Tardivo omaggio a Hans Tuzzi

23 Dicembre 2024

Lo scrittore che pubblica con lo pseudonimo di Hans Tuzzi gode da tempo del seguito di un non esiguo pubblico di estimatori, e di una considerazione critica abbastanza ampia, certamente meritata. Benché io lo conosca da oltre mezzo secolo, ne scrivo ora per la prima volta: con un ritardo, quindi, del quale cercherò di fornire i motivi, pur nella consapevolezza della loro (della mia) insufficienza.

Tuzzi ha al proprio attivo oltre una ventina di romanzi, la maggior parte dei quali riconducibili al dominio del poliziesco (il commissario Melis è tra i più noti investigatori della nostra narrativa); ma, come la critica non ha mancato di osservare, non è mai stato, in senso proprio, un giallista. La sua vocazione è stata sempre quella di scrittore senza aggettivi, preoccupato in primo luogo della profondità dello sguardo sul mondo e del nitore della sua prosa. E sia dalle sue singole narrazioni, sia dall’insieme della sua opera, quello che emerge è soprattutto una visione amarissima della società contemporanea, declinata in termini ora cupi, ora sarcastici. A bilanciare almeno in parte tale pessimismo concorrono da un lato una curiosità culturale vorace, che si manifesta nella descrizione o nell’evocazione dei più vari oggetti, tempi, eventi, costumi, testi (Tuzzi viene presentato spesso come un bibliofilo e un dandy, ed entrambe le cose sono verificabili quasi ad apertura di pagina), dall’altro la sensibilità per il mondo naturale, il paesaggio, le sensazioni a contatto con ciò che non è umano, l’attenzione per gli animali. E ambedue i versanti consentono l’esplicarsi di un gusto squisito per la materia verbale: il lessico di Tuzzi è forse il più ampio nel panorama della narrativa italiana di oggi (anche se non sempre immune da qualche preziosismo di troppo).

In generale, dunque, la complessità della sua figura si esprime meglio al di fuori delle trame poliziesche. Questo è particolarmente vero per l’ultimo romanzo, Colui che è nell’ombra (Bollati Boringhieri, 2024), nel quale ha largo spazio un aspetto della sua ispirazione che a me sembra particolarmente felice: la vena fantastica, gotica, intrisa di fiaba, mito e horror.  La vicenda è ambientata in una indeterminata plaga del Friuli, tra la fine degli anni Trenta e l’oggi; ma l’estensione cronologica si spinge virtualmente molto addietro, perché sugli eventi narrati grava il peso di antichi sortilegi. A narrare è Domenico Rigolato detto Ménico, intendente di una famiglia illustre, i conti Avogadro, che prende servizio subentrando al padre (il fattore dinastico coinvolge anche i subalterni). Sotto il suo sguardo si succedono le generazioni: dopo la morte di Cesare, il Conte Vecchio, il titolo è passato al Conte Giovane, Costanzo detto il Sidi, capitano dei Cavalieri di Neghelli, che il 12 ottobre 1937 rimpatria dall’Africa Orientale, poco dopo la nascita del primogenito Cesare. A Cesare succede poi Curzio, l’ultimo conte che il narratore conosce da vivo: mentre delle vicende del figlio Costanzo sarà edotto post mortem grazie agli effetti miracolosi di un solenne, sinistro giuramento, voluto dal Sidi, che lo incatena alle sorti della stirpe degli Avogadro.

Un altro incantesimo riguarda un Curzio vissuto agli inizi del Settecento, il conte Folle, dalla vita perversa e tempestosa. Il suo ritratto, che campeggia in una posizione privilegiata nella galleria degli antenati, lo raffigura in uniforme di cavaliere di Malta con in testa un turbante alla turca, accanto a una scimmia bianca e nera (un colobus guereza) dall’aria beffarda e diabolica, soprannominata appunto, dai contadini locali, il diavolo, il Giàvul. Dell’uno leggenda vuole che corra attorno alla collina in groppa a uno stallone nero nelle notti più buie; dell’altra, che getti un grido agghiacciante ogni volta che un Avogadro muore, anche a molti chilometri di distanza. Fra i personaggi si contano poi alcune figure femminili, più sagge e solide dei maschi, a cominciare dalla contessa Elena, che sopravvive molti anni alla fine prematura di Costanzo; e vari altri se ne potrebbero ricordare, dal servitore scozzese esperto di cani, Adair Mcnab detto Mc’, all’avventuroso Genj di Nutte, onesto bandito, partigiano e missionario; senza contare gli animali, dal leone Arad all’animoso Dachshund Teckel (bassotto a pelo duro) Fritz.

Un elemento enigmatico riguarda inoltre un mazzo di carte, che il Sidi mostra a Ménico dopo il giuramento. Dieci arcane e complesse figurazioni, strumento di una prassi divinatoria o iniziatica, che si collegano al titolo del libro («Chi servivano? Una setta? Un sodalizio? Una cerchia segreta? Colui che è nell’Ombra?»), citato solo qui: un prelievo dall’Edipo Re, precisamente (salvo errore) dal primo stasimo, dove, in seguito al responso di Tiresia, il Coro evoca il comando divino di cercare – secondo diverse traduzioni – l’«uomo del mistero», «l’uomo sconosciuto», ovvero – nella versione di Manara Valgimigli – «l’ignoto colpevole», colui insomma che è all’origine della pestilenza di Tebe. Sollecitato da Costanzo, Ménico ne pesca una; il racconto non specifica quale.

