La promoter e il Presidente

25 Giugno 2023

“Senta, ma non ho capito molto bene. Lei viene?” 

Il Presidente appoggiò una mano sul leggio e fece schioccare sonoramente la lingua fissando la promoter vestita di tutto punto in tailleur scivolato rosso cardinale, i suoi morbidi capelli scuri, lo sguardo smarrito che vagava tra le facce dei presenti. 

“Lei viene?” 

“Sì” rispose lei. “Sì”, scandì vividamente, la s che sibilava, spandendosi come una scheggia di bagliore sotto il tetto a doppio spiovente in vetroresina del capannone industriale riconvertito in centro congressi, che con il passare delle ore andava trasformandosi in una specie di enorme gabbia torrida per uccelli tropicali. 

“Sì, ma… Ehm, scusi… Una volta sola?”

“No. Sono due gli impianti”. 

La platea mormorò, e il mormorio si impastò all’effetto Larsen dei microfoni. 

“E quante volte viene?”

Lei fece un sorriso imbarazzato. Non avrebbe dovuto fare niente più che starsene lì impalata davanti al pubblico e spiegare al Presidente come avviene l’istallazione di un impianto fotovoltaico, trattarlo come fosse un cliente qualsiasi, spiegargli i vantaggi delle tecnologie energetiche rinnovabili, installazione e manutenzione, analisi costi-benefici, rispondere alle sue domande.

“Allora, possiamo mettere due impianti, più i led. Possiamo mettere anche la bicicletta elettrica”. 

“Ho capito. Quante volte, quindi?” 

“Tre, quattro, cinque, dipende dalle esigenze”. 

“Con che distanza temporale l’una dall’altra?” 

Si levò di nuovo il ghigno sapido della platea. 

“Dipende dai nostri tecnici”. Sorrise anche lei, peggiorando significativamente la situazione, il sorriso che venne inconsciamente interpretato come un’ammissione di impotenza, un non potersi più sottrarre al gioco. 

“Bene. Mi sembra che sia, tutto sommato, un’offerta conveniente”. 

“Ottimo”. 

“Si vuol girare ancora una volta?” le impose il Presidente tra gli ululati della folla ormai senza controllo. 

“Di là?” chiese lei con tono elusivo, indicando una quinta del palco. 

“Di là”. 

Il Presidente piantò gli occhi ostentatamente sul culo della ragazza. 

“Sì, è un’offerta conveniente”, disse rivolto alla platea. 

Applausi. 

“Bene, è una carta speciale, quindi deve schiacciare bene”, disse lei, porgendogli la penna e il contratto. 

“Devo firmare?” 

“Sì, qui. Due copie. Una per me. Personale”. 

Il Presidente strinse la mascella, le mostrò gli incisivi lindi che non serbavano tracce dei suoi settantasei anni, come del resto niente, in lui, serbava tracce dei suoi settantasei anni, compreso il ghigno di totale eccitamento che ostentò.

“Già che ci sono, le metto anche il numero di telefono?” 

Secondo la psicologia delle masse, ogni individuo, immesso in un gruppo, subisce una trasformazione profonda del proprio comportamento. Alcuni aspetti dell’anima della folla corrispondono a momenti di vita psichica degli esseri primitivi e dei bambini. Quando il Presidente aveva incominciato a tormentarla con quella sequenza ossessiva di doppi sensi a sfondo sessuale, la folla aveva iniziato a comportarsi da folla. Vale a dire che non erano esistite più delle singole personalità, che gli esseri umani che erano confluiti nel centro congressi per partecipare al lancio del nuovissimo sistema fotovoltaico integrato con caratteristiche innovative che utilizza moduli non convenzionali e componenti speciali, durante il quale era prevista l’apparizione del Presidente – amico di lungo corso dell’amministratore delegato della Xxxxx s.p.a. – nonostante i suoi oberanti impegni politici e di rappresentanza, non erano più esseri umani, ma folti atomi di un corpo oltraggiante. Un corpo che era diventato improvvisamente impulsivo, volubile, privo di senso della realtà, indifferente, autoritario e brutale. Un migliaio di persone, uomini e donne, sedotti dal carisma dell’uomo di potere. Un migliaio di persone, uomini e donne, che in un istante erano diventati tutti, indifferentemente uomini. Vecchie signore poppute con vistosi collier d’oro giallo, lobi adornati con gemme degne di una regina, facce gonfie di botox, facce bloccate e ormai inabili a qualsiasi tipo di espressione umana, facce di ex donne, un’orda primordiale, pre-affettiva, che si era scatenata. Da quel momento l’umanità intera si era ritrovata a essere composta da soli uomini, una specie unisessuale ridotta all’irriproducibilità e destinata alla decadenza, una società che possedeva una sola donna, un totem unico piantato lì sul palco, una donna dal sorriso inebetito che dietro a quel sorriso aveva dissimulato la paura, il terrore supremo dell’essere sola; totalmente, antropologicamente sola. 

