Primo Levi nella Zona grigia

7 Novembre 2024

Non conosco personalmente Sergio Luzzatto, salvo qualche sporadico incontro, cordiale ma fuggevole. Lo conosco, va da sé, in quanto studioso: e delle sue opere ammiro in pari misura il rigore della documentazione storica e la qualità della prosa, giacché spesso le sue argomentazioni si avvalgono di capacità narrative degne d’un romanziere. In particolare, uno dei suoi libri, la monografia Padre Pio (sottotitolo: Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi 2007) è stata piuttosto importante per la mia visione, oltre che della storia italiana, della società in generale, per ragioni che qui non interessano (preciso solo che mai sono stato un devoto di Francesco Forgione da Pietrelcina). Certo è che, come storico e come scrittore, Luzzatto appare singolarmente attratto dal lato oscuro delle personalità e dei fenomeni verso i quali prova maggiore ammirazione, come la Resistenza e Primo Levi (tutti ricordano Partigia, Mondadori 2013), al punto da suscitare il sospetto che una delle radici del suo scrivere sia l’inquietudine – non so quanto cosciente – riguardo ai propri lati oscuri. Ma questo, va da sé, è un discorso che riguarderà soprattutto i suoi biografi, se ci saranno.

Primo Levi e i suoi compagni. Tra storia e letteratura (Donzelli 2024) indaga la figura storica dei personaggi di cui l’autore parla nelle sue memorie del Lager. Riferimento primario, e quasi matrice dell’intera ricerca, è la lettera del 31 luglio 1961 al farmacista alsaziano Jean Samuel (il Pikolo di Se questo è un uomo) in cui Primo Levi stila un elenco dei componenti del Kommando 98, il «Kommando chimico» di Monowitz. Levi menziona ben 48 nominativi, anche se in alcuni casi ricorda solo il nome (4), o solo il mestiere (3), cosa che rende ovviamente impossibile l’identificazione; e lo stesso vale per chi è citato solo per cognome (12). Ne restano 29 di cui è stata accertata l’identità, e della cui sorte è possibile sapere qualcosa; in più d’un caso, grazie alle meticolose indagini di Luzzatto, si può sapere parecchio.     

Dico subito che per chi ama Primo Levi si tratta di una lettura avvincente. Ad esempio, Luzzatto racconta la storia di Elias Lindzin, l’erculeo nano presentato da Se questo è un uomo come uno dei quattro modelli di «salvati», e poi menzionato sia in uno dei racconti di Lilìt (Il nostro sigillo), sia in I sommersi e i salvati (L’intellettuale ad Auschwitz). Scopriamo così che Elias, sopravvissuto alla marcia della morte e all’inferno di Buchenwald, emigra negli Stati Uniti, dove prende il nome di Edward Lindson; lavora, si sposa, ha dei figli, è inserito nella comunità ebraica di Detroit; a un certo punto gli capita perfino tra le mani If This Is a Man. A causa della sua instabilità mentale entra in contatto con uno psicanalista, il dottor Henry Krystal, già Henyek Krysztal, ebreo polacco anch’egli reduce da Auschwitz, specializzato nella cura dei traumi dei sopravvissuti. Esiste anche la registrazione di un’intervista radiofonica in cui Elias parla proprio di Primo Levi, in termini non amichevoli (peraltro, la sua loquela è alquanto sconnessa). In modo analogo, colpisce apprendere che, a dispetto di un’ingenuità che pareva renderlo così vulnerabile da farne un predestinato al gas, Kraus, il «povero Kraus» di Se questo è un uomo (cioè Pál Krausz, o meglio Krausz Pál, secondo l’uso ungherese) era riuscito a sopravvivere al Lager. Nel 1950 si era trasferito in Israele; e nel corso degli anni Sessanta Levi, saputa la notizia, cercò (senza successo) di rintracciarlo e di mettersi in contatto con lui. Così come è curioso venire a conoscenza del fatto che il rabbino Mendi (al secolo Emil Davidovič), ricordato con grande ammirazione in Se questo è un uomo e felicemente ritrovato da Levi dopo la pubblicazione di Ist das ein Mensch?, sarà oggetto dopo la morte (1986) dell’accusa di essersi impadronito nel dopoguerra di molti libri antichi sequestrati dai nazisti a ebrei tedeschi e boemi, senza curarsi di restituirli alle famiglie di provenienza, spesso identificabili (i lati oscuri, appunto).     

