Papa Francesco: leggere per credere

18 Settembre 2024

A metà luglio papa Francesco ha scritto una lettera che parla di letteratura, pubblicata sull’apposita sezione del sito del Vaticano. Interessante è il titolo, Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione. La prima idea – come spiegato in apertura – era di riferirsi specificamente alla formazione dei sacerdoti, ma poi ha prevalso una prospettiva più ampia, che comprende non solo tutti gli «agenti pastorali», ma tutti i cristiani. L’idea di fondo è che la lettura di romanzi e di poesie giovi alla maturazione personale: e chiunque si occupi di letteratura, evidentemente, non potrà che essere d’accordo. Di per sé gli argomenti con i quali la tesi è sostenuta non sono originalissimi (né immagino pretendano di esserlo); ma è significativo che a farsene interprete sia la massima autorità del mondo cattolico. 

Tempo fa, Romolo Rossi consigliava ai colleghi psichiatri di leggere Proust e Dostoevskij, che spesso sono più utili di un trattato. Martha Nussbaum, studiosa di etica e di filosofia politica, sostiene da sempre che la lettura di romanzi è positiva sia per la formazione dei magistrati, sia per i comuni cittadini, perché accresce la sensibilità per il mondo interiore dell’altro, e perciò accresce il senso della giustizia, con palese vantaggio per la vita civile. Pochi mesi fa è uscita presso Einaudi, per la cura di Simonetta Fiori, una raccolta di interventi dal titolo La biblioteca di Raskolnikov. Libri e idee per un’identità democratica, in cui intellettuali di vaglia (Luciano Canfora, Franco Cardini, Elena Cattaneo, Anna Foa, Nicola Lagioia, Marco Revelli, Aldo Schiavone, Gustavo Zagrebelsky), ciascuno rispetto al proprio orizzonte disciplinare, indicano le condizioni che possono consolidare la democrazia, innanzi tutto nella coscienza dei cittadini; e molti sono gli scrittori chiamati in causa, accanto agli specialisti dei vari rami del sapere. 

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Papa Francesco, insomma, è in buona compagnia. Beninteso, nella sua lettera non mancano argomenti che si collocano su un orizzonte propriamente spirituale. Ad esempio l’idea che la parola letteraria, mettendo in moto il linguaggio, allargandolo e purificandolo, apra la via alla Parola divina; o che addirittura, come afferma il teologo tedesco Karl Rahner, «tenda verso l’ineffabile». Analogamente, non mancano riferimenti alla realtà specifica dei seminari, dove troppo spesso alla letteratura non è dedicata un’attenzione adeguata perché viene considerata come una forma di intrattenimento, o comunque come qualcosa di non essenziale. «Al riguardo», scrive Francesco, «desidero affermare che tale impostazione non va bene. È all’origine di una forma di grave impoverimento intellettuale e spirituale dei futuri presbiteri, che vengono in tal modo privati di un accesso privilegiato, tramite appunto la letteratura, al cuore della cultura umana e più nello specifico al cuore dell’essere umano».    

Quello che vale per i presbiteri vale anche per i formatori laici, sia per chi lavora nella scuola, sia per chi opera in altri contesti: insegnanti e educatori in primo luogo, ma non solo. Il discorso potrebbe essere allargato all’intero ambito delle scienze umane e sociali, intese in senso ampio (ricordo che Adam Smith ebbe a scrivere che l’economia, dopo tutto, è una scienza morale). E non solo: Il sistema periodico di Primo Levi è lì a dimostrare quanto vicine possano essere la mentalità scientifica e la sensibilità letteraria. E poiché il 2024 è un anno morantiano – numerose, giustamente, sono le celebrazioni del cinquantenario della pubblicazione della Storia – vale la pena di ricordare quello che Elsa Morante dichiara all’inizio di Pro e contro la bomba atomica a proposito della distinzione fra scrittore e letterato: «lo scrittore (che vuol dire prima di tutto, fra l’altro, poeta), è il contrario del letterato. Anzi, una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura» (corsivi nel testo).    

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La letteratura – la poesia – può parlare di tutto, in tutti i modi; e può parlare a tutti (anche all’analfabeta, a cui La Storia è dedicata). Tale qualità è l’origine della sua forza, ma può essere anche una ragione di debolezza. In particolare, negli ordinamenti scolastici e universitari la letteratura è sempre esposta al rischio di essere sottovalutata, penalizzata o negletta, a vantaggio di rami del sapere più specifici e di pronta applicazione pratica. A questo proposito vale la pena di ribadire, una volta di più, gli aspetti dell’esperienza letteraria su cui si fonda l’utilità che viene periodicamente sottolineata da tante prospettive diverse.

In primo luogo, leggere opere letterarie significa far esercizio di empatia. Il pontefice cita una frase di C.S. Lewis, secondo cui il lettore è messo in condizione di «vedere con gli occhi degli altri». Abituarsi a mettersi nei panni altrui, a far proprio il punto di vista di persone diverse da noi, è un aspetto fondamentale per la vita di relazione, sia nella dimensione privata, sia in quella pubblica, professionale e istituzionale. Bergoglio avrebbe potuto anche citare una memorabile massima di Pavel Florenskij: «Il peccato radicale, ossia la radice di tutti i peccati, è l’insistenza nel non uscire da sé stessi». Il principio vale anche a prescindere dalla categoria di peccato. Ogni chiusura egoistica, ogni ripiegamento spilorcio su di sé pregiudica la piena espansione della soggettività; e (come insegnano I promessi sposi), oltre a ignorare, offendere o danneggiare gli altri, rende comunque infelici. Qualche tempo fa, recensendo una raccolta di racconti di Nadia Fusini (Creature in bilico, Einaudi, 2023), lo storico dell’arte Tomaso Montanari così esordiva, sull’onda delle discussioni suscitate da tragici fatti di cronaca: «Forse, più che ficcare nell’esausto orario scolastico un’ora di affettività, sarebbe più sensato fare bene le ore di letteratura». Ecco, appunto.    

