Franchini: sub specie matris

30 Giugno 2024

La dimensione autobiografica, come quella antropomorfica, non si può mai estromettere completamente dalla rappresentazione letteraria. L’autobiografismo potrà essere parziale, dissimulato, camuffato, circoscritto; gli si potrà imporre una sordina, lo si potrà disseminare in maniera irregolare e sfuggente, o, al contrario, lo si potrà ostentare in modo tale da revocarne in dubbio la genuinità; quello che non si può fare è eliminarlo del tutto. Dopodiché ci sono scrittori la cui vocazione è intimamente, squisitamente autobiografica: narratori dediti all’esposizione e all’esegesi dalla propria esperienza, anche se non necessariamente desiderosi di parlare innanzi tutto di sé. È questo il caso di Antonio Franchini, una delle voci meglio impostate della sua (e mia) generazione. L’ultimo suo romanzo, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024, p. 224), è niente meno che il racconto della vita della madre: inevitabile dunque un grado particolarmente elevato di coinvolgimento personale. La storia di Angela Izzo da Cautano (Benevento), moglie e poi vedova di Eugenio Franchini, cresciuta e maritata a Napoli e più tardi trasferita a Milano in un appartamento adiacente a quello del figlio, è in buona parte la storia del rapporto con l’io narrante. Per certi versi, si potrebbe addirittura azzardare l’ipotesi che questo libro sia un’autobiografia sub specie matris, e proiettare la metafora del titolo – Il fuoco che ti porti dentro – su altre opere precedenti di Franchini, a cominciare da quelle dedicate al combattimento o alle imprese sportive. Ma se c’è una cosa che a Franchini non fa difetto è l’autocoscienza critica: tant’è che in un punto cruciale del libro, cioè sulla soglia della sequenza che rievoca la morte della protagonista, quasi in sede di bilancio di una parabola esistenziale segnata da un’ininterrotta battaglia contro tutto e contro tutti, non esita a istituire un rapido quanto tormentoso parallelo: «Alla fine la sua tragedia è questa, non essere capace di dimostrare l’amore. E forse è anche la mia».   

Un luogo comune duro a morire, probabilmente perché dotato (come molti stereotipi) di un incomprimibile quoziente di attendibilità, vuole gli italiani (maschi), chi più chi meno, mammoni; i napoletani poi più degli altri, con la tradizione melodica che si ritrovano. Ma qui la protagonista è una madre speciale, priva di ogni dolcezza o grazia, apparentemente incapace di affetto, animata da una carica dirompente e inesauribile di aggressività astio e disprezzo che non risparmia nessuno. E infatti la parola «mamma» non compare mai, se non sulle labbra dei personaggi, di preferenza in dialetto; l’io narrante usa solo l’espressione «mia madre» o il nome («Angela», quasi un’antifrasi), o tutt’al più il soprannome «Talpa». Perché, di fatto, questo libro è l’illustrazione di un rapporto con la figura materna caratterizzato da un’inusitata asprezza. «La detesto da sempre», si legge poco dopo l’inizio. La perentorietà dell’affermazione, ribadita in seguito a più riprese, con mille variazioni («Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo»), è avvalorata da una meticolosa disquisizione semantica: «Detestare è il verbo più preciso. Non so se la odio, anche se spesso ho pensato di odiarla, ma forse erano sentimenti più miseri e meno radicali quelli che mi ispirava: irritazione, o rabbia. La detesto, neanche l’aborro, nel verbo aborrire c’è l’idea di una fiera opposizione della quale il mediocre orrore che lei mi suscita non è degno. Nel detestare è invece implicita una presa di distanza, da un essere umano come da un’idea, il desiderio di non averci a che fare». 

Vero è che a un certo punto è evocata una possibile riserva: «Per alcuni anni, quando io ero adulto e lei non ancora una vecchia, i nostri litigi furono vere e proprie messe in scena, un teatro rituale per noi, un intermezzo comico per amici e conoscenti che venivano a cena. “Dite la verità, li avete mai visti una madre e un figlio così?” ripeteva agli invitati non del tutto sconvolti solo perché erano stati preavvertiti». Con il tempo l’equilibrio – se poi di equilibrio è lecito parlare – si rompe, i vaniloqui della madre vanno fuori controllo, il figlio reagisce chiudendosi nel silenzio. «È stata questo la nostra vita insieme, una commedia tirata troppo per le lunghe, una recita finita male?» Ma questa interpretazione è troppo ottimistica. Era stato proprio per allontanarsi dalla madre che il giovane Antonio aveva lasciato Napoli e si era installato a Milano; e quando lei decide di raggiungerlo, l’ostilità finisce per confermarsi, compatta, soffocante, insuperabile. «Ho più di sessant’anni e ancora, quando litigo con Angela, mi adiro come da ragazzo, anzi peggio, perché il mio è un livore nero, una rabbia densa e quintessenziale. L’affronto come lei aggrediva sua madre, nello stesso modo stridulo, irrancidito dal tempo, ma peggio di lei perché all’avversione generata dall’abitudine e dall’insofferenza io aggiungo il disprezzo intellettuale. Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura simbolo che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre».    