Luzzatto ha compiuto una ricerca quanto mai minuziosa; non c’è dubbio che il suo lavoro offra un contributo significativo alla ricerca storica. Ma quali implicazioni ha questo libro sull’interpretazione dell’opera di Primo Levi? Qui il discorso si fa inevitabilmente più complicato. La tesi che Luzzatto sostiene, alla luce delle notizie che è riuscito a raccogliere, è che Levi si è concesso svariate libertà nel racconto delle sue memorie del Lager non a partire dalla metà degli anni Settanta, com’egli era uso affermare, ma fin dall’inizio, cioè anche nella fase in cui, a suo dire, non inventava assolutamente nulla. Già Se questo è un uomo, insomma, risulta essere un compromesso fra saggio e racconto, fra memoir e fiction.

A scanso di equivoci, va ribadito che Luzzatto nutre grande stima per Primo Levi, soprattutto perché, nei panni di testimone, ha avuto il coraggio di evitare posizioni manichee: il concetto di «zona grigia» è e rimane un contributo fondamentale alla conoscenza del fenomeno storico del Lager, e non solo. Tuttavia Primo Levi e i suoi compagni, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, può oggettivamente fomentare un effetto di discredito. Se così stanno le cose, allora forse Levi non è poi il testimone attendibile che pensavamo fosse. O no? A mio avviso, occorre innanzi tutto evitare risposte precipitate. Luzzatto è uno storico rigoroso, va a caccia di dati e a quelli si attiene; sarebbe fargli torto trascurare o minimizzare i dettagli. Credo perciò sia necessario distinguere tra le varie fattispecie di scostamenti dalla realtà documentabile che possono emergere delle pagine di Levi.

In primo luogo ci sono discrepanze che possono rientrare senza troppi problemi nella categoria dell’errore in buona fede. Io non ho mai ritenuto che si potessero prendere alla lettera le proteste di Levi circa la precisione della sua memoria riguardo al Lager. Che, date le circostanze, avesse una memoria eccezionale, non c’è dubbio; ma l’implicita pietra di paragone non dovrebbe consistere nell’esattezza assoluta di un archivio digitale, quanto in una umanamente più verosimile tempesta di ricordi confusi nella mente del reduce: molti sopravvissuti da esperienze estreme ne sono usciti con un vorticoso caos di spezzoni memoriali, relitti di traumi immersi in un turbine di immagini e impressioni non padroneggiabile. Levi invece conserva ricordi chiari, coerenti, solidi. Qualcuno particolarmente accurato, qualche altro più approssimativo; ma è stato lui stesso a sottolineare che la nostra memoria è al servizio del futuro, non del passato. Nulla di che scandalizzarsi, quindi, se Levi sbaglia – come del resto già noto – l’età di Henri, cioè di Paul Steinberg, che nel 1944 aveva 18 anni e non 22, come si legge in Se questo è un uomo; e lo stesso vale per il fatto che Henri nel Lager si fosse indurito dopo aver perso non un fratello ma un amico, un coetaneo conosciuto a Drancy di nome Philippe Hagenauer.

