Quando l’architettura era intellettuale

17 Dicembre 2024

Storia delle idee.

Questo La frattura tra architetti e intellettuali, ovvero gli insegnamenti dell’italofilia (Postfazione di Pippo Ciorra, Quodlibet, 2024) di Jean-Louis Cohen (Parigi 1949 – Ardèche 2023) è un prezioso libro di storia delle idee. Vi si parla delle idee degli architetti sull’architettura, è evidente. Ma La frattura tra architetti e intellettuali, ovvero gli insegnamenti dell’italofilia contiene un di più rispetto alle storie che trattano della tradizionale letteratura disciplinare. Concentrandosi sul Novecento italiano, il libro ragiona sullo stesso processo di «intellettualizzazione» dell’architetto e dell’architettura, un processo che – come viene ben argomentato – ha visto il nostro Paese protagonista almeno a partire dagli anni 1920 e ancor più primattore nel secondo dopoguerra, sino a toccare l’apice nel «post ’68 pensiero» su cui il racconto si conclude (la prima stampa della ricerca di Cohen esce in Francia nel 1984).

Lo stesso autore definisce il libro un Bildungsroman, un romanzo di formazione. E lo è doppiamente, perché questo suo primo testo di spessore «romanzesco» fa emergere nitidamente i percorsi seguiti dall’autore nella formazione di architetto, critico e storico, e lo è perché il racconto che vi si dipana, le figure di architetti e intellettuali del secondo Novecento italiano che meglio lo rappresentano, si intrecciano sin quasi a confondersi al processo formativo di Cohen, il quale poi dispiegherà i suoi studi in un davvero intenso lavoro storiografico e critico nel quale, sviluppando ma mai distaccandosi troppo dall’impianto teorico di questa «opera prima», continuerà a indagare l’architettura contemporanea con le lenti della storia delle idee, o se si preferisce della cultura, idee e cultura le cui componenti disciplinari ed estetiche verranno sempre poste al vaglio dei fattori politici e ampiamente «ideologici» che le indirizzano. Ne sono testimonianza negli anni varie pubblicazioni, talvolta associate a impegnative esposizioni, quali Architecture in Uniform o Scenes of a World to Come, dove a primeggiare è la finalità politica che presiede ai fenomeni architettonici; oppure Building a New World, Amerikanism in Russian Architecture, e Interférences / Interferenzen – Architecture, Allemagne, France, dove la «cultura» architettonica viene disvelata attraverso il fenomeno delle sue migrazioni. Migrazioni di idee, appunto, come quella che Cohen poneva al centro della sua «opera prima» sugli «insegnamenti dell’italofilia» ad uso dei francesi al declinare del ventesimo secolo.

Ramificazioni editoriali.

L’edizione italiana del libro ora uscita per i tipi di Quodlibet ripropone senza sostanziali cambiamenti il testo originario francese, pubblicato dapprima come «rapporto» istituzionale nel 1984, cui seguirà nel 2015, a distanza di ben tre decenni, l’edizione Mardaga, dove compare l’aggiunta di una nuova introduzione, Trent’anni dopo. Osservazioni retrospettive, riproposta insieme a qualche lieve modifica del testo complessivo nell’accurata traduzione italiana, unitamente alla versione rivista della Conclusione. L’architettura di secondo grado. Questa è interessante perché riprende – come l’autore ci ricorda – quanto già da lui scritto nel saggio Rielaborazioni, pubblicato in Modificazione, 498-499, gennaio-febbraio 1984, numero monografico della rivista «Casabella» allora diretta da Vittorio Gregotti. Il 1984, lo stesso anno in cui veniva pubblicato il «rapporto» francese, vedeva dunque il giovane studioso già entrato in stretti contatti con importanti figure dell’italofilia: parliamo dello stesso architetto Gregotti (che presto lo coinvolse nella «redazione esterna» di «Casabella») e dello storico Manfredo Tafuri, la figura più indagata nel libro, tanto da comparire tra i dedicatari del «rapporto» francese e che a breve loderà il giovane ricercatore parigino nella sua Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, edita da Einaudi nel 1986.

Viaggio in Italia.

Cohen segnala in più punti come la sua idea di «italofilia architettonica» si possa inscrivere quale nuova tappa nel fascino esercitato da secoli in Europa dalla cultura artistica italiana, cui storicamente si affiancava la pratica del Grand Tour o Viaggio in Italia. E sono in effetti parecchi i viaggi in Italia che egli compie, sin dalla fine degli anni 1960 (al proposito riporta le impressioni di visite a Firenze e Torino), cui presto ne seguiranno altri con destinazioni sempre più mirate, come la visita alla Triennale di Milano del 1973, capitanata da Aldo Rossi, che, proponendo di accorpare nella cultura disciplinare architettonica la «coincidenza dei tre aspetti – teorico, progettuale e storico», già annunciava quelli che saranno i principali «