King Kong e la rigenerazione urbana

3 Dicembre 2024

Il grattacielo, King Kong e le regole condivise

Un’improvvisa crescita di grattacieli, dapprima salutata come una straordinaria innovazione, suscita poi un altrettanto improvviso disappunto, proteste e lamentele. Quell’enorme cantiere urbano dove gli edifici crescono e si affastellano uno a fianco all’altro scatena polemiche sulla stampa e animate prese di posizione pubblica. Siamo a New York e corre l’anno 1913.

La costruzione dell’Equitable Building, gigantesco edificio in altezza, diventa emergenza pubblica quando la sua ombra copre un’area sei volte la propria, privando del sole gli edifici di quattro isolati intorno e rivela, anche ai più ferventi appassionati del credo capitalista, gli effetti negativi di ogni spinta individualista sugli altri operatori economici. Ogni tanto la scoperta dell’acqua calda produce effetti positivi.

L’ombra del grattacielo mette a nudo per la prima volta l’interdipendenza e le ricadute che scelte individuali possono avere sulla collettività. In forza di questa consapevolezza nel 1917 viene emanato lo Zoning Resolution, uno dei primi veri atti di regolazione delle città, una sorta di patto collettivo che impone regole comuni da rispettare affinché ciascuno possa ambire a godere una parte delle proprie libertà, sapendo che anche gli altri faranno altrettanto. E non siamo, mi piace ricordarlo oggi, in una compiuta socialdemocrazia europea, ma nel contesto a più alta vocazione al profitto e alla rendita, nel pieno del boom economico e delle scoperte tecnologiche. Eppure.

Lo Zoning stabilisce norme condivise: la distanza tra un edificio e l’altro, le diagonali che permettono alla luce di inondare le strade. La forma di Manhattan, con i suoi grattacieli a pianta rastremata che si ergono verso il cielo – resi celebri dal film King Kong, uscito 16 anni dopo, in cui il gorilla scala l’Empire State Building – diventa il simbolo di un patto sociale che genererà una certa idea di città, di estetica, di bellezza.

La pianificazione moderna nasce con la vocazione di regolare interessi privati e istanze pubbliche, dalla necessità che vi siano cose che si consumano insieme, ovvero un interesse generale che va salvaguardato. I costruttori del grattacielo non contravvengono ad alcuna norma vigente, eppure creano esternalità, perturbazioni reciproche non intenzionali, che richiedono soluzioni politiche e civili.

È la teoria dei giochi a spiegarci perché anche quando si può massimizzare il proprio vantaggio (dilemma del prigioniero) ma si capisce di essere esposti al danno di altri, allora si invoca un’entità riconosciuta al di sopra delle parti che imponga una soluzione equa. Il soggetto pubblico, nella sua responsabilità di pianificazione urbana, viene chiamato a definire le regole del gioco.

Milano e la rigenerazione “fai da te”

È singolare come a più di cento anni di distanza, l’improvvisa crescita di grattacieli, nella città più attrattiva d’Italia, Milano, non rimandi in alcun modo allo spessore delle questioni civili, sociali e culturali evocate sulla stampa newyorkese di inizio Novecento.

Da anni la retorica immobiliare promuove l’immaginario del grattacielo a portata di tutti, anche in un contesto urbano come quello milanese che fino a ieri poteva contare solo su pochi esemplari iconici, come la Torre Velasca e, in tempi più recenti, il Bosco Verticale.

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Equitable Building.

Il termine rigenerazione è divenuto il pretesto simbolico di una nuova speculazione edilizia. E anche il più piccolo dei costruttori ha compreso che la parola magica che apre tutte le porte è rigenerazione; basta consumare suolo, la terra non si tocca, dobbiamo essere sostenibili sono gli slogan più frequenti. I più accorti parlano anche di comunità, di consumo-zero, di rigenerazione di contesti degradati. Ma non si tratta solo di una disinvoltura linguistica.