Qualcosa del genere mi sentirei di dire a proposito del numero di matricola di Elias. Levi gli attribuisce il 141565; era invece 128121. Luzzatto commenta, giustamente, che il dettaglio mira a rafforzare l’effetto di verità del racconto, ma io non darei per scontato che Levi abbia scelto un numero «a casaccio»; è anche possibile che gli sia rimasto in mente un numero sbagliato, fra i tanti – ma quelli dei compagni più vicini, non tantissimi – che aveva sentito ripetere ossessivamente, ogni giorno, anche più volte al giorno (e non dimentichiamo che nell’economia del racconto gli avrebbe fatto gioco indicare un numero inferiore). Più spinosa è la questione che riguarda Somogyi. L’ultimo capitolo di Se questo è un uomo, Storia di dieci giorni, ne racconta l’agonia e la morte; ora, in una lettera (inedita) datata Dortmund, 12 febbraio 1965, il rabbino Davidovič informa Levi di aver saputo da suoi conoscenti slovacchi residenti nella stessa città dove Somogyi lavorava prima della guerra che Somogyi era ritornato salvo da Auschwitz. Qui, evidentemente, qualcuno sbaglia. Ma non è detto che a sbagliarsi sia Levi; e se anche così fosse, l’ipotesi più probabile è che abbia sbagliato nome. Non credo invece, anche in assenza di conferme esterne, che Levi si possa essere inventato l’intero episodio: il cui senso comunque non sta nell’esattezza anagrafica di una denominazione, ma nella rappresentazione della fatica di morire, dell’estenuata agonia, della compulsiva ripetizione (in «un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù») della parola Jawohl, che finisce per suscitare negli altri un’accorata esasperazione.

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Ci sono invece casi in cui è difficile negare che il testo di Se questo è un uomo abbia alterato intenzionalmente la realtà. Il più chiaro è la scena dell’impiccagione. Nel capitolo L’ultimo si parla di un singolo prigioniero giustiziato; a quanto risulta, nel dicembre 1944 a Monowitz gli impiccati, accusati di collusione con gli insorti di Birkenau, furono tre. Lo racconta Elie Wiesel in La nuit, e lo conferma lo stesso Levi in una lettera al direttore della «Stampa» firmata insieme a Giuliana Tedeschi e Leonardo De Benedetti, apparsa il 19 ottobre 1965 con il titolo Furono i deportati di Birkenau a distruggere i forni crematori. «L’intero episodio della morte solitaria è il frutto di una trasfigurazione letteraria», scrive Luzzatto, «cioè di una deformazione dell’accaduto da parte di Primo Levi, allo scopo di rendere la sua testimonianza più immediatamente suggestiva».

Sì, senza dubbio. Però non sono sicuro che suggestiva sia l’attributo più adatto, specie se usato da solo. Suscitare emozione non è l’obiettivo principale di Levi. Il racconto «deforma» i fatti – in questo caso concentrandosi su una figura sola, anziché informarci che nell’Appellplatz c’erano altre due forche – al fine di rendere la scena memorabile. E la memorabilità viene perseguita istituendo un confronto diretto tra sé stesso, il deportato 174517, e un altro uomo, anzi, con un uomo che è riuscito a rimanere tale, a differenza del protagonista: per parte sua costretto, proprio quando assaporava il compiacimento di aver trovato il modo di sopravvivere nel Lager, a rendersi conto di quale sia il prezzo che sta pagando. Deformazione? Io direi, piuttosto: trucco. Trucco, nel senso teatrale o televisivo della parola: un accorgimento estetico che consente di ridurre la distanza dal palcoscenico alla platea, o di compensare gli effetti dei riflettori. Non mi riferisco agli interventi pesanti, che modificano la fisionomia dell’attore in scena o del personaggio inquadrato (e che del resto sono ben riconoscibili), ma a quei ritocchi funzionali che neutralizzano gli elementi disturbanti di spazio e di luce, permettendo così di vedere – o di vedere meglio.

Non sto dicendo, sia chiaro, che Luzzatto abbia torto: tutt’altro. Lo storico fa il suo lavoro. Ma a costruire la stessa memoria storica non è l’aderenza massima ai fatti (i quali, di per sé, sono opachi e transeunti), bensì l’attribuzione a quei fatti di un rilievo e di un significato speciali: un’imputazione di senso che ne mette in risalto il profilo, ne staglia i contorni, li identifica, rendendoli suscettibili di ricordo. Sarebbe stato possibile, a proposito della scena dell’impiccagione, ottenere lo stesso risultato in altri modi? Naturalmente sì, le strategie narrative non sono mai obbligate. Levi ha seguito una strada, ma altre erano in teoria possibili. Ha tradito i fatti? Ha taciuto qualcosa di essenziale? Il nucleo dell’episodio di Se questo è un uomo non riguarda la storia della rivolta a Birkenau o a Monowitz, bensì la vergogna di chi per adattarsi al Lager ha abdicato ad alcune prerogative che siamo soliti attribuire a un uomo davvero degno di questo nome. La domanda che Paul Steinberg, alias Henri, pone nelle sue tarde ma sincere Chroniques d’ailleurs (1996), replicando a Primo Levi che l’aveva ritratto in termini non lusinghieri: «Est-on tellement coupable de survivre?» Si è così colpevoli di sopravvivere? No, lascia intendere Steinberg-Henri. Sì, è la risposta – dolorosa, drammatica – che qui dà Primo Levi.                          

