La lingua salvata di Tommaso Giartosio

4 Marzo 2024

Da anni è in atto un’incredibile contesa letteraria sul senso, perfino sull’opportunità, del raccontare la propria storia preferendola al puro esercizio di immaginazione. Immersi come siamo nella palude di questa diatriba, spesso si ha l’impressione che la scrittura “autobiografica”, con tutte le sue ramificazioni (memoir, autofiction e via dicendo), venga trattata come una novità affacciatasi all’orizzonte solo di recente, senza tenere conto del fatto che nella storia della letteratura da sempre la finzione e la realtà del sé si intrecciano inestricabilmente, poiché a imporlo è lo statuto stesso della scrittura.

Dire “io” significa minare l’unità organica del singolo, mettere in atto un processo di gemmazione attraverso cui, nell’affermare la peculiarità del sé, gli attribuiamo una nuova singolarità. Pronunciando la parola “io”, non importiamo la realtà. La rifondiamo. La scrittura letteraria lo fa da millenni: istituisce universi ispirati alla realtà ma governati da forze e leggi del tutto autonome dalle originali. Questo rende il procedimento della scrittura autobiografica fondamentalmente identico a quello della scrittura di pura fiction.

Negli ultimi quindici anni i social network hanno dato una rappresentazione plastica di quanto sia scivolosa la narrazione del sé. All’inizio in quei luoghi virtuali abbiamo immesso il nostro nome e la nostra immagine, cercando di definire chi siamo. Col passare del tempo ci siamo però accorti di quanto la storia che stavamo raccontando differiva, in parte o del tutto, dalla realtà delle nostre vite. Era una storia piena di omissioni, a volte con delle invenzioni, in cui calcavamo solo su certi aspetti della nostra personalità, i più spendibili. Finché non ci siamo resi conto che il nostro io social non era che un personaggio, uno dei tanti possibili, ispirato a noi stessi.

Il personaggio non è la persona. Come il paesaggio non è il paese. Il suffisso derivativo nominale -aggio trasforma l’individuo reale in un derivato dai confini incerti, esprime una nozione diversa, più generica.

Se non può dirsi una rappresentazione, allora la scrittura del sé si pone soprattutto come una questione di comprensione del sé. Per farlo si hanno a disposizione molte vie d’accesso. C’è chi l’ha fatto raccontando una malattia, chi la propria stagione storica, chi una condizione sociale, chi un’identità. Quale che sia, si tratta di sceglierne una e percorrerla fino in fondo.

Recentemente in libreria è apparso un romanzo, Autobiogrammatica, di Tommaso Giartosio (minimum fax), che sceglie la via del linguaggio (ecco un altro -aggio, che l’autore non a caso definisce “una mano bionica o una baionetta” che si innesta su una parola): “[…] linguaggio indicava sì qualcosa di più specifico e individuale della lingua, più basso insomma, ma anche qualcosa di più ampio e originario, ancora più elevato: il linguaggio come facoltà umana”.

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Autobiogrammatica è il racconto di una vita attraverso le parole che l’hanno espressa nel suo farsi. Siamo di fronte a un’operazione sofisticatissima. È come tentare di descrivere a un cieco la Pietà vaticana riproducendo le sonorità dei colpi di scalpello scagliati da Michelangelo sul marmo. Il modello esplicito è quello di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Giartosio però non si accontenta di erigere un repertorio di parole e espressioni domestiche, il suo è un vero e proprio sistema linguistico, una grammatica appunto. Se il linguaggio rende esplicita la realtà, la sua più immediata componente culturale è data dal fatto che i simboli di cui si serve devono essere condivisi. Nel caso di Autobiogrammatica non sempre siamo in presenza di espressioni comuni a uno specifico gruppo di parlanti. È uno scavo molto più profondo, alle origini della propria identità. È il linguaggio che ci fonda come persone, non solo il linguaggio che usiamo per partecipare al gioco umano, ma anche il linguaggio più intimo e solitario, quello interiore.

All’inizio del libro c’è un patto col lettore, che forse rimanda al patto di Lejeune, colui che più di tutti ha tentato di definire cosa sia un’autobiografia. O forse l’avvertenza (“leggere solo lo stretto necessario”) è un gioco che ribadisce la natura del romanzo. Può far venire in mente il primo capitolo del Nome della rosa intitolato “Naturalmente, un manoscritto”, in cui anche Eco, come Scott o Manzoni, ricorreva all’espediente del manoscritto ritrovato. “Tutti hanno già scritto questo libro”, titola Giartosio. Tutti chi? Tutti coloro che hanno tentato di salvare se stessi dalla marea montante del tempo che incede, sforzandosi di comprendere la propria vita (il proprio linguaggio): “Ma è una comprensione attiva e infantile, quella del bambino che per capire un gioco ci gioca, ne fa una storia”. Non semplice scrittura del sé, ma carotaggio del sé. Forse è così che dovremmo iniziare a chiamare questa operazione a cui ci sottoponiamo usando la trivella della scrittura.

Anche i personaggi che affiorano da questo impervio scavo non sono le persone in carne e ossa che sono state o che tuttora sono. Appartengono, come l’intero meccanismo che regola il libro, a un repertorio linguistico. Le figure genitoriali del protagonista, per esempio, non ci appaiono quasi mai, o solo a tratti, con la loro concretezza fisica, non abitano gli istanti, non sono sagome in movimento, sono piuttosto parole, locuzioni, i loro volti non sono fatti di codice genetico, ma di un altro codice, quello alfabetico. Nel loro caso la spirale a doppia elica del dna è sostituita dalle ventisei lettere che danno luogo a circa duecentonove miliardi di casi possibili. È in questo abisso combinatorio che sprofonda la scrittura di Giartosio, una scrittura, va detto, tra le più sorvegliate, fini e originali tra quelle in circolazione.

L’autobiografia dunque si sceglie un campo e lo sforacchia per andare a vedere cosa c’è sotto, senza aver paura tuttavia di arrendersi di fronte agli strati imperforabili: “La giovinezza inconoscibile dei genitori. La scambierei volentieri con le centinaia di tragedie greche perdute, con i libri dispersi del Satyricon”, scrive in una delle frasi più toccanti del libro. Sembra alludere alla zona cieca; ogni romanzo ne ha una.

I matematici sanno che per giungere alla soluzione di un problema quasi mai c’è una sola procedura. Come si fa dunque a stabilire quale sia la migliore? Si dice che la migliore è la dimostrazione “elegante”, ossia quella in cui si ravvisa una certa essenzialità e bellezza del ragionare. Se come abbiamo detto all’inizio, la realtà non può essere riportata in vita tale e quale con gli strumenti della scrittura, ma solo rifondata attraverso parziali scelte di campo (come quella della “lingua salvata” di Giartosio), ogni romanzo si rivela essere una rotta certa verso il naufragio. A conti fatti scrivere è sempre fallire, bisogna solo sforzarsi di farlo con eleganza. Come capita sempre più di rado. E come invece accade miracolosamente in questo libro.

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