Siti: il corpo smaterializzato
Nell’introduzione a C’era una volta il corpo, uscito da poco per Feltrinelli, Walter Siti racconta un aneddoto interessante. Sta vagando per le strade di un quartiere a lui poco noto e per orientarsi pensa di fare una cosa che reputa normale: chiedere indicazioni a una passante. Tuttavia la cosa “normale” è tale solo per una metà all’incirca degli attuali viventi, ossia per la parte di popolazione divenuta adulta nell’epoca predigitale. La ragazza infatti – racconta Siti – sorride e risponde: “Ora cerco sul cellulare”. Dopo aver consultato un servizio di mappe sullo smartphone, ammette che la via che Siti sta cercando è proprio dietro casa sua, al che si scusa e aggiunge: “Faccio fatica a geolocalizzarmi nel mondo”.
Uno scrittore della statura di Walter Siti, che prima ancora di essere scrittore è un acutissimo osservatore del proprio tempo, non si lascia sfuggire la realtà che si disvela da una frase del genere, tant’è che commenta: “I corpi contemporanei non sanno più di preciso dove si trovano: stanno fisicamente in un luogo ma col cervello e la parola sono proiettati in un altro”.
Riflettendo sulla risposta della ragazza, Siti però non si limita a sentenziare sul corpo umano. Estende il concetto al più vasto corpo della realtà. “Insieme ai corpi sta scomparendo lo spazio?” si chiede pensando a come i navigatori satellitari, per esempio, ci dispensino dal prendere coscienza del paesaggio circostante: “Come il corpo umano, anche il grande corpo del mondo si sta facendo più evanescente?”
Si tratta di qualcosa di cui facciamo esperienza tutti, quotidianamente (io stesso la sto facendo nell’esatto momento in cui scrivo). Di norma non sarebbe una conseguenza della rivoluzione digitale. Capitava anche prima. Per esempio, quando leggevamo un romanzo o assistevamo dal vivo a uno spettacolo teatrale. La differenza ora sta nella quantità di tempo che passiamo nella totale disconnessione tra corpo e mente: il corpo immerso in uno spazio fisico e la mente altrove. Solo che oggi l’altrove soppianta lo spazio fisico al punto da renderlo ormai superfluo.
La progressiva smaterializzazione del corpo, o la sua incessante trasmutazione in qualcosa di concettualmente diverso rispetto all’idea che la specie umana ha sempre avuto di sé e della propria parte materiale, è al centro di questo discorso lungo 150 pagine sul corpo contemporaneo. Un discorso che necessariamente deve partire da lontano, dalla preistoria, dal culto dei morti, attraversando il concetto di bellezza dei greci, fino ai corpi caravaggeschi “divorati dalle ombre”.
Al di là di qualsiasi excursus storico per forza di cose approssimativo, ciò che interessa Siti è soprattutto intercettare e definire l’istante attuale, ossia un tempo in cui le relazioni che intratteniamo con il nostro corpo e con quello degli altri sono già mutate, e forse stanno per mutare ancora più radicalmente, in un modo così traumatico da non avere precedenti nella storia. A consentirgli di coglierne tutti i segnali è lo sguardo clinico dell’intellettuale. Ma si tratta, bisogna pur dirlo, di segnali contraddittori, come contraddittoria del resto è la cifra del presente. Se da una parte infatti il corpo svanisce, dall’altra è sempre più al centro del dibattito pubblico: il cosiddetto “corpo politico”, quello che si oppone ai vecchi schemi discriminatori, che nel rifiutare qualsiasi standard di bellezza ne impone di nuovi. “[…] i volti che incontriamo appaiono spesso privi di personalità e il resto del corpo è disperatamente «come si deve»”, scrive Siti, concludendo con un’intuizione degna di nota: “[…] ho l’impressione che il loro corpo sia sempre inconsapevolmente in posa […] Come se fossero un algoritmo vivente”.
Il corpo qui, la mente altrove, dicevamo. Eppure sappiamo bene che l’individuo è un’unità indissolubile di mente e corpo. A questo binomio tuttavia va aggiunto un terzo elemento, altrettanto fondamentale: la relazione. Siti ragiona sulla contraddizione in essere della nostra contemporaneità, per la quale all’esposizione (seduzione) perpetua non può corrispondere una reazione (“Di nessuno è più consentito dire che sia «brutto», ciascuno è bello a suo modo, quindi logicamente di nessuno si potrebbe più dire che è «bello»”). Il risultato è un’afasia: del corpo è meglio tacere.
“Le vittime hanno sempre ragione?” si chiedeva Siti in un altro pamphlet uscito per Rizzoli nel 2021, Contro l’impegno, in cui rifletteva sul bene in letteratura e sull’alluvione di romanzi consolatori, personaggi esemplari, e (cosa di cui ancora non riesco a smettere di meravigliarmi) autori perennemente in posa da preti benedicenti che passano le giornate sulle pagine dei giornali e sui loro profili social a compilare per gli altri il bugiardino della vita.
Tra dire e non dire esiste però ancora il pensiero. Ciò che Siti nota, osservando in tv l’attacco alle Twin Towers, è come corrono male gli americani. Viene dunque da pensare che se negli anni Sessanta e Settanta la liberazione del corpo passava attraverso la sua esposizione, e lo scandalo era parte integrante del processo, l’emancipazione attuale di tutti i corpi possibili avviene a scapito dell’espressione: non si cerca un effetto di ritorno, anzi, lo si nega a prescindere.
Allora, parafrasando Pinocchio, potremmo concludere: “C’era una volta...” “Il corpo!” diranno subito i miei piccoli lettori. “No, ragazzi, avete sbagliato. C’erano una volta le relazioni”.
In copertina, Laura Berger, Sisters, oil on canvas , 2024.