A Milano, da dieci anni, la prassi di adottare la procedura di certificazione con effetto immediato (SCIA), normalmente utilizzata per modifiche interne di appartamenti, è stata estesa anche a operazioni di ampie trasformazioni urbane, così da incentivare la spinta al recupero. Questi interventi sono stati classificati come ristrutturazioni edilizie, con il vantaggio di semplificare e accelerare le procedure burocratiche, attraverso convenzioni tra imprenditori e funzionari comunali e di ridurre fino al 60% gli oneri di urbanizzazione che, in caso di nuova costruzione, sarebbero invece dovuti.

In questo modo, si è affermato un modello di “rigenerazione fai da te”: la città si è trasformata in modo frammentato, senza una visione d’insieme e al di fuori del controllo politico del consiglio comunale e della giunta. Il processo è avvenuto senza considerare gli impatti ambientali, sociali e sulla qualità della vita dei cittadini, senza una pianificazione adeguata e una ridefinizione dei servizi.

Una città di sole case non è una città

Questo modus operandi penalizza in modo drammatico la dimensione pubblica della città: favorisce l’azione dei privati senza una proporzionata contropartita pubblica, rischiando di impoverire la qualità di vita di molti quartieri e, cosa ancora più inspiegabile, rinuncia persino a incassare gli oneri dovuti e così necessari per la realizzazione dei servizi.

Si mette così a rischio il nodo centrale della cultura urbanistica italiana fin dalle sue origini. Il soggetto privato, ancorché riconosciuto nelle sue libertà e diritti, ha sempre una responsabilità di restituzione di valore alla comunità e di integrazione con un tessuto urbano preesistente.

Il vantaggio economico maturato nell’investimento richiede un contributo economico da dare alla collettività per realizzare infrastrutture e servizi pubblici (oneri di urbanizzazione). Quale città potrebbe oggi permettersi di perdere questa voce di bilancio? A vantaggio di chi? Come potrebbe poi garantire i servizi per i propri cittadini? Il legame talvolta improprio tra nuova edilizia e generazione di oneri richiederebbe una revisione intelligente ma non certo la sua cancellazione.

C’è poi un problema di rispetto del valore estetico e sociale della città che sta intorno.

Se non vogliamo svuotare completamente la parola rigenerazione e il suo legame con l’urbanistica e non solo con l’edilizia in senso stretto, dobbiamo tornare a declinarla in un’accezione più ampia: ha a che fare con gli spazi aperti e con lo spazio delle strade da rendere più sicure e meno inquinate, con la dotazione di natura, con la copertura arborea per contrastare le isole di calore urbane generate dalla crisi climatica, con la possibilità di ripensare la gestione delle acque, favorendo metodi di raccolta e smaltimento più sostenibili. Rigenerare vuol dire considerare gli spazi verdi nei territori urbanizzati, per sviluppare un nuovo rapporto con la natura e l’ambiente. È essenziale garantire l’accesso alla casa non solo per i più ricchi, evitando fenomeni intensi di gentrificazione e di allontanamento dei ceti più fragili.

Ecco perché non possiamo accettare che le città diventino spazi di trattative private, di negoziati affidati ai tecnici comunali, senza un’attenzione alla dimensione urbanistica, come campo di regolazione e di integrazione delle scelte private in una visione più ampia. Chi si occuperà di garantire altrimenti l’interesse pubblico, di difendere la voce delle comunità e della natura, se riduciamo tutto a tecnica, profitto e rendita?

Se tutto è rigenerazione, niente lo è

Ancora una volta, come cento anni fa, i grattacieli generano proteste e lamentele. Molti comitati locali hanno cominciato a segnalare gli impatti sulla qualità di vita dei loro quartieri. La magistratura milanese ha avviato numerose inchieste per capire se queste nuove costruzioni siano state realizzate in modo conforme alle leggi o se ci siano stati abusi, responsabilità civili, penali e contabili.

La politica locale e nazionale è intervenuta per cercare di salvare Milano dai suoi guai edilizi e giudiziari. Ma l’esito di questa prima fase di approvazione della nuova legge da parte della Camera è a dir poco sorprendente. Ci saremmo attesi nuove regole, più chiare e comuni per tutti, persino un condono.

