Tomaso Montanari, l'Università in pericolo
Libera università di Tomaso Montanari (Einaudi, coll. «Vele») ruota intorno a tre principali temi. Il primo, enunciato dal titolo, riguarda la situazione odierna del sistema universitario in Italia (ma non solo), ed equivale a un argomentato quanto risoluto segnale di allarme: la politica del governo in materia di università è tesa a conculcare l’autonomia delle sedi e s’inquadra all’interno di un coerente disegno autoritario. Il secondo, strettamente intrecciato al primo, è un intervento a favore della causa palestinese: la connessione consiste nella denuncia della reazione dei governi alle mobilitazioni studentesche pro-Pal, in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti, e si traduce in una precisa presa di posizione propriamente politica. Il terzo consiste in una professione di pacifismo, che s’inquadra in un’idea di università come luogo dove la ricerca si mantiene estranea a qualunque legame o compromesso con la dimensione militare. Ora, sulle tragiche vicende di Gaza, e soprattutto sulle reazioni nei campus dell’Occidente, si possono avere idee almeno in parte diverse da quelle espresse da Montanari; e quanto al ripudio della guerra da parte dell’istituzione universitaria, mi pare che tracciare confini all’interno della ricerca scientifica e tecnologica sia sostanzialmente illusorio. Per questo, nelle righe che seguono mi atterrò al solo primo tema.
L’università è in pericolo. La ragione fondamentale è che l’esistenza di una Università veramente autonoma costituisce un ostacolo per ogni governo che si ponga come obiettivo di «traghettare la democrazia verso un’involuzione illiberale»: un progetto già realizzato nell’Ungheria di Viktor Orbán, che Giorgia Meloni considera da sempre un modello positivo. Lo confermano le gravi notizie che arrivano pressoché quotidianamente dagli Stati Uniti: basti pensare al drastico taglio dei finanziamenti alle università, o al recente annuncio che il presidente Trump intende abolire il Department of Education (Dipartimento dell’Istruzione), demandando ogni competenza ai singoli Stati, alcuni dei quali hanno già dato ampia prova di perseguire politiche ottusamente censorie e oscurantistiche su parecchie materie, quali la teoria dell’evoluzione, i diritti civili, il passato schiavista degli Stati Uniti.
Eloquente sintomo dell’aria che tira in Italia è stato l’anno scorso un intervento di Ernesto Galli della Loggia (I poteri delle nostre università, «Corriere della Sera», 10 aprile 2024), che criticava l’autonomia universitaria e auspicava il ritorno a un sistema centralizzato: mostrando peraltro, chiosa Montanari, «di non conoscere l’enorme rete di controlli, confini e contrappesi centrali appunto che oggi limitano, legano, annacquano talvolta fino a scioglierla, quella famosa autonomia». Poco dopo Galli della Loggia è stato nominato presidente di un gruppo di lavoro sull’Università istituito dalla ministra Bernini senza consultare né informare il CUN (Comitato Universitario Nazionale) e la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane). E il 4 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che fra l’altro delega al governo il riordino integrale dell’università: assetto organizzativo, governance interna, stato giuridico ed economico del personale, sistema di reclutamento, autonomia didattica. A giudizio di Montanari, «una specie di dichiarazione di guerra al sistema universitario»: cui è seguito una riduzione dei finanziamenti che complica una situazione già tutt’altro che rosea, aumentando il divario tra l’Italia e la media dei Paesi dell’Unione Europea quanto a investimenti nell’alta formazione e nella ricerca. L’argomentazione comprende anche un excursus sulla storia dell’Università che non manca di rilevare l’affinità tra la posizione di Galli della Loggia e l’impianto centralistico della riforma introdotta nel 1923 da Giovanni Gentile, nemico di ogni autonomia.

La politica dell’attuale governo è caratterizzata anche da una chiara volontà di favorire le università private telematiche a scapito delle università pubbliche e in presenza: «atenei for profit», sostiene Montanari, «che non formano cittadini ma vendono a clienti», e che hanno come obiettivo «non la ricerca e la cultura, ma il profitto dei proprietari». A questo proposito vorrei aggiungere una considerazione. Il rapporto con gli altri studenti è a mio avviso una componente essenziale, irrinunciabile, della formazione universitaria. Mi è capitato spesso di ripeterlo ai tempi del Covid e della segregazione conseguente: il danno maggiore per gli studenti consisteva, più che nella mancanza di rapporti diretti con i docenti, nella mancanza di contatti fra di loro. Nel termine stesso universitas – che pure ha assunto anche, come ben sappiamo, il senso di “corporazione di docenti e di studenti”, universitas magistrorum et scholarium – è implicita un’idea di apertura e di confronto inscindibile dalla comunicazione immediata, dalla condivisione diretta di esperienze di spazi, dalla fecondazione reciproca delle intelligenze.
Una Università libera costituisce un indispensabile presidio democratico, afferma giustamente Montanari. Ma perché eserciti tale funzione è indispensabile che i docenti universitari abbiano coscienza del proprio ruolo: che si concepiscano come liberi intellettuali, e non come impiegati. E proprio a questo scopo serve «schiacciarli sotto un abnorme peso, sempre crescente, di pratiche burocratiche in buona misura non solo inutili, ma anche sadicamente vessatorie: a ridurli a passacarte senza il tempo, non dico di fare ricerca, ma nemmeno di pensare. Il risultato è almeno in parte stato raggiunto». Tutto vero. Però non si può dire, onestamente, che i governi di centrosinistra abbiano seguito, da questo punto di vista, una politica molto diversa. Né si può imputare solo alla destra la tendenza a privilegiare la funzione «professionalizzante» dell’università, a scapito di una formazione più ampia, che coltivi lo spirito critico, la capacità innovativa, la ricerca di base. Molti provvedimenti ministeriali degli ultimi decenni sottendono il proposito di subordinare l’università al mercato del lavoro. Assai notevoli, anche per la loro tempestività, le osservazioni che faceva Gino Levi Martinoli (fratello di Natalia Ginzburg, collaboratore di Adriano Olivetti e di Enrico Mattei) nel 1961: la richiesta degli industriali che il sistema formativo sforni personale già pronto «va contro i loro stessi interessi più lontani».
Montanari attacca invece la sinistra a proposito della creazione dell’ANVUR, «l’onnipotente Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca». A tale proposito, nutro qualche riserva: personalmente, non mi sento di rifiutare in blocco la cultura e la pratica della valutazione. Non di meno, l’attività – anzi l’attivismo, l’iper-attivismo – dell’ANVUR mi ha spesso richiamato alla mente una frase di Mark Twain: «To a man with a hammer, everything looks like a nail» (a chi ha in mano un martello, ogni cosa sembra un chiodo). Insomma, l’incipit del libro di Montanari – «Questo non è un momento qualunque» – va preso maledettamente sul serio.
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