La promoter scese la scaletta del retropalco, dopo aver consegnato il contratto e il materiale informativo alla segretaria dell’amministratore delegato, e si guardò intorno stordita. Un addetto all’impianto di amplificazione le batté le mani compiaciuto, lei lo guardò e si domandò quale fosse l’esatto motivo per cui quell’uomo le batteva le mani, saltellò con i tacchi tra grovigli di cavi e attrezzature dalle forme per lei insignificanti e si diresse verso il foyer del centro congressi, dove i dipendenti della Xxxxx s.p.a., i manager e i relatori ospiti andavano accalcandosi per il coffee-break. Tra la ressa dei convitati riconobbe il punto esatto in cui si trovava il Presidente, era un vortice umano il cui epicentro era segnato dalla sua nuca essenzialmente calva e striata da ciuffi sottili e lisci che sotto l’illuminazione al neon sembravano i capelli duri di una bambola. 

Quando entrò nella sala immaginò che tutti si voltassero per applaudirla, così come aveva fatto l’addetto all’impianto di amplificazione, anche se in effetti continuava a non avere ben presente il motivo per cui avrebbero dovuto applaudirla. La sostanza di ciò che provava in quel momento era riassumibile in una sola parola: adrenalina. Le sue sinapsi liberavano adrenalina pura, genuina, tonificante. La sentiva innervarsi nei gangli, fiottare nel circolo sanguigno. Aveva ancora davanti agli occhi quella massa di persone, le loro risa sboccate, ma per tutto il tempo in cui era stata sul palco insieme al Presidente non aveva fatto altro che rimanere concentrata sul suo lavoro. Le battute, sì, c’erano state quelle battute, ma nella sua memoria a breve termine quelle battute erano ridotte sia in termini numerici che di virulenza, occupavano uno spazio marginale, non erano state che un fattore secondario della conversazione, un elemento trascurabile del set.

Il responsabile marketing e vendite le si avvicinò facendo scrocchiare sotto gli incisivi una tortilla chips spalmata di guacamole. Le mostrò il pollice e le strizzò l’occhio. 

“Come sono andata?” gli chiese. 

“Alla grande, spettacolo puro”. 

Era vero, spettacolo puro. Questa era la percezione che si era avuta dalla platea. Questo era ciò che ci si aspettava da quel genere di presentazioni commerciali. 

“Lui è un istrione, uno abituato ad avere pubblico. È un professionista, ha sempre un copione preparato”, disse il responsabile marketing e vendite. “E tu sei stata al gioco molto carinamente. Sei stata spiritosa e perfettamente a tuo agio”. 

Lei tirò un sospiro di sollievo. “Andiamo a bere?” propose. Lui alzò un flûte dentro cui brillavano le bollicine di uno spumante da aperitivo. “Da quella parte”, le indicò il tavolo del buffet.

Mentre si spostavano, gli vennero incontro il responsabile acquisti, il responsabile amministrazione e il capo-area. Il responsabile acquisti la abbracciò e la baciò sommergendola con la sua mole da obeso grave. La promoter respirò l’odore acre della camicia sudata e il tanfo di salmone che emanava il suo alito. Anche lui si complimentò: “Spassosissimi”, disse con gli occhi a mandorla che sparivano dietro le enormi guance contratte in un sorriso gigantesco.

Il capo-area ordinò da bere per tutti e propose un brindisi, non prima di averle sussurrato all’orecchio: “Hai vinto la lotteria”. 

Lei sorrideva inebetita a qualsiasi cosa le dicessero, non badava quasi più al senso delle parole, fluttuava nella sua bolla psichica. 

Deglutì tutto lo spumante in un colpo solo. 

“Se devi andare al bagno fatti accompagnare”, disse il responsabile amministrazione sollazzandosi con la vista dall’alto della scollatura della promoter. “Quello è capace di inseguirti”. 

Quello era il Presidente. 

“Avete visto come le ha guardato il culo?” disse a sua volta il responsabile marketing e vendite, scoppiando a ridere e coprendosi la bocca con la mano per evitare che i frammenti masticati di tortilla chips saltassero in tutte le direzioni. 

Il Presidente intanto era assediato da un gruppo di giornalisti venuti di proposito per riprendere il suo intervento. Prima di prestarsi a quel siparietto con la venditrice aveva tenuto un discorso politico di una ventina di minuti di cui in giornata avrebbero parlato tutti i Tg nazionali. 

