Le piccole speranze

1 Gennaio 2024

A M.,

con l’augurio che non ti manchi mai la speranza,
che coglie nel tuo presente il tuo futuro.
Chi spera è ricco di domani.
Sii, dunque, già da oggi il tuo domani

A.

2008

È questa la dedica che mi ha sorpreso qualche tempo fa, aprendo Il principio speranza di Ernst Bloch ordinato di seconda mano. Nella ripresa post-pandemia, faticando ad abbracciare una rimonta roaring twenties, ma anche un più modesto new normal, sospetto già nell’ammiccante veste à l’américaine, mi era venuto naturale cominciare a interrogarmi su quale fosse ora la nostra speranza, e anche su quale fosse stata prima. “Chi spera è ricco di domani”: ma adesso, in un mondo che si teme privo di domani, mi chiedevo, (come) possiamo sperare, e dare un senso al nostro oggi?

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Anche la copertina della vecchia edizione Garzanti, “La città ideale” di un anonimo fiorentino conservata al Walters Art Museum di Baltimora, mi aveva colto alla sprovvista, come per una preveggenza paradossalmente un po’ minacciosa. Perché è una visione curiosamente da lockdown: perfetta, di classica simmetria, con rade, minuscole figure umane tra loro distanti, e che si pensa siano state aggiunte in seguito. Una compostezza algida, serena solo nelle forme architettoniche, quasi scenografia di un teatro del mondo in cui il mondo non è (più) quello dell'uomo. Così, su quello sfondo mi chiedevo in particolare dove si annidasse o dove avremmo (avrei) potuto stanare adesso la speranza nostra, della borghesia occidentale. Di un’altra speranza – o forza della disperazione, e non so quanto le due si possano accostare senza che risulti irriverente – leggiamo ogni giorno, ed è quella che muove tanti verso il nostro mondo al punto da rischiare la vita (Benjamin nell’Angelus Novus: “Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”). Ma noi, dove possiamo trovare un “movente”, nel senso primo del termine? Cos’è che può muoverci adesso ad aderire alle cose e immaginare il loro fluire, a volerle orientare? Perché la speranza è un sentimento che ci porta fuori dall’hic et nunc, e ci proietta dove non siamo, fosse pure magari nel nostro più intimo. È trascendente anche in questo senso molto terreno, oltre a essere una delle tre virtù teologali – Peregrinantes in spem è il motto scelto per il giubileo 2025. Per chi si muove per raggiungere le nostre “città ideali”, la speranza non è nel tempo ma nello spazio, oltre il loro “qui”, in un altrove. Ma per gran parte di noi, in occidente, la speranza ha a che fare con il tempo. Anzi, è un sentimento del tempo, senza la dimensione temporale non esiste. Come la paura, è il colore dell'attesa, del lasso più o meno lungo o più o meno noto che ci separa da un evento, o da uno stato. Uno stato personale o generale.

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Prima della pandemia, vivevamo in un flusso in cui ora riesce quasi difficile reimmedesimarsi. Il flusso è per definizione una continuità di movimento, uno spostamento che ha un prima e un dopo, e che procede con qualche curvatura e sussulto ma non contiene in sé la nozione di uno sbarramento. Le cose scompaiono, il futuro sostituisce il presente, il presente diventa passato in una quotidiana, spiccia illusione di infinità. Così è, o era, il nostro sentimento del tempo, tanto che viviamo in uno scarto continuo del pensiero della nostra morte; e prima della pandemia, lo scarto riguardava anche il destino del genere umano, o del pianeta. Come se non potessimo vederci dal di fuori. Un po’ come in psicologia il flusso, il “flow” di Mihaly Csíkszentmihályi, è uno stato di immersione totale in quel che stiamo facendo che genera benessere – una fusione di pensiero e azione che già dal lancio dell’iPhone nel 2007 ci era già diventata quasi inattingibile (di questo e del disagio che ne consegue è interessante la ricognizione di Johann Hari in L’attenzione rubata). La pandemia, e quel che a valanga è venuto subito dopo – le stagioni di cambiamento climatico inequivocabile, l'invasione dell'Ucraina, il 7 ottobre e quel che ne è seguito, insomma quelle che Nouriel Rubini chiama nel suo piuttosto spaventevole La grande catastrofe le “megaminacce” – hanno di colpo cambiato il nostro rapporto con il tempo. Dal punto di vista personale, ci ha reso un po’ come quegli alberi i cui anelli del tronco raccontano la sopravvivenza (anzi, la resilienza, e il successo di questo temine già pesa) a eventi estremi – siccità, piovosità eccezionali – e vengono studiati dalla dendroclimatologia; è facile immaginare che anche in noi l’epigenetica o qualche branca della scienza rinverrà una cicatrice di questi anni. Dal punto di vista più che collettivo, planetario, le lancette del Doomsday Clock, l’orologio dell’Apocalisse, che dal 2007 misura non solo il rischio nucleare ma anche di altri cataclismi potenzialmente fatali, non sono mai state così vicine alla mezzanotte/ora x come nel 2023.