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Invece, la legge passata alla Camera (che contiene anche il cosiddetto decreto Salva Milano) opera un improprio sovvertimento di senso: uniforma i vari casi sotto la voce rigenerazione e cancella, di fatto, ogni distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, tra ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica; vengono resi inutili gli strumenti di accordo tra pubblico e privato per orientare la collocazione dell’edificio nel contesto, per integrare il nuovo progetto con la città esistente in modo funzionalmente ed esteticamente congruo.

La legge sana gli interventi degli ultimi dieci anni (a partire dal 2013, D.L. 98 – decreto del fare) ma si rivolge anche al futuro e soprattutto si estende su tutto il territorio nazionale, rischiano di esportare il pessimo “modello Milano” in tutta Italia.

Nel testo, ancora in fase di emendamenti e che deve passare ancora al Senato, si promette una nuova legge di riordino della materia da qui a sei mesi. Tuttavia, nel frattempo, la legge sarà già entrata in vigore per tutti. Che succederà allora?

La città e la tragedia dei beni comuni

Se gli equilibri urbani vengono compromessi, se le densità e le altezze vengono alterate, il rischio è che la città perda non solo in qualità (e vivibilità) – dovremmo ricordarci quante volte richiamiamo nella narrazione comune la Bella Italia delle città – ma anche in valore economico e capacità attrattiva. Stupisce che un mero ragionamento di convenienza economica non consideri questo aspetto.

Come scriveva Garrett Hardin alla fine degli anni Sessanta, “la rovina è la destinazione verso la quale ogni individuo corre, se mosso esclusivamente dal suo interesse personale” riferendosi alla tragedia dei beni comuni, ossia quella naturale fragilità dei beni condivisi tra tante persone. Nel nostro caso, la risorsa comune è proprio la città, e il suo sovrasfruttamento – purtroppo inevitabile quando si agisce senza considerare gli interessi collettivi – porta al suo deterioramento. Col tempo, questo bene diventa sempre più raro e prezioso, ma la tentazione di sfruttarlo ulteriormente cresce, accelerando così il processo di distruzione.

Quale crisi culturale profonda si cela dietro un approccio così insensato, incapace di proteggere le dimensioni estetiche, sociali e ambientali delle nostre città?

Lo ricondurrei a una più ampia crisi della sfera pubblica. Da tempo i partiti – anche quelli di sinistra, che per decenni hanno rappresentato le battaglie sociali – hanno spostato il loro focus dai diritti collettivi a quelli individuali. Oggi tutto ruota attorno all’individuo, privo di connessioni, di comunità, di un contesto condiviso. È un processo di impoverimento delle comunità, di contrazione dello spazio del “comune”, di privatizzazione dei luoghi pubblici, che si riducono a spazi di consumo. Siamo sensibili alla salute, ma non ci mobilitiamo per difendere la sanità pubblica. Siamo preoccupati per l'educazione, ma non ci impegniamo per salvare la scuola. Curiamo il nostro benessere, ma non facciamo nulla per proteggere l’ambiente.

La mancanza di una dimensione collettiva è oggi un problema cruciale, perché le grandi sfide che ci aspettano – da quella energetica (la necessità di produrre e consumare energia in modo diverso) a quella climatica (la lotta per mitigare gli impatti del cambiamento climatico), passando per la crisi sanitaria (rendere il diritto alla salute davvero universale) – richiedono proprio la capacità di convergere verso obiettivi comuni. Ci vogliono competenze di sintesi capaci di integrare istanze di crescita con la sostenibilità e le domande sociali.

E ogni tanto a ricordarcelo riemerge il collettivo, come è accaduto a Valencia qualche settimana fa, quando abbiamo visto migliaia di persone – giovani, studenti, cittadini comuni, con stivali di gomma e pale in mano – correre in soccorso dei vicini, prima della politica, prima dell’esercito, prima del re. El pueblo salva el pueblo. La gente salva la gente.

Per un approfondimento rinvio al testo scritto insieme ad Alessandro Coppola, Arturo Lanzani e Antonio Longo.

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