Speciale
Critica all’incurioso
Lasciamoci trasportare dalla fonetica, per far risuonare nella nostra testa parole come curiosità, curioso e cura. È singolare come l’aggettivo “curioso”, che in italiano ha da tempo perso il legame con il suo etimo – colui che si prende cura – recuperi invece tutta la forza evocativa nel suo contrario: incurioso. In questa forma emerge finalmente all’orecchio la sua assonanza con incuria. Chi è l’incurioso?
Nel dibattito e nel linguaggio contemporaneo usiamo molto spesso la parola “incuria”, facendo riferimento alla disattenzione, alla sciatteria, alla mancanza di cura, appunto, che determina un degrado dei nostri contesti di vita. Ci siamo però dimenticati di nominare chi siano i protagonisti di tale trascuratezza, gli incuriosi e perché oggi sia molto più utile capire chi sono, cosa pensano, come sono stati educati, piuttosto che dolersi dei loro effetti sul mondo. Di loro vorrei parlare, nella convinzione che ci sia un profondo legame tra curiosità, come capacità dello sguardo di vedere e di cogliere i dettagli e capacità di prendersi cura del mondo e degli altri. Solo chi è curioso e coltiva l’attenzione può passare dal vedere all’agire, dal pensare il mondo al prendersene cura.
Nella radice della parola curiosità vi è una spinta intrinseca, un’energia vitale che ha a che fare con il nostro essere vivi, istintivi, animali. Il curioso ha premura, si prende cura, si interessa. È la capacità sviluppata nei bambini ma anche nei grandi filosofi, come ci racconta Michel Foucault, che la descrive come attenzione e sollecitudine verso ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere. Il vero curioso non cerca certezze ma è mosso da inquietudini, pone domande per aprirsi a nuove strade. Il curioso ha un senso acuto del reale ma non resta immobile di fronte ad esso. Si disfa di ciò che è famigliare e guarda le cose da un altro punto di vista. La forza della curiosità lo porta oltre l’utilità contingente o i vantaggi che può portare (A. Granata, Da piccolo ero un genio, Gribaudo, Milano, 2022).
L’incurioso, invece, guarda ma non vede, non si fa domande, non si sente coinvolto, non si sente catturato dal mondo che lo circonda. Si è abituato fin da bambino a vedere quello che conosce, a cercare quello che già sa, a limitare il proprio campo di osservazione a quello che altri hanno selezionato per lui. L’incurioso è un utilitarista, non perde tempo, fa economia di conoscenze, non concede nessuna possibilità alla sorpresa e all’accadimento (non conosce serendipity). È l’uomo della razionalità e per usare il linguaggio del geografo Franco Farinelli è l’uomo della mappa, che scambia il mondo con il suo disegno, che sostituisce il tracciato alla navigazione in mare aperto. L’incurioso non si lascia distrarre da quello che non gli serve. Parla solo con le persone a lui funzionali, che parlano di quello che già sa, del suo campo di interesse e del suo mondo di relazioni. È sazio di quello che ha. Quanti adulti oggi, purtroppo, corrispondono a questo identikit.
La curiosità dipende certamente dalle caratteristiche degli individui, dall’atteggiamento che hanno verso la vita ma dipende anche dall’incoraggiamento che hanno ricevuto dall’esterno, in modo particolare dal sistema di rinforzi e di punizioni incontrati lungo i percorsi formativi.
La curiosità, rivelano i più recenti studi sul cervello, è in qualche modo collegata al meccanismo dell’anticipazione della ricompensa, a quel piacere che si attiva nella nostra mente quando prevediamo di ricevere una gratificazione, una conferma, un premio.
Prevedere una gratificazione è di per se stessa fonte di piacere. Si nasce curiosi, tutti, per natura, in virtù di come funziona il nostro sistema neuronale, ma si rischia di diventare incuriosi, crescendo, a causa di tutte quelle mancate conferme e mortificazioni conosciute negli anni della crescita e della scolarizzazione.
Tutte le volte che la scuola, attraverso pratiche, condotte, regolamenti impone agli studenti di non distrarsi, di non uscire dal seminato, di non andare fuori tema, di non fare domande, di stare nelle righe, premiando chi si attiene strettamente al compito, li educa all’incuriosità. Ecco perché ripensare radicalmente i nostri modelli educativi, che oggi mortificano la curiosità e allevano tanti piccoli incuriosi, è la sfida più importante (anche) per chi abbia a cuore le virtù civili. E per far questo dovremmo tornare a leggere i grandi del pensiero e dell’economia civile, riscoprire la modernità della scuola napoletana di Antonio Genovesi e dell’allievo Giacinto Dragonetti, autore del libro Delle virtù e de’ premj (pubblicato per l’editore Gravier nel 1766, a soli due anni dal libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene) per comprendere quanta profondità didattica e educativa ci sia nella nostra tradizione civile. C’è un legame profondo e inesplorato tra la mortificazione sistematica della curiosità nei percorsi educativi e la diffusa carenza di cultura civile e disaffezione ai luoghi e alle comunità.
È nel modo stesso in cui si organizzano a scuola le pratiche di apprendimento che dovremmo rintracciare l’origine di questo disimpegno. Prendiamo in mano un libro di storia dell’arte, uno a caso tra gli innumerevoli che aumentano il peso degli zaini dei nostri figli. Sfogliandolo troveremo la storia dell’arte raccontata per frammenti, tutti diversamente eccezionali: un tempio, una scultura, un dipinto di rara bellezza, l’interno di un’abbazia, la sezione di una cattedrale, una fontana di marmo. Ordinati secondo stili e periodi storici, scanditi per ordinati capitoli dei libri, come compartimenti a chiusura stagna.