Il sol dell'avvenire, insomma, sembra risplendere sul passato – e a vedere l’omonimo film di Nanni Moretti, retrospettivamente neanche tanto. “Il futuro cambia segno” hanno intitolato Miguel Benasayag e Gérard Schmidt una parte del loro L’epoca delle passioni tristi, in cui raccontano che “le crisi di cui ci occupiamo oggi avvengono in effetti – e questa è la novità – in una società essa stessa in crisi. Detto altrimenti, cosa succede quando la crisi non è più l’eccezione alla regola, ma è essa stessa la regola nella nostra società?”

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In effetti, anche chi specialista non è guardandosi intorno ha la sensazione che, se fino a qualche anno fa i nostri personali malesseri affondavano le radici più nel passato di ognuno, oggi invece siano ingenerati dal presente che ci stringe. Un “presente egemonico”, lo definisce Marc Augé in Che fine ha fatto il futuro?; una “cosmotecnologia” in cui tecnica e tecnologia, che fino a un quindicennio fa sentivamo anche promessa di liberazione ed emancipazione, impongono, in costante accelerata, un asservimento totalizzante, a cui sembra possibile sottrarsi solo a prezzo di un eremitaggio o di una marginalità che non desidereremmo. Se da un lato le imprese più ardite – penso all’emozione del penso all’emozione del lancio del telescopio spaziale James Webb il giorno di Natale del 2021 – sprigionano in noi una meraviglia quasi infantile, che si inorgoglisce dell’ingegno umano, dall’altro infondono un senso di spauramento di fronte a un infinito a cui “Limes” ha di recente dedicato il numero dal titolo poco rassicurante “Lo spazio serve a faci la guerra”. Così, alzare gli occhi “a riveder le stelle” in un borgo sperduto sul Mediterraneo per ritrovarsi di fronte al trenino di satelliti di Elon Musk risulta un po’ soffocante. Cambia segno il futuro, insomma, ma anche il cielo. Ci ritroviamo privati di un orizzonte libero sia metaforicamente che fisicamente. Forse, meglio obbedire all’ordine del film di Adam McKay “Don’t look up”, allegorico di tanti eventi (che non erano cigni neri) di questo pugno d’anni. Così, alcuni vivono fiaccati dall’allerta costante, altri immersi in un “rumore bianco” – nel romanzo omonimo di DeLillo, che letto da ragazza mi aveva lasciato un vago sapore fantascientifico, dei nostri giorni c'era già tutto, a partire dalla nube/pandemia, e non a caso Noah Baumbach l’ha fatto diventare film proprio nel 2022. Di contro, al rumore bianco vero e proprio ci incoraggiano a rivolgerci le app come facilitatore del sonno (e.e. cummings: “progress is a comfortable disease”).

Il quotidiano tende sempre più a un efficientamento indistinto di giorno/notte e stagioni, in cui, come ben descrive Leonardo Caffo in Velocità di fuga, l’attesa naturale (di un’informazione, di una lettera, di una conversazione) è scomparsa, e in cui ogni minuto è così saturo di apparenti urgenze e stimoli da non permetterci di alzare uno sguardo libero sul futuro ma anche sul passato. In una frammentazione così pulviscolare da sedimentarsi in un fuori fuoco costante – Bergonzoni: “Ma con tutti questi ritagli di tempo, io che figura ci faccio?”. I libri, le carte che ci hanno accompagnati ci paiono a volte oggetti di un’età remota solo perché non smaterializzati; non conosciamo la grafia di chi abbiamo incontrato nell’ultimo ventennio, e capita che in certe case le foto incorniciate le facciano pensare abbandonate negli anni Novanta; l’obsolescenza programmata degli oggetti finisce per contagiare le competenze, i ruoli, insomma noi, affacciati a un’epoca nuova in cui anche il linguaggio, il “discorso” che ci contraddistingueva e che era dato per codice condiviso è contraffatto, altrimenti generato; e in cui dobbiamo sperare per noi umani una sorta di armatura-watermark, , come auspica qui Daniel Dennett – una filigrana, come per i soldi, a ricordarci anche quanto ci siamo fatti merce. Così, chi è giovane adesso forse percepisce meno di prima la propria vita radicata e quindi estesa al paio di generazioni che lo precedono, e anche questa è a suo modo una “fine della storia”.

