Gabriele Pedullà, la Storia e noi
Gabriele Pedullà è giunto con Certe sere Pablo (Einaudi, 2024, pp. 240) al suo quarto libro, senza dubbio la sua prova più persuasiva: un trittico di racconti lunghi, che secondo una consolidata tradizione (einaudiana, ma non solo) desume il titolo da uno dei testi raccolti. Certe sere Pablo ha in effetti un ruolo centrale, al di là della collocazione (occupa il secondo posto) e delle dimensioni (è il racconto più lungo). Dal punto di vista tematico, il filo rosso più evidente della raccolta è costituito infatti dall’impegno politico: o per dir meglio, del tramonto dell’impegno politico, dall’esplosione e dall’inopinato esaurimento della spinta innovativa del Sessantotto (Certe sere Pablo, appunto) al tentativo di rilancio degli anni Novanta (Portolano degli anni bisestili), fino all’inatteso riemergere della destra estrema del tempo presente (È stato un soffio).
Prima di proseguire, conviene sottolineare la differente impostazione dei tre testi. Nel primo, dal titolo fortemente metaforico – Portolano degli anni bisestili – la voce narrante si rivolge in seconda persona al protagonista, ripercorrendone l’esistenza dall’infanzia più tenera fino agli anni dell’università; la narrazione si svolge quindi in forma di presa diretta, aderendo strettamente all’ottica soggettiva del protagonista. Il secondo ha invece carattere retrospettivo: un personaggio ormai in là con gli anni, volendo spiegare chi era Pablo, racconta la storia dell’intera sua vita. All’interlocutore, che s’intuisce più giovane (figlio? nipote?), non è data voce, ma la narrazione è punteggiata da appelli diretti o espressioni che presuppongono il suo intervento. Più tradizionalmente, È stato un soffio si presenta come un racconto in terza persona, che segue la prospettiva di un’architetta affermata, la cinquantenne Mirella, alle prese con eventi positivi – i propri successi professionali – ed eventi negativi – l’imprevedibile metamorfosi del marito Carlo, sopravvissuto quasi per miracolo a un incidente automobilistico.
La politica, dicevamo. Il protagonista del primo racconto (coetaneo dell’autore), assimila dalla famiglia una precoce vocazione per la sinistra. Delizioso l’aneddoto dell’annuncio della volontà di sposare una nuova compagna di asilo: per difendere la propria scelta il bimbo ne elenca le virtù – è bella, è buona, è intelligente – ma forse i genitori non sono ancora persuasi. «Esiti, in cerca di un argomento che suoni davvero irresistibile. Poi ti lanci, finalmente: – E non è fascista!». Durante l’adolescenza partecipa bensì alle ultime grandi manifestazioni, ma è l’epoca del cosiddetto riflusso, l’interesse per la politica sta rapidamente scemando. Sintomatico quello che avviene quando ha sedici anni: basta che in autobus si metta a leggere le Lettere dal carcere di Gramsci perché una signora compiaciuta e sorridente si congratuli con lui, gli chieda come l’ha scoperto, si rallegri all’idea che ci siano ancora giovani così. «Anche questo, evidentemente, è un segno degli strani tempi in cui ti tocca vivere: a forza di rovesci elettorali il comunismo italiano, una volta così severo da apparire burbero, ha assunto i tratti indulgenti di una professoressa ormai vicina alla pensione, attenta a colmare di premure non richieste gli ultimi allievi che, meraviglia! ancora si degnano di prestarle ascolto». Attraverso l’esperienza delle tarde, stanche mobilitazioni liceali – le settimane di autogestione in cui la politica conta sempre meno – arriva all’impegno attivo, l’iscrizione al partito, con le riunioni in sezione, l’attacchinaggio notturno dei manifesti. Al protagonista non sfugge che i militanti sono sempre meno, sempre più anziani e disincantati, e chissà qual è la portata del cambiamento di nome e di simbolo promosso da quel segretario nazionale coi baffi. Ma a rilanciare l’entusiasmo – qualche entusiasmo – provvedono Tangentopoli, la fine dei vecchi partiti di governo, l’impressione diffusa di un cambiamento imminente. Il racconto si chiude la notte in cui il protagonista ventunenne attende con trepidazione l’esito delle prime elezioni politiche in cui finalmente la sinistra dovrebbe trionfare (e sarà invece, come ogni lettore ben sa, la prima vittoria di Silvio Berlusconi). La navigazione, in altre parole, continuerà in tempi non fausti, più incerta che mai, piena di incognite.