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In secondo luogo, l’operazione che ogni opera letteraria compie – s’intende, ai più diversi gradi di estensione e di complessità – è di dar senso all’esistente: alla realtà, a quello che accade e che ci accade. Si tratta di un’esigenza profondissima della nostra psiche: noi abbiamo bisogno di trovare una ragione, o almeno un ordine, nelle cose. La letteratura viene incontro a tale istanza grazie alla possibilità di offrire simulazioni di esperienza circoscritte e condensate, e quindi padroneggiabili. Nessuno lo ha detto meglio di Proust: il romanziere, si legge nella Strada di Swann, «scatena dentro di noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e le sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte, e di cui le più intense non ci verrebbero mai rivelate giacché la lentezza con la quale si producono ce ne impedisce la percezione». Qui s’annida, fra l’altro, il rischio (o il limite) di una forma narrativa che oggi conosce uno strepitoso successo popolare soprattutto in campo cinematografico e televisivo, cioè le serie: che, prolungandosi indefinitamente, surrogano le potenzialità di senso implicite nel fatto che una storia ha un inizio e una fine con i meccanismi della ripetizione e dell’assuefazione.  

In terzo luogo, la letteratura è fatta di parole. Non è esistita epoca, forse, in cui l’umanità ha prodotto tante parole come accade nel mondo odierno; ma in troppi casi si tratta di parole di scarsa qualità. Parole generiche, approssimative, improprie; luoghi comuni, frasi fatte, riprese meccanicamente, senza attenzione, con deplorevole, corriva pigrizia. Quella insomma che Calvino in Esattezza chiama la peste del linguaggio, e che dall’epoca delle Lezioni americane non ha fatto che aggravarsi (ed estendersi in maniera formidabile anche al dominio delle immagini): alla quale si è aggiunta, grazie alle nuove tecnologie, la possibilità di imporre con nuova, sconvolgente efficacia le pure e semplici menzogne. Noi viviamo immersi in un universo di parole che purtroppo, anche quando non rientrano nel dominio delle falsificazioni, sono per lo più imprecise, inadeguate, dozzinali, e perciò cariche di indiretti ma non per questo meno insidiosi pericoli. Al contrario, la letteratura – la buona letteratura – rappresenta una sorta di Terra Promessa del linguaggio. È un luogo dove le parole sono scelte, soppesate e valorizzate: il luogo dove il linguaggio dispiega tutte le proprie potenzialità, esercita a pieno regime le proprie attitudini a evocare, rappresentare, argomentare, commuovere. Detto altrimenti, l’abitudine alla lettura esalta le risorse comunicative: e con esse quelle capacità relazionali, quelle competenze riguardo alla previsione e all’interpretazione dei comportamenti, che vanno sotto il nome di soft skills.  

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La letteratura infine – cito il titolo di un paragrafo della lettera del Papa – è “una palestra di discernimento”. Leggere opere letterarie offre l’opportunità di distinguere, di mettere a fuoco: le parole in primis, e, attraverso le parole, gli eventi, i pensieri, i discorsi sul mondo, il modo in cui ci si rivolge agli altri, le emozioni proprie e altrui. Come ha detto Tzvetan Todorov (La letteratura in pericolo, 2007) la letteratura aiuta a vivere: «Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e di organizzarlo. Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. Ci procura sensazioni insostituibili, tali per cui il mondo reale diventa più ricco di significato e più bello. Al di là dell’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano».       

La lettera di papa Francesco suggerisce però anche un altro ordine di riflessioni. Quanti dei suoi predecessori avrebbero potuto condividerne il contenuto? Da laico, da non credente ignorantissimo in materia, mi sentirei solo di azzardare delle ipotesi (per dire: Paolo VI sì, Pio XII no, da Pio IX in giù neanche a parlarne, San Francesco meno che mai – ma questo sarebbe un altro discorso). E quanti dei leader religiosi attuali sarebbero disposti a sottoscriverlo? A tacere dell’ovvio oscurantismo di certi contesti, su cui non vale la pena di insistere, presumo ad esempio che nel mondo islamico le posizioni sarebbero piuttosto differenziate; idem nella galassia delle chiese evangeliche e protestanti; e sarei grato a chi mi potesse fornire indicazioni più precise in proposito. 

Ma lasciamo perdere la religione. Siamo proprio sicuri che i giovani e le giovani che oggi studiano per diventare maestre, maestri, insegnanti nei vari ordini e gradi scolastici, condividano davvero la posizione espressa da Bergoglio o da Todorov? Personalmente, non me la sento di dare per scontata una risposta positiva. No, non me la sento proprio. Né credo sia realizzabile una misura che sarebbe a mio avviso, utilissima: prevedere per un buon numero di corsi di laurea un test d’ingresso consistente nel riassumere in uno spazio massimo di 300 caratteri, spazi compresi, la trama dell’ultimo romanzo letto. Mi auguro solo che non dobbiamo, in un avvenire neanche troppo remoto, invidiare la formazione dei futuri presbiteri. 

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