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I lockdown hanno aggiunto una difficoltà nel misurare, scansionare, ricordare il tempo registrata da vari studi, come se il passo del nostro orologio interno fosse stato alterato. (Personalmente, con la pandemia mi sono accorta di aver perso la mia “timeline”, quella rappresentazione visiva del tempo che alcuni hanno, chi circolare, chi orizzontale o verticale, chi come linea che attraversa il corpo, e che è un filo d’Arianna lungo il quale si organizza la memoria e la previsione. La visualizzazione fatica a ripristinarsi, e quando mi sforzo di ritrovarla, collocando le cose fatte e da fare, mi coglie un senso fisico di disagio. Ho perso la percezione sinestetica che costituiva da sempre l’ossatura e la bussola dei miei mesi e anni, e non posso non vederla anche come una metafora.)

Viene dunque da chiedersi: se la speranza – in occidente – è stata legata al senso del futuro, di uno sviluppo temporale, è anche l’appiattimento del tempo legato alla digitalizzazione del mondo a renderci terreno meno fertile ad accogliere il suo seme?

Che l’estensione nel futuro la consideriamo poco ce lo dice da tempo il calo della natalità, non interrotto dalle più frequenti congiunzioni che si supponeva avrebbero reso meno mesti i lockdown di coppia – del resto, pare che neanche il sesso ci rallegri più come prima (si veda Il declino del desidero di Luigi Zoja). Il video della Plasmon “Adamo 2050. Una storia vera del futuro”, che racconta dell’ultimo bambino nato in Italia, ce lo mostra con uno stile inquietantemente realistico. In quest’assenza di sguardo prospettico, e con lo scenario ambientale che ci si para di fronte, con l’inconscio che dal covid sembra aver incamerato l’idea che non vale la pena di aderire e farsi coinvolgere perché tanto tutto può succedere, a volte pare che la disposizione più vitale sia aderire all’esortazione rapace e un po’ mortifera “yolo” (you only live once), e alla “Great Resignation” – espressione che indica l’ondata di dimissioni post-pandemia, ma che letteralmente si può tradurre anche come “grande rassegnazione”. E per chi non se la sente di arrivare fin lì, esiste il più compromissorio “quiet quitting”, ossia l’ingaggiarsi meno possibile nel proprio lavoro, in una posizione difensiva del minuto campicello privato. Un’espressione che potrebbe forse ben descrivere anche l’attuale atteggiamento più generale di autoretrocessione dell’occidente sotto tanti aspetti. Quali che siano le ragioni, complesse, di questo disinvestimento lavorativo, la fioritura di titoli sul tema colpisce.

Se le grandi narrazioni sono tramontate da tempo (non solo quelle di Lyotard, ma anche quelle fiabesche, religiose, epiche che da bambini ci hanno nutrito, a volte per inculcamento, fino a pochi decenni fa, regalandoci senso di espiazione ma anche possibili afflati), le speranze sopravvissute paiono condensarsi in un benessere di piccolo cabotaggio, di ordine spesso consumistico/d’evasione e libertario/soggettivo – dimenticando che, come sottolinea il rapporto Censis 2023, così “non sapremo fare, insieme, le cose che da soli non siamo in grado di fare e non sapremo essere, tutti insieme, ciò che da soli non siamo in grado di essere”. E che, come scrive Bloch, “tirare un po’ il fiato non è mai bastato a nessuno per molto tempo. Innanzitutto il sogno ha sempre vissuto oltre il breve giorno privato. Qui dunque è in gioco qualcosa di diverso dal piacere di abbigliarsi e rispecchiarsi nell’immagine gradita ai nostri padroni. Qui si profila nell’aria un’immagine più grande, concepita dal desiderio […]. Non si lascia infatti appagare a buon mercato: la sua volontà vuole di più, quel di più che conferisce sapore a tutto ciò che essa attinge. Perché essa tenta di vivere non solo al di sopra della propria condizione, ma anche al di sopra di tutte quante le cattive situazioni presenti”.