Qui, non altrove. Come ben si sa, non si tratta di una risposta univoca e definitiva. Se noi consideriamo Levi non solo un grande scrittore, ma anche un testimone attendibile, è perché, rievocando ed esplorando il senso di un’esperienza estrema, non semplifica e non risolve, pone domande, si contraddice. A un certo punto della sua trattazione, nel capitolo dedicato all’uso dei pronomi personali – «Voi», «noi», «io» – Luzzatto accosta due brani di Se questo è un uomo, uno dal capitolo I sommersi e i salvati e uno da Esame di chimica. Nel primo, Levi parla dei «musulmani» con distacco; nel secondo, parla di sé stesso come di un musulmano. «Quale delle due figurazioni va ritenuta più corrispondente alla realtà storica di Primo Levi nel campo di sterminio?» si chiede Luzzatto: «A quale Levi dobbiamo credere?» Ma a entrambi, ovviamente! La percezione di sé – e anche la percezione degli altri – non rientra tra i fenomeni per i quali si possa invocare o ipotizzare una «realtà storica». Durante quei terribili mesi a Monowitz il deportato 174517 si è sentito, volta a volta, smarrito o resiliente; capace di reagire, o sull’orlo del baratro; uomo, ancora, oppure no; ha percepito forme residuali o disperate di solidarietà e ha patito una feroce solitudine; si è visto perduto, più spesso di quanto si sia sognato salvo. Di qui, anche, l’alternanza – non priva di drammaticità – fra il singolare e il plurale della prima persona, e la gamma di riferimenti impliciti nei vari «noi». E di tutto questo il superstite cerca di rendere edotti i lettori, tenendo a bada spettri torvi e assillanti che non cesseranno mai di turbarlo (come attesta la poesia omonima, Il superstite, datata 4 maggio 1984).

Detto in altre parole, le oscillazioni che offuscano la possibilità di pervenire a una rappresentazione ultimativa dell’accaduto testimoniano, su un altro piano, lo sforzo del reduce di non essere sopraffatto dalle emozioni, di non essere travolto dall’onda di ricordi troppo brucianti. Questo vale anche per i ritratti umani. Una critica che Luzzatto rivolge a Levi, e che circola per l’intero libro, riguarda appunto i suoi compagni di prigionia. Le immagini che escono dalle pagine di Levi, sostiene Luzzatto, sono talvolta idealizzate; più spesso, sono fortemente peggiorative. Ad esempio, come si concilia l’Elias di Se questo è un uomo, «che in Lager prospera e trionfa», e che può sembrare perfino «felice» (sia pur con la clausola «per quanto ci è possibile giudicarlo da fuori»), con la testimonianza di Paul Lindson, il figlio americano di Elias, secondo cui il padre si svegliava la notte di soprassalto urlando a squarciagola i propri incubi? Non si concilia, ecco tutto. La contraddizione non è nel discorso, è nelle cose. A tacere del fatto che, come lo stesso Levi dichiara nella conversazione del 5 maggio 1986 curata da Luciana Costantini e Orietta Togni (Il gusto dei contemporanei. Quaderno numero sette, Pesaro, 1990), «La spaccatura fra persona e personaggio è insita nell’operazione dello scrivere». E questo è vero sia per le memorie del reduce, sia per il resoconto dello storico.