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I passaggi più incandescenti del ritratto di questa madre impossibile sembrano a volte mossi da un furore gaddiano. Da questo punto di vista, la pagina più memorabile è forse la descrizione di come negli anni degenera l’attenzione ossessiva che lei da sempre ha per il cibo («Il suo cucinare s’è andato corrompendo come la carne del suo corpo, diventato uno scheletro grinzoso e incattivito»). Ma questo libro non è – per dir così – una sorta di «cognizione della Talpa», perché Angela non appare un’assoluta eccezione. Molto ha preso dalla madre Michela – soprannominata Locusto, da una delle piaghe d’Egitto, per la sua «adamantina cattiveria» – che pure odia molti e disprezza tutti, con un sovrappiù di maligna ipocrisia: e che secondo lei la tormenta da quando è nata, «in una spirale di rancore fra le generazioni che si passa il testimone dell’odio come la ricetta degli struffoli fritti». Locusto è una delle figure che più si ricordano del libro del 2001 L’abusivo, resoconto della tragica vicenda di Giancarlo Siani (il giovane giornalista ucciso dalla camorra nel 1985), guarnito da una cornice domestica di cui ora vengono meglio chiariti sia i connotati intrinseci, sia la pregnanza sociologica. Al di là delle peculiarità e delle idiosincrasie individuali, quanto pesa, nella Napoli profonda, l’amarezza cinica e rancorosa che può allignare nell’animo di persone come Angela, per le quali gli amici non esistono, le donne sono zoccole, gli uomini sono figli di zoccola? Quale effetto può avere, sul piano sociale, l’assuefazione alla diffidenza e alla malevolenza reciproca assimilata fra le mura domestiche?

Molte, in questo libro, sono le domande che rimangono senza risposta. Una riguarda la sorella che più si prodiga senza risparmio per assistere la madre, ormai prossima alla fine, e che tuttavia riesce a provare dei sensi di colpa. «Come fa una madre che ha sempre sbagliato tutto, ma tutto, a suscitare tanta devozione quando persone assai più decorose seminano risentimenti, incomprensioni, indifferenza ad ogni passo? È davvero meglio essere una carogna con lampi di umanità piuttosto che una persona decente per conquistare l’affetto di chi ci sta vicino?». 

Uno dei tratti più vistosi del libro è la diffusa presenza del dialetto, usato da molti personaggi, familiari e non, incluso un cognato buddista. Occasionalmente, viene anche citato un lacerto della saggezza popolare di stampo sanfedista di cui s’è nutrita la madre: «liberté, égalité, tu futt’a me, io fott’a te». A dominare è infatti (com’è ovvio) l’eloquio materno, di norma contundente, talora petulante, molesto sempre nella sua arroganza incontenibile, con le sue cascate di contumelie e frasi fatte, di asserzioni categoriche e contraddittorie, di vecchi aneddoti ripetuti fino allo sfinimento (il rapporto con la Calabria, legato al ricordo di due ex fidanzati; la luminosa figura del professore Monaldi, il pneumologo che le ha salvato la vita dopo il primo parto; la sua ascendenza «sgherra», dalla stirpe guerriera dei Sanniti). Franchini, che sul piano stilistico ha nella disamina di gesti e tratti quotidiani uno dei suoi punti di forza, non manca di compiere alcuni affondi anche sul piano lessicale: «La parola “conoscenza” in napoletano ha uno spostamento ortografico minimo rispetto all’italiano, si dice canoscenza, e in quella “a” al posto della “o” c’è già una sfumatura di derisione. // “Mi conoscete?” si dice dunque “Mi canoscete?”. O, meglio ancora, “Mi accanoscete?”. E nel raddoppiamento iniziale si annida come una duplice beffa: del concetto che la parola definisce e della vaga ufficialità sottintesa, come se conoscere qualcuno avesse implicazioni più anagrafiche che esistenziali e non rimandasse tanto a sentimenti quanto alla burocrazia e alla testimonianza, al potere inquisitorio dello stato, magari alla complicità in un reato o a qualcosa di sanzionabile».  

Lungo il corso del racconto sfila davanti agli occhi del lettore una galleria di personaggi, più o meno secondari, ma sempre ritratti con sicura efficacia. La vicina che fa visita ogni giorno alla stessa ora per farsi offrire il caffè, che sul pianerottolo ripete invariabilmente una frase – «Posso trasire?» – che suona come «un appuntamento col destino, una formalità alonata di malasorte». L’avvocato Signori, dimesso nell’aspetto e nel vestire ma dal linguaggio forbito, dotato di una malinconica e tutta interiore eleganza. La zia Vittoria, una delle popolane dalla bellezza aggressiva che nel giro di pochi anni, «come per effetto dell’incantesimo di una divinità ctonia», si trasformano «da fanciulle di sensualità abbacinante a potnie della maternità universale». Il padre Eugenio, che nella sua rassegnata, abulica introversione fa pensare a certe figure del teatro di Eduardo. E, a proposito, svariati sono i monumenti della cultura napoletana rievocati strada facendo, sempre attraverso le predilezioni della protagonista. Natale in casa Cupiello («Scetate, Lucarie’» ama ripetere Angela); canzoni, come Lazzarella (che forse ha ispirato la scelta della copertina); sceneggiate come lo Zappatore, resa celebre da Mario Merola, non a caso una parabola sull’ingratitudine filiale. «Meglio ca te facevo ricchione, ca ’e ricchiune vonno bene a ’e mmamme», ripete Angela a Antonio. Li avete mai visti una madre e un figlio così?   

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