L’amministratore delegato le fece un cenno, chiedendole di avvicinarsi. Le mostrò il contratto. “Ci facciamo mettere una bella cornicetta, che dici?” 

Era raggiante. 

Alla promoter sembrava di poter respirare tutte quelle cose attraverso la pelle. La concitazione generale, ogni particolare della sala, la nube saturante di parole che galleggiava sopra la sua testa.

Vide uomini allentarsi la cravatta e slacciarsi colli di camicie di cotone bianco, e donne usare le cartelline in cartoncino lucido con il materiale promozionale per farsi aria, sentì la temperatura alzarsi in proporzione al grado alcolico che le fluttuava nel sangue, spumante dopo spumante, sangria dopo sangria, in poco tempo avvertì nettamente di essere in uno stato di ebbrezza tale da poter commettere qualche svista che le sarebbe potuta risultare fatale, e sentì addosso il tailleur zuppo di sudore che diventava una specie di seconda pelle acquitrinosa. E mentre i suoi superiori si sfidavano in un’impressionante gara di trivialità, complice l’alcol che tracannavano senza freni, lei si scusò e andò in cerca di un bagno. 

Si sentiva innegabilmente ubriaca, ma così piena di vita, così ascendente, come se quell’uomo irresistibile e carismatico con cui aveva condiviso il palco le avesse elargito un po’ della sua grazia. 

Entrò nel cesso e si accovacciò sul gabinetto sotto una luce verticale che le cadeva a piombo sulle cosce pallide, aveva sulla lingua il sapore dell’alcol, e le scappava da ridere. Ascoltò il gorgoglio della pipì e si passò una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore. Quando ebbe finito, strappò un pezzo di carta igienica e si pulì. Uscì dal gabinetto e si sciacquò mani e polsi sotto l’acqua corrente. Le vennero in mente le blande discussioni di politica che aveva origliato qualche volta a casa sua, i suoi suoceri che questionavano sui risultati delle elezioni, sulle ricette economiche per uscire dalla crisi. Erano argomenti rispetto ai quali si comportava ancora da ragazzina, con quell’aria di regale menefreghismo con cui gli adolescenti riescono a disprezzare tutto il mondo che si muove al di fuori del loro acquario.

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Illustrazione di Molly Bounds.

Salutò l’amministratore delegato nel parcheggio del centro congressi, lo guardò salire con la segretaria su una fiammante Mercedes color argento cubanite, accostare il sedile lato guida il più vicino possibile al volante (l’amministratore delegato della Xxxxx s.p.a. era alto un metro e sessanta scarsi, aveva un neo sulla guancia sinistra e portava un paio di baffi chevron alla Tom Selleck), svanire dietro ai vetri oscurati. 

La promoter salì a sua volta in macchina e accese il cellulare. Fu travolta da un diluvio di sms, ma non ne sbirciò nemmeno uno, posizionò il telefono in modalità Mute e tirò la cintura di sicurezza. Mise in moto. 

Guardò il cielo, lo stinto cielo estivo, che assomigliava a un panno da cucina sbiadito di quelli che usava sua nonna. Abbassò i finestrini e accelerò fino al punto che le correnti d’aria le scombinarono l’acconciatura, il suo profumo prese a turbinarle intorno come un giovane, imbizzarrito genio della lampada. 

In quel vortice si rilassò. 

E allora iniziò lentamente a riordinare i pensieri, cercando dentro di sé i fotogrammi della presentazione, la pelle del viso color aragosta del Presidente, il suo sorriso preciso come un laser che le era sembrato, in taluni momenti, concederle la massima importanza, salvo poi richiamare su di sé tutte le attenzioni del pubblico con una semplice alzata del sopracciglio. Era diverso da come lo si vedeva in televisione, pensò la promoter. Sembrava ricoperto da una corazza leggendaria. Era come una persona dentro a un’altra persona. Nel vecchio uomo storico che aveva fatto sognare generazioni di italiani si muoveva una specie di campo di energia mobile che non aveva nulla a che fare con un’anima, ma che le ricordava la sensazione che le lasciava sulle dita il contatto con certi petali di trifoglio che conservano sulla superficie il respiro caldo di una giornata di primavera. La verità è che al suo cospetto si era sentita come ipnotizzata, e in quello stato di ipnosi aveva avuto la piena sensazione che le stesse capitando la cosa più importante della sua vita. 

Ma cos’era lei a confronto di lui? 

Che essere vivente minuscolo e senza storia? 