Certo, un po’ sconcertante è il caso di Josef Lessing, Kapò olandese del Kommando chimico. Nella sua deposizione al processo Eichmann, Levi dice che nel suo ruolo «si dimostrò non soltanto duro, ma malvagio»: affermazione non confermata dai racconti nei quali compare, ad esempio nel tardo Un «giallo» nel Lager, 1986, dove è definito «non particolarmente violento». Luzzatto ricostruisce la vicenda di Joop Lessing, orchestrale (non suonava la tromba, come scrive Levi, ma il violoncello) insistendo sui suoi lutti familiari: ad Auschwitz aveva perso la sorella e la moglie, era ignaro della sorte del figlio, il cognato morirà nella marcia della morte. Tutto interessante, e anche utile; purché non se ne deduca che Levi non è stato equanime nel giudicare i suoi compagni di prigionia perché poco sensibile alla condizione di chi, in Lager, oltre alle sofferenze e alle privazioni che pativa direttamente, doveva sopportare anche il dolore della perdita dei propri cari. Anche senza chiamare in causa la figura di Vanda Maestro (la «donna che gli stava nel cuore»), è lo stesso Levi, in più di un caso, a sottolineare l’effetto della morte dei familiari sul morale e sull’atteggiamento dei prigionieri del Lager.

D’altro canto, Luzzatto ha ragione nel mettere in luce la varietà di posizioni che Levi assume riguardo alla possibilità di giudicare. Alla solenne affermazione che si trova nei I sommersi e i salvati a proposito degli esponenti della zona grigia («La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura») fanno riscontro i non pochi casi in cui il narratore assume il ruolo di «io giudicante». Ma credo che bisognerebbe calare ogni affermazione nel preciso contesto narrativo in cui la si incontra, distinguendo caso per caso il tipo di giudizio a cui si allude: altro è la reazione contingente del soggetto, la valutazione etica di chi è coinvolto in un evento, altro l’ipotetico esercizio di una funzione giurisdizionale, cioè la sentenza che si potrebbe pronunciare al termine di un processo.

Fra i caratteri più singolari ricordati da Levi c’è il polacco Leon Rappoport, protagonista di Capaneo, un racconto di Lilìt. L’episodio si svolge in un rifugio, durante un bombardamento. Animato da una vitalità prorompente, «ferina» («viveva in Lager come una tigre nella giungla»), Rappoport proclama di essersi goduto ogni giorno della sua vita e, a dispetto della prigionia, sente il proprio bilancio ancora in attivo. «Se nell’altro mondo incontrerò Hitler, gli sputerò in faccia», grida, «perché non mi ha avuto!» (di qui il titolo dantesco del racconto). Ora, Levi è infastidito dal fatto che Rappoport, a dispetto delle drammatiche circostanze in cui si trovano, indugi a rievocare i meriti di una prostituta della città italiana dove ha studiato. Moralismo, sessuofobia, come dice Luzzatto? Può essere; ma il giudizio dello storico non sembra meno soggettivo di quello del memorialista. Un altro aspetto, invece, mi pare vada sottolineato. Il vero nome di Rappoport era Arie Leib Treijstman; aveva studiato non a Pisa, ma a Bologna; e, come Levi aveva supposto, non era riuscito a sopravvivere al Lager. In effetti, dagli archivi risulta morto in un sotto-campo di Buchenwald, Mittelbau-Dora, nella primavera del 1945. Ma Luzzatto ci informa anche di un evento successivo. Vent’anni dopo, nel 1966, il fratello Shmuel, residente a Haifa, si rivolge all’Università di Bologna, sperando che fra le carte dell’università ci sia qualche documento che gli ricordi Leib, di cui nulla, ma proprio nulla, è rimasto. Ora, nel sobrio ma non trascurabile corredo di immagini del volume di Luzzatto compare anche il libretto universitario con i dati anagrafici di Arie Leib Treijstman, trasferito all’Alma Mater dall’Università di Roma, iscritto a Medicina e chirurgia il 20 settembre 1934; manca la fototessera, che un anonimo quanto premuroso funzionario dell’ateneo ha strappato e mandato in Israele al fratello superstite. Un effetto di verità straordinario, superiore a quello di qualunque volto reale ritratto in bianco e nero novant’anni fa.    

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