugnoso e le narici che si gonfiavano a ogni respiro. L’animale, con un movimento improvviso, compì una giravolta e crollò all’indietro, si sdraiò sulla schiena e sbadigliò come un’enorme gatta assonnata.
Flavia si inginocchiò, avvicinò la mano con controllata meraviglia. C’era una violenta tenerezza nei movimenti della bestia, spasmi di energia che preludevano a certi abissi di ferocia primordiale ai quali lei seppe opporre soltanto la sua freddezza umana. La tigre cercò le sue dita con la lingua grigia. Nel sentire quel contatto, la ragazza non avvertì più il consueto pugno che le torceva lo stomaco, ma fu come se sprofondasse in un abisso caldo. Si tolse le scarpe, il giubbotto e il maglione, guardandosi la pelle dei polsi incisa, e si accovacciò addosso al corpo dell’animale. Sentì il sangue scorrerle caldo in ogni estremità, finché il torpore non la rese uno spirito in transito, senza più forma.
A quel punto il peruviano si interruppe, svuotò il bicchiere a terra e si versò di nuovo il vino.
– Più tardi, i carabinieri faticarono a credere alla donna che urlava al telefono dicendo che sua figlia era stata aggredita da una tigre in un appartamento al quarto piano del centro di Roma.
Buttò giù un sorso e si asciugò la bocca col polsino della camicia.
– In effetti, una volta arrivati, trovarono solo la donna in stato di choc che continuava a ripetere quella storia. Ma la ragazza stava bene. Appurarono che non c’era stata alcuna aggressione e che si era introdotta in un appartamento in ristrutturazione, quella mattina gli operai non erano venuti perché la ditta aveva sospeso i lavori per Natale.
Sfiorò col polpastrello il bordo del bicchiere e accennò a un sorriso.
– Della tigre nessuna traccia.