C’era qualcosa nel loro incontro che la pregava di restare all’oscuro, qualcosa che sarebbe deflagrato ma che in quel momento esisteva ancora come atto potenziale, qualcosa che si era insinuato nel suo organismo e che aveva dato origine a un mutamento. Era come una malattia endemica che nello stadio di incubazione irradia strani sintomi benefici, ma che presto mostrerò il suo vero volto devastante. Lui non era solo un uomo importante, era la faccia di un tempo, era l’incarnazione di una molteplicità di vite, ciò che resta dopo l’estinzione di generazioni di uomini senza nome, lui era una balena immensa che sfama con i propri scarti intere colonie di pesci pilota, microrganismi acquatici, parassiti, molluschi, esseri invisibili a occhio umano, creature prive di significato morale.

Mentre lei, lei era cresciuta in un’epoca di manga shōjo, nutrita a abbuffate televisive di Candy Candy, Kiss me Licia, Lamù, La principessa Zaffiro, Lady Oscar, Sailor Moon. Figlia di una sottospecie piccolo-borghese di nuova costituzione, un ceto di tecnici, di commessi, di poliziotti, di impiegati, immune da posizioni di privilegio, ma che poteva godere di un benessere diffuso e del vacuo senso di sazietà che negli anni Ottanta concedeva la corsa all’appagamento consumistico. Una classe che andava a colonizzare quartieri di nuova costruzione nelle ultra-periferie, coppie giovani che costituivano insieme a altre coppie dei nuclei condominiali aperti in sobborghi-isole senza identità, dove si parlava un dialetto diluito e temperato dal gergo televisivo, dove i ragazzini crescevano in vasti cortili alberati senza mai avvertire l’attrazione gravitazionale della città, perché abituati fin dalla nascita a considerare la televisione come luogo, e perciò come centro. Un universo ovattato in cui le grandi questioni non entravano mai a toccare i punti vitali, se non con la volatilità delle storie spaventose della buonanotte, e in cui tutto lentamente si assopiva con lo scorrere sempre uguale degli anni, le smanie dell’adolescenza, i desideri contraffatti, le piccole ambizioni. 

La promoter proveniva da una famiglia che, molti anni dopo, lei stessa non avrebbe saputo collocare in nessuna delle classi sociali di cui parlavano insistentemente i libri di storia, una classe che non si contrapponeva a niente e nessuno, che non aveva una mentalità specifica né un’etica, che non praticava i riti religiosi se non in modi inconsapevoli e sbiaditi (i battesimi, le comunioni e le cresime, le feste del santo patrono, con le bancarelle, i concerti delle orchestre revival, le giostre, i calcinculo, i fuochi d’artificio), che non recava con sé alcuna cultura, e la cui unica peculiarità era l’esposizione ai consumi di massa. Una famiglia, la sua, innestata in un sistema di valori ereditato da una civiltà antica e ancora di ascendenza contadina, ma contaminato dalla vicinanza di altre famiglie, a loro volta discendenti da quella specie di piccola borghesia migrante che proveniva da altre regioni e che aveva ingrassato e nutrito la città a partire dagli anni Cinquanta. Un ibrido senza tempo e senza luogo entro cui aveva abitato e al quale aveva demandato la sua formazione di donna. Né cittadina né provinciale, aveva orbitato per tutta l’infanzia e l’adolescenza (lei come altre migliaia di ragazzini delle sue parti e della sua generazione) come una molecola insignificante intorno a un pianeta che le era sempre apparso troppo vasto e incomprensibile.

E cos’era lui a confronto di lei?

Lui era stato l’inventore delle città-modello, di quelle enclave claustrofobiche in tutto e per tutto simili al quartiere in cui era cresciuta lei. Lui aveva concepito la Tv commerciale, era stato il creatore dell’universo domestico che lei era abituata a riconoscere come amichevole, intimo e familiare (più di quanto non le fossero amichevoli, intimi e familiari i suoi stessi genitori). Lui era stato l’uomo che aveva guidato il paese per i due terzi della vita di lei. Lui era il settimo uomo più ricco d’Italia e il 194º più ricco del mondo, ordini di grandezza rispetto ai quali lei scompariva in un oblio di oscurità e di silenzio. Lui era Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana, Cavaliere di Gran Croce di merito con Placca d’Oro del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, membro di prima Classe dell’Ordine del Re d’Arabia Saudita Abd al-Aziz, Cavaliere di prima Classe dell’Ordine della Stara Planina di Bulgaria, Grand’Ufficiale dell’Ordine delle Tre Stelle di Lettonia, Compagno d’Onore Onorario dell’Ordine Nazionale al Merito di Malta, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Reale Norvegese al Merito, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica di Polonia, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Stella di Romania, Cavaliere dell’Ordine Piano presso la Santa Sede; lei era una lavoratrice parasubordinata con un contratto d’agenzia con diritto a provvigioni e premi a raggiungimento obiettivo, era una moglie, era una madre.

L'illustrazione in copertina è di Molly Bounds.

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