Soffro dunque siamo
Il 31 ottobre 1987 il settimanale «Woman’s Own» pubblica un’intervista a Margaret Thatcher. The Iron Lady è all’inizio del suo terzo e ultimo mandato da primo ministro e nel corso di quella chiacchierata a un certo punto pronuncia la sua frase più famosa: “La società non esiste. Esistono gli individui”.
L’affermazione possiede la forza riepilogativa di un motto e il magnetismo di una profezia, ma è anche una sorta di lapsus verbale che testimonia l’interferenza inconscia di un desiderio osceno che candidamente si rivela. Quel desiderio aveva il suo ideologo di riferimento in Friedrich Von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974, e corrispondeva al progetto neoliberista teorizzato dalla scuola di Chicago (deregulation, privatizzazione selvaggia, abbattimento delle spese sociali) messo in pratica negli anni Ottanta, oltre che da Margaret Thatcher, da Ronald Reagan. Trentasei anni dopo quell’intervista si può dire che il desiderio thatcheriano di una società “degli individui” sembra essersi avverato.
Senza inoltrarci nelle sue più evidenti conseguenze economiche, in una collettività deprivata di una vera dimensione sociale, l’effetto meno visibile ma più dirompente prodotto dall’ideologia che più di tutte ha plasmato il mondo attuale è stato il dilagare, in tutti gli strati della popolazione e a ogni latitudine, di forme più o meno gravi di disagio mentale. All’intreccio tra il malessere psichico e l’etica individualista e competitiva tuttora imperante, Marco Rovelli ha dedicato un saggio pubblicato da minimum fax, Soffro dunque siamo – Il disagio psichico nella società degli individui.
Quando ho iniziato a leggere il libro di Rovelli – che parte e si sviluppa intorno a un principio ben determinato, ossia che la “chimizzazione” indiscriminata di ogni aspetto della vita inclusa la malattia mentale è servita a scagionare la società e i suoi meccanismi più distruttivi legati alla competizione e alla ricerca del profitto –, mi è tornato in mente l’intervento che fece una lettrice durante una presentazione veneziana a cui partecipai qualche anno fa. Al centro di quell’incontro c’era un memoir in cui raccontavo la storia della mia depressione. Parlando di come nel momento più doloroso e difficile della mia malattia il ricorso tempestivo a una terapia farmacologica fosse stato provvidenziale (cosa di cui sono tuttora convinto) la signora prese la parola: prima si scagliò duramente contro l’industria farmaceutica, poi iniziò a raccontare di come tra i membri di un gruppo di nativi americani coloro che davano segni di sofferenza psichica non venivano isolati, come accade invece in ogni contesto sociale, rispondendo quasi a un ordine darwiniano di selezione naturale, bensì venivano posti al centro di complessi rituali di inclusione che coinvolgevano l’intera popolazione del gruppo. Il risultato era che spesso quei malati guarivano.
Pur non condividendo l’atteggiamento dogmatico di cui la signora sembrava sostenitrice, e avendo anzi tratto indubbi benefici dall’uso delle medicine, mi resi conto come quella storia tirasse comunque in ballo una questione che non avevo mai sentito trattare nei numerosi incontri con gli psichiatri ai quali mi ero rivolto nel corso degli anni, vale a dire il peso che hanno sulla salute mentale, mia e di tutti, cose come essere costretti a svolgere un lavoro insensato e avvilente (di quelli che David Graeber chiamava bull shit jobs), subire il peso della centralità assoluta del mercato in ogni aspetto delle nostre vite, schiantarsi sotto la spinta prestazionale continua a cui siamo sottoposti dall’immaginario sociale. In parole semplici: la questione dell’infelicità. Un’infelicità profonda, permanente, totale, che nel diagramma a torta che potrei sviluppare per descrive le cause della mia depressione maggiore coprirebbe almeno un terzo dell’intera superficie (ai due terzi rimanenti corrisponderebbero la predisposizione genetica e i traumi pregressi).
Ecco, il libro di Rovelli, con un sapiente dispiego di mezzi critici, di resoconti, di storie raccolte fra gli addetti ai lavori, pone la stessa questione della lettrice di Venezia: la soppressione dello scenario sociale tra le concause che stanno alla base di ogni forma di disagio mentale.
In una società in cui ogni individuo è isolato o messo in connessione con gli altri esclusivamente per ragioni di ordine economico, la malattia mentale non è ammessa. Eppure i dati sono sconcertanti. Nel mondo il numero di persone che soffre di depressione supera oggi l’intera popolazione degli Stati Uniti. Tra questi, due su tre non si curano. Ma non c’è solo la depressione, il male tipicamente novecentesco. Ci sono nuove forme contemporanee di disagi accentuate dalla pandemia, come attacchi di panico, disturbi alimentari, fenomeni di ritiro sociale. Se da una parte il disagio psichico prevede come trattamento il ricorso alle farmacoterapie, poiché se ne attribuiscono le cause principali a un’anomalia chimica del cervello, dall’altra nella società della prestazione la debolezza non è contemplata. “Il depresso è l’uomo in panne”, scrive Rovelli, “privo di energia, risucchiato da un buco nero in cui niente è possibile. […] Il depresso è bloccato da un senso di impotenza: le norme sociali ti impongono di fare – e tu non sei capace. […] Il fallimento, allora, è lo spettro che infesta la tua psiche”. Ecco allora che la biochimizzazione della malattia mentale, come scrive Mark Fisher, “è legata a doppio filo alla sua de-politicizzazione”. Se soffri, la colpa è tua.
Rovelli parla di quelle che la psicoanalisi più recente chiama “patologie del desiderio”, l’esatto opposto delle classiche patologie legate alla rimozione. Una realizzazione conformistica il cui modello si spinge sempre più in là, galleggiando inafferrabile in un punto ben in vista davanti ai nostri occhi. Suscitano grande impressione soprattutto i racconti derivati dal mondo del lavoro, da far impallidire perfino il Pontiggia della morte in banca, la “io-crazia” del narcisismo sovralimentato (“Tutto intorno a te”, recitavano due campagne pubblicitarie di qualche anno fa, una di una banca, l’altra di un operatore di servizi di telefonia), le menti distrutte dal senso continuo di precarietà.
La conclusione, logica ma non scontata, è che l’individuo è tale solo se inserito in un contesto di rapporti con gli altri. “Noi siamo relazioni”, scrive Rovelli. La società esiste, anzi, le società esistono. Con buona pace di ogni forma di neo-thatcherismo.