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Insomma, fuor di grammatica, spero promitto e iuro paiono non reggere più l'infinito futuro, e per descrivere lo stato attuale il termine non parrebbe nemmeno “disperazione”, che designa comunque uno stato emotivo dai colori forti, in fondo aperto a un riscatto – Walter Siti chiude così sul Domani “Il nostro ottimismo è ipocrita, la disperazione non è un male” : “Non c’è niente di male a constatare l’impotenza personale o collettiva, non c’è niente di male nell’insegnare ai giovani la disperazione. A constatare la compattezza del muro, ad abitare il buio del presente. Non è il cinismo contro l’entusiasmo, anche nella conoscenza c’è passione.” Un termine forse che meglio descrive queste sabbie molto mobili è “disperanza”, che Vito Teti racconta in una voce Treccani. Anche Jonathan Franzen in E se smettessimo di fingere? invoca una dismissione dell’ottimismo: “E poi c’è la questione della speranza. Se la vostra speranza per il futuro si basa su uno scenario estremamente ottimistico, cosa farete tra dieci anni, quando quello scenario diventerà inattuabile anche in teoria? “. Ma distingue la speranza, che quando non è delega accidiosa a un futuro indefinito è sentimento che ingaggia all’azione, dall’ottimismo, lente rosea che confonde e disimpegna; anzi, sostiene che la speranza necessita di sincerità e amore. “Di sincerità perché la speranza è un investimento come qualunque altro, che è meglio compiere con occhi bene aperti. E di amore perché, senza amore, non c’è nessuna speranza da coltivare”. Così, se da un lato nascono iniziative come il “Festival della disperazione”, dall’altro Massimo Recalcati battezza la sua manifestazione marchigiana con la parola-imperativo “Kum!”, “Alzati e cammina!”: un appello alla speranza e alla cifra laica della resurrezione/insurrezione che richiama un articolo confluito nella raccolta dal battagliero titolo A pugni chiusi

Del resto che la speranza abbia un senso, e un senso che può essere misurato, ce lo dicono vari ambiti. Le neuroscienze, per esempio: sulla speranza si basa il realissimo effetto placebo, e Fabrizio Benedetti, che ne è uno degli esperti mondiali, l’ha scelta per il titolo del libro in cui ce lo descrive: La speranza è un farmaco. Così, l’economista Carol Graham ha appena pubblicato per Princeton University Press uno studio su The Power of Hopequi un suo articolo sul tema. Viene da augurarsi che un giorno anche il diritto si faccia portatore di speranza, trovando come codificarla.

Ad ogni modo, sostituire ai grandi traguardi scalette da cedole trimestrali, come a sognare solo quel che già si sa di poter ottenere, non ci farà fare le rivoluzioni (in via di sparizione anche dall’immaginario letterario, come racconta Alfonso Berardinelli recensendo l’ultimo libro di Stefano Brugnolo) – che sono collettive, e anche su più piccola scala l’alleanza pare un buon antidoto alla disperanza. Ma non ci farà neanche stare bene personalmente. Perché “la speranza”, scriveva Emily Dickinson “è una creatura alata”.

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Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole speranze, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere.

Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo insegnare il rispetto per le piccole speranze fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo in questo modo, la via più comoda: perché le piccole speranze non racchiudono alcun pericolo materiale, e anzi tengono al riparo dai colpi della fortuna. Trascuriamo di insegnare le grandi speranze e tuttavia le amiamo e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci sembrano il frutto di una riflessione, di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere insegnate.

In realtà la differenza è solo apparente. Anche le piccole speranze provengono dal profondo del nostro istinto, da un istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell'incolumità personale. Le grandi speranze sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce della ragione.

L'educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo tra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, e i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole speranze, maturi insensibilmente al cinismo, o alla paura di vivere. Le piccole speranze in se stesse non hanno nulla da fare col cinismo, o con la paura di vivere: ma tutte insieme, e senza le grandi, generano un'atmosfera che porta a quelle conseguenze. Non che le piccole speranze, in sé stesse siano spregevoli: ma il loro valore è di ordine complementare e non sostanziale; e se non possono stare da sole senza le altre, sono, da sole senza le altre, per la natura umana un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole speranze, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile, l'uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell'aria: perché le piccole speranze sono di un ordine assai comune diffuso tra gli uomini. Ma le grandi speranze, quelle non si respirano nell'aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell'educazione. Inoltre, il grande può anche contenere il piccolo: ma il piccolo, per legge di natura, non può in alcun modo contenere il grande.

Il corsivo non è – ahimè – mio: sono Le piccole virtù di di Natalia Ginzburg. Solo, rileggendolo di recente, con il busillis speranza fisso in testa, mi è venuto di sostituirla a virtù. Forse una risposta praticamente accessibile, ed etica, può essere questa: facciamoci figli di noi stessi, ri-cerchiamo le speranze grandi. Dopotutto, la speranza è una virtù, e se la fede non fa per noi, lei, insieme alla carità, possiamo rendercela insieme più a portata di mano.

Buon anno!

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