Foto anche bellissime che restituiscono un pezzo da collezione privato del suo luogo, delle relazioni con il contesto, del suo habitat naturale. Fin da piccoli, attraverso la storia e in particolare la storia dell’arte, che più di altre discipline dovrebbe allenarci a riconoscere la bellezza intorno a noi, veniamo educati a scontornare ciò che è bello dal suo contesto, come se rimuovessimo le figurine dall’album in cui sono state applicate. Interiorizziamo che il bello nasce da un esercizio di decontestualizzazione e di isolamento dell’opera d’arte, del monumento, dell’oggetto straordinario stralciato dal suo naturale contesto. È la tipica cultura museale.
Quella che pare una pratica innocua, accumulare “figurine” che non impariamo a collocare nei loro album, ha in realtà impatti molto profondi sul nostro modo di comprendere e abitare il mondo. Bello è lo straordinario che si staglia nell’ordinario, bello è il monumento dentro ad un tessuto urbano anonimo, bello è sempre l’eccezionale che si distingue dalla mediocrità del tutto.
È un’operazione di disgiunzione che ha importanti riflessi sul nostro modo di sentirci cittadini del mondo. Ce lo spiega Edgar Morin quando descrive lo scarto sempre più ampio, profondo e grave tra i nostri saperi – disgiunti, frazionati, compartimentati – e i problemi che si manifestano sempre in “forme multidisciplinari, trasversali e planetarie” (Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, 2001, p. 35).
Per questo motivo, continua Morin, diventano invisibili il contesto, che ci consente di interpretare i fenomeni, e il complesso, che ci consente di cogliere il legame tra l’unità e la molteplicità. Un sapere frammentato, da sempre focalizzato su un aspetto soltanto della propria realtà di osservazione, è un sapere che sarà sempre inesatto e incompleto, incapace di restituire risposte e analisi complesse ed esaustive. Non si tratta soltanto di un problema di tipo conoscitivo, ma anche di responsabilità sociale: la mente formata dalle discipline perde la sua capacità naturale di contestualizzare i saperi, così come di integrarli nei loro insiemi naturali.
Educati a questo sguardo parziale e selettivo ci muoviamo nel mondo come dei collezionisti. A Siena cerchiamo Piazza del Campo, ad Ascoli Piceno Piazza del Popolo, a Venezia Piazza San Marco, a Milano piazza del Duomo o Piazza Gae Aulenti. Che cosa c’è intorno? Come si relaziona il monumento con il suo contesto? Cosa guardo quando guardo? Mi accorgo e mi sdegno del degrado e dell’incuria che vedo appena mi allontano di pochi metri dal luogo straordinario? Tutti esercizi critici e visuali che nessuno ci insegna.
L’idea di cosa sia bello e cosa no, cosa valga la pena osservare e cosa resti nel retroscena, abitua il nostro occhio a non vedere quello che invece è semplicemente brutto, che archiviamo e derubrichiamo come contorno, come un paesaggio neutro, senza che attivi la nostra attenzione e responsabilità. E paradossalmente questa dicotomia dello sguardo, che cerca il bello assoluto e ignora sistematicamente il brutto ordinario è più accentuata proprio nella cultura italiana che almeno sulla carta ha il culto della bellezza unica e straordinaria.
Questo tipo di educazione allo sguardo, selettiva e per eccellenze codificate, ci priva della curiosità. Perché guardare non è solo un atto percettivo ma s’intreccia con il vissuto, la storia e la nostra memoria, dando luogo a un’esperienza complessa, dove non esistono regole e dove vedere significa essere costantemente sorpresi da qualcosa. Quello che vedo, dunque, dipende anche da quello che so e dalla sensibilità all’osservazione che ho coltivato. Un occhio consapevole, che sappia osservare e rintracciare nelle forme della città le regole, la storia, l’evoluzione della società, l’impronta dell’economia in un intreccio che si fa materia, va educato. Un occhio colto e coltivato può accrescere la nostra visione ma solo a patto che sappia sempre abbandonarsi alla sorpresa e all’emozione, che lasci spazio per il dettaglio inatteso.
Ogni mattina, quando ci svegliamo, le cose intorno a noi, gli spazi che ci circondano ci rendono possibile avere consapevolezza non solo di dove ci troviamo, ma soprattutto di chi siamo. Questa attitudine è implicita e comune a tutti gli uomini e li accompagna nel corso della vita anche senza che vi pongano attenzione. Lo spazio che ci circonda, i luoghi interni ed esterni, la casa, la strada, il quartiere, la città, sono ambiti esperienziali che definiscono le identità, circoscrivono le appartenenze, contestualizzano le esistenze di ogni persona dalla nascita fino alla morte.
La curiosità, l’interesse, la motivazione a conoscere, muovono il bambino e poi il ragazzo a scoprire ambiti sempre più allargati, circuiti più complessi, intrecci di persone e di luoghi. La curiosità tipica dell’adolescente lo porta a uscire da casa per conoscere il mondo esterno, a cercare nuovi spazi di aggregazione, nuovi stimoli, a volte nuovi pericoli che mettano a repentaglio la condizione ingenua del bambino. Un’esigenza che può continuare a crescere se coltivata anche nel tempo della maturità. A patto che non ci adattiamo a diventare incuriosi e pigri.