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La narrazione non ha carattere continuativo: tende invece a svilupparsi attorno ad alcune elaborate scene, come quella che ho appena menzionato, o come la divertente discussione a tavola in cui l’undicenne Cesare mette ripetutamente in difficoltà l’arcivescovo Nogara, l’episodio della caccia al tasso (senza dubbio uno dei più riusciti del romanzo), il dialogo a più voci sul ritratto del Conte Folle e la sua leggenda, vari indugi su fatti linguistici (come le differenti versioni del verbo “uccidere”) o sulle proprietà delle razze canine. Nella narrativa di Tuzzi nulla è casuale: non il fatto che l’animale diabolico sia un primate e non un rettile o un mostro, non la successione dei nomi comitali, non la scelta delle citazioni (il motto del Sidi, che è ripreso dal Trionfo della Morte della chiesa di San Vigilio a Pinzolo, una riflessione di sapore religioso del personaggio narrante desunta dai Fasti di Ovidio, e – ovviamente – la fonte del titolo). Sullo sfondo, il trascorrere della storia disegna un percorso discendente: le dinamiche sociali registrano il trionfo di un ceto volgarissimo di spregevoli nuovi ricchi, mentre l’ultimo degli Avogadro – bello, fascinoso, brillante, quasi il distillato secolare di un illustre lignaggio – non nasconde le sue simpatie naziste. A fronte di tanto degrado, l’immagine del passato si colora di nostalgia: «Nacqui che l’Adriatico i pescatori lo navigavano a vela. E i contadini cantavano. Come fu ricco, quel mondo, nella sua povertà». L’inattesa sequenza finale, giocata sul filo del fantastico, mette capo a un’ecpirosi che non ha nulla della catarsi. Sia maledizione o evento fortuito, è distruzione pura, è il compirsi di un destino di annichilimento che divora il personaggio narrante, il palazzo, un intero mondo – un sogno, forse.

Il tratto distintivo della scrittura di Tuzzi è il largo ricorso a un registro elevato, elaborato, iperletterario, che deriva direttamente dallo stile alto di Carlo Emilio Gadda: ogni innalzamento di tono appare infatti intriso di uno struggente senso di precarietà o di perdita (in questo Tuzzi è più gaddiano di molti altri presunti «nipotini dell’ingegnere», a cominciare da Arbasino). Senonché in Gadda il sublime, oltre a manifestarsi in maniera più desultoria, è compensato – contrastato – dal ribollente crogiuolo di tanti altri linguaggi: laddove il tessuto connettivo delle narrazioni di Tuzzi è una sorvegliata medietà espressiva, e le puntate verso il basso (in senso linguistico) conservano sempre un residuo di intenzionalità programmatica (in questo romanzo si registra un certo numero di espressioni e battute in friulano, canonicamente riservate al parlato di personaggi appartenenti al ceto subalterno). L’effetto, insomma – a mio avviso, almeno – è un eccesso di ricercatezza, simile a quella di chi riceva gli amici a casa vestito troppo elegante per metterli davvero a loro agio (debolezza che l’autore reale non ha).

Tutto ciò non avviene per caso. In una pagina di Scorciatoie e raccontini Umberto Saba scrive che l’opera d’arte è sempre una confessione: «e, come ogni confessione, vuole l’assoluzione». Ora, Tuzzi non chiede assoluzioni, perché rilutta ad esporsi. Il livello dell’accorata o disincantata elegia, ancorché alimentata da un sentire autentico, non conosce il contrappeso di un coinvolgimento emotivo più immediato, diciamo pure, più impudico: come si conviene, in verità, allo Hans Tuzzi di Musil, il capodivisione (Sektionschef) marito di Diotima, «un uomo razionale e dignitoso» lo definiva il Nostro in un’intervista del 2006, «due virtù che latitano in questi anni». Già, e Dio sa quanto è vero; ma questa dignità, questa razionalità sono spese anche in chiave difensiva, autoprotettiva, e perfino sottilmente dissimulatoria. Certo, uno potrebbe obiettare che pure “Saba” era uno pseudonimo; non fosse che desumere un nom de plume da un personaggio letterario (e da quel personaggio letterario), è altra cosa che evocare il nome della propria balia (la slovena Peppa Sabaz).

Ciò detto, Colui che è nell’ombra è un romanzo intelligente, elegante, godibile, scandito da momenti di intenso lirismo, e immune dal demone citatorio che appesantiva altre prove di Tuzzi (e che ritroviamo – ma ovviamente qui il discorso è affatto diverso – nella lunga e bella intervista rilasciata a Giovanni Nucci per «Il Libraio», 24 ottobre 2024). Un libro, infine, che merita di essere letto più d’una volta, e non solo per sciogliere gli enigmi che presenta o colmare qualche non detto. Probabilmente è nel registro fantastico, e addirittura fiabesco, che Hans Tuzzi può esprimere la sua vena migliore: tanto che forse potrebbe perfino, sullo slancio, lasciare un po’ più di spazio a Adriano Bon.

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