Nel secondo racconto lo scenario è quello degli anni d’oro della contestazione, delle mobilitazioni studentesche e operaie. Il protagonista le ha vissute in prima persona, le ha condivise insieme a tanti coetanei, fra i quali una compagna di liceo di inarrivabile fascino, Clara, e il suo fidanzato, il leggendario Pablo, bellissimo e sfuggente, laureato in Fisica a Pisa, addottorato a Cambridge, impiegato al CERN di Ginevra; e, come se non bastasse, acclamato oratore nelle manifestazioni più partecipate, tanto che, se lo volesse, non farebbe fatica a diventare il leader del movimento. La politica, a quel tempo, è vissuta come la chiave di tutte le scelte. Se il protagonista si iscrive a Giurisprudenza, e poi si laurea in Diritto commerciale, è in seguito alla scoperta dei Grundrisse di Marx (Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica): conoscere a fondo il sistema capitalistico è il presupposto indispensabile per combatterlo con efficacia. Dopodiché, mentre si divide tra un modesto impiego presso un notaio amico di famiglia e la militanza nell’associazione Soccorso Rosso (e mentre Clara, chiusa per oscuri motivi la sua relazione con Pablo, è coinvolta nella nuova passione collettiva per l’India), riceve da un luminare dell’università la proposta di un contratto negli Stati Uniti. È l’inizio di una carriera professionale brillante, lucrosa, del tutto avulsa dai progetti e dagli orizzonti ideologici giovanili. Di qui una riflessione a posteriori ispirata a un’amara serenità: «quando ti va bene, e poi ti guardi indietro, ti accorgi che la tua vita non è stata che una lunga sequenza di coincidenze fortunate e di decisioni trascurabili». Anni dopo, di ritorno a Roma, il protagonista arriva perfino a sposare Clara, ma il matrimonio non dura. Soprattutto, scopre la vera natura di Pablo, che non era un genietto dai mille talenti, ma solo un estroso, versatile impostore.
Con il terzo racconto siamo all’attualità di oggi. Il marito di Mirella, Carlo, è uno stimato docente di economia; con lei ha in comune un orientamento politico di sicuro segno progressista, del resto largamente condiviso negli ambienti che frequentano. Un giorno accade che Carlo, sovrappensiero, rischi di essere travolto da una macchina sul lungotevere: si salva per un soffio grazie all’intervento provvidenziale di un giovane sconosciuto, che lo scaraventa sul marciapiede. Salvo, malgrado qualche conseguenza apparentemente temporanea (un braccio fratturato, un trauma cranico, lividi ovunque), Carlo non si dà pace finché non riesce a trovare il suo salvatore. Il quale risulta essere tale Marco, un atletico giovane romano di estrazione popolare, dai modi miti e perfino riguardosi, che però nutre evidenti simpatie per la destra estrema; anzi, che è proprio un militante di Casa Pound. Senza dar ascolto a Mirella, che vorrebbe lasciarlo perdere, Carlo si incaponisce a cercare di comprendere il suo modo di vedere le cose: e a furia di frequentare lui e i suoi amici le comprende così bene che finisce per farle proprie.
Certo, questo libro parla diffusamente di politica, del ruolo che la politica ha avuto nell’esperienza di diverse generazioni, in epoche diverse della storia italiana: in buona sostanza, mostra il percorso del progressivo declino della sinistra di ispirazione marxista. Da questo punto di vista, sarebbe interessante verificare l’effetto che può fare sui giovani lettori di oggi, figli del XXI secolo, la rievocazione di quello che poteva essere l’impegno politico negli anni Settanta, o negli anni Novanta, rivisitato – per dir così – dal basso, attraverso lo sguardo di un ragazzo di allora. Però, a lettura conclusa, ho l’impressione che il nucleo più genuino dell’ispirazione di Pedullà non riguardi tanto la dimensione politica, quanto quella emotiva. Certe sere Pablo parla soprattutto d’altro: la fragilità delle ideologie, la labilità delle convinzioni astratte, la sostanziale aleatorietà dei destini dei singoli, la nostra remissività psicologica, infine, di fronte agli eventi. I movimenti della storia, rapidi o graduali che siano – slavine o terremoti, bruschi scossoni o impercettibili derive – hanno sempre una forza tellurica rispetto alla quale la volontà individuale è, a conti fatti, poca cosa. I tempi ci sovrastano: e noi siamo tanto più vulnerabili, quanto più viviamo, quanto più ci muoviamo, da soli. Soli infatti appaiono, in questi racconti, tutti i protagonisti: esponenti della generazione X che hanno cercato di farsi carico della tradizione comunista e non hanno visto arrivare Berlusconi, sessantottini che diventando adulti hanno ceduto alle lusinghe dell’economia di mercato senza nemmeno avvedersene (o comunque ben disposti ad assolversi), maturi intellettuali di sinistra che le contingenze esistenziali scoprono permeabili alla propaganda della destra peggiore. Per consolarci, cercheremo di convincerci che, dopo tutto, il trauma cranico subito da Carlo nella caduta non era stato poi così leggero: che quello che succede dopo, insomma, nasce solo da un problema neurologico – chissà. Mentre per il resto, a conti fatti, sarà difficile sfuggire alla tentazione di invidiare Pablo.
Pedullà ha una scrittura trasparente e fluida (uno stile “semplice”, nell’accezione di Enrico Testa), che modulando i registri intermedi della lingua rende altrettanto bene nel racconto in terza persona focalizzato su un personaggio, nella rappresentazione della rievocazione orale, nella finzione del resoconto dal vivo. Insomma, un libro che consolida l’identità d’autore di un apprezzato italianista. E non ho dubbi che nelle ristampe verrà corretta una piccola svista riguardo al Pantheon, fondato non da Menenio, bensì da Marco Vipsanio Agrippa. In questo modo emergerà meglio un altro aspetto di Certe sere Pablo, cioè lo scenario cittadino di tutt’e tre i racconti: una Roma non invadente ma ben riconoscibile, della quale forse ricorderemo soprattutto – benché evocato solo di sfuggita – il palazzo ottocentesco del Poligrafico dello Stato, dove, disincantati ma non arresi, lavoravano negli anni Novanta quegli ultimi operai comunisti della sezione Parioli.