Ade Zeno e i suoi freaks

23 Luglio 2024

La figura del freak ha ormai una lunga storia nell’immaginario narrativo contemporaneo, almeno a partire dallo storico film di Tod Browning del 1932 (peraltro più famoso che visto), intitolato appunto Freaks. Una storia in cui, accanto ad acclamati capolavori come The Elephant Man di David Lynch (1980), un posto non secondario spetterà anche all’albo n. 81 (giugno 1993) di Dylan Dog, Johnny Freak, una delle non moltissime storie sceneggiate personalmente da Tiziano Sclavi. All’appuntamento con quelli che in italiano a volte sono (o erano) denominati «scherzi della natura» – le persone che presentano difformità fisiche vistose, tali da suscitare nel pubblico una tossica miscela di sgomento, ripugnanza e curiosità – non poteva mancare Ade Zeno, frequentatore appassionato delle province dell’horror. I Santi Mostri (Bollati Boringhieri, pp. 202, € 17,00) racconta la vita di Gebke Bauer, nato con dodici dita (due pollici alla mano sinistra, due mignoli alla destra), che insieme all’amico Jörg Brandt, nato coperto da un manto di pelo (viso compreso), dà vita a una compagnia di artisti girovaghi, tutti affetti da qualche malformazione. Balthasar ha tre gambe; Benno ha l’articolazione delle ginocchia invertita; Nikolaus è alto due metri e venticinque, e così via.

Proprio dei freaks è il doppio regime della denominazione: una scientifica, aulica e grecizzante, e una popolare, impietosamente sbrigativa e cartellonesca. Così abbiamo da un lato la polidattilia e l’ipertricosi, dall’altro l’uomo-scimmia, l’uomo-piovra. La nascita della Compagnia errante dei Santi Mostri (Das irrende Ensemble der heiligen Ungeheuer) è resa possibile dall’accordo fra Gebke e un olandese di nome Warin Dekker, uno degli impresari del ramo, che a un certo punto gli cede i suoi «ragazzi» consentendogli di svincolarsi dalla dipendenza di un circo. Il gruppo gira fra le città della Germania in un vecchio autobus riadattato a caravan, battezzato Geraldine; con il tempo s’ingrandirà accogliendo altri artisti, fra cui un nano, due gemelli siamesi, un uomo con un occhio solo in mezzo alla fronte (soprannominato Polifemo), una cieca che fa la funambola. Ma il contesto si viene facendo sempre più difficile.  

La vicenda è infatti ambientata fra le due guerre: Gebke, che fin da ragazzo indossa sempre i guanti, si laurea in filosofia teoretica con una tesi dal titolo Prolegomeni alla fenomenologia del nulla il giorno del fallito putsch di Monaco (8 novembre 1923), che costa a Adolf Hitler qualche mese di galera. Nella Repubblica di Weimar il mondo dello spettacolo conosce un periodo di effervescente libertà: è l’epoca della fioritura dei Kabarett berlinesi, in cui comicità, sensualità, satira sono praticate con inventiva e spregiudicatezza. Ma negli anni Trenta le cose cambiano. Marlene Dietrich, dopo aver assistito allo spettacolo dei Santi Mostri, suggerisce a Gebke di lasciare la Germania, finché è in tempo; Gebke rifiuta. L’avvento al potere del nazismo non provoca un’immediata catastrofe, anche se la vita della Compagnia dei Santi Mostri si complica. Per qualche anno riesce a sopravvivere fra gli interstizi di una società sempre più chiusa, grazie alla profonda solidarietà che lega i suoi componenti; con la guerra, la dispersione è inevitabile.

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La narrazione si concentra allora sulle vicende del ciclope, Andris Schneider, che viene preso in consegna da Karl Brandt, il medico e ufficiale delle SS responsabile del programma di eugenetica. Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, Andris non viene soppresso, né sottoposto a particolari indagini cliniche; viene usato, invece – dopo un incontro con il Führer in persona, nella leggendaria residenza alpina del Berghof – negli interrogatori dei prigionieri politici, quando la sua sola, mostruosa apparizione, con il gesto spaventoso di togliersi gli occhiali scuri, terrorizza le vittime, spesso già fiaccate dalle torture. In questa veste gli capiterà di incontrare per l’ultima volta Gebke, prima che sia fucilato. Non riuscirà invece a rivedere Leila, la funambola cieca, alla quale scrive lunghe lettere d’amore che non raggiungeranno mai la destinataria. 

L’unico a sopravvivere alla guerra sarà Jörg. E con lui fortunosamente si salva la copia del poema italiano che Gebke gli aveva fatto tante volte leggere in pubblico, Il Paradiso dissolto, attribuito a tale Lazzaro Ghirlandai: fin dagli inizi della loro avventura, nel Circo Vogts, il numero dell’uomo-scimmia consisteva nella lettura del testo in lingua originale (a lui peraltro ignota). L’autore, come ciascuno può indovinare, era lo stesso Gebke, poliglotta, oltre che polidattilo. La dissoluzione del Paradiso va di pari passo con la fenomenologia del nulla: Gebke appartiene alla categoria degli eroi del disincanto, consapevoli di essere votati alla sconfitta e silenziosamente persuasi della vanità dell’esistere. Il suo tratto distintivo consiste nel rifiuto di attribuirsi qualunque merito, non che di battersi per una causa giusta, o per una causa quale che sia. Rivelatore, da questo punto di vista, il colloquio con Marlene Dietrich, che gli dice di trovarlo coraggioso (inserisco per chiarezza i demarcatori del discorso diretto, che nell’originale mancano): «“Cosa glielo fa pensare?” / “Il fatto che in tempi come questi abbia deciso di lavorare con una compagnia di storpi”. / “Non sono l’unico a sfruttare mostri per tirar su qualche soldo”./ “Ha trasformato un manipolo di disgraziati in grandi artisti, non è cosa da poco. Ha dato loro una possibilità”. / “Ne ho offerta una a me stesso, è diverso”».

Il senso ultimo del romanzo, in sintonia con il mito novecentesco del freak, è ben riassunto dall’epigrafe, tratta dal Franco cacciatore di Giorgio Caproni: «Fermi! Tanto /non farete mai centro. //La Bestia che cercate voi, /voi ci siete dentro». Da questo punto di vista, potremmo aggiungere, nulla di nuovo: la mostruosità autentica alligna nella cosiddetta normalità, capace di partorire le SS nel secolo ventesimo, o i comprachicos nei tempi andati (d’obbligo il rinvio all’Uomo che ride di Victor Hugo). Ma sarebbe sbagliato pensare che quello di Ade Zeno sia un romanzo prevedibile o epigonico. Innanzi tutto perché I Santi Mostri è un’opera costruita con molto equilibrio: l’intreccio delle avventure di Gebke e compagni con le vicende politiche del Reich prende corpo in maniera graduale, senza l’ingombro di chiose o commenti esterni, fino a occupare per intero il campo in un efficace crescendo drammatico. In secondo luogo, i personaggi sono ben tratteggiati, e la storia d’amore fra Andris e Leila è un delicato controcanto al progredire delle sventure.

Infine, l’intera opera appare sospesa tra una dimensione materiale, concreta, dominata dalle immagini dei corpi deformi dei personaggi, e un senso di vuoto che circola fra le pagine e si afferma man mano, fra lettere non lette, parole non comprese (le Lecturae Ghirlandai), i discorsi preparati invano, i congedi, gli addii. Forse, come dice Gebke a un certo punto, perché le cose non dette funzionano meglio. O forse, semplicemente, perché il destino dei «mostri» (monstrum da «mostrare», dalla medesima radice di moneo, ammonisco) è di sparire. Il destino loro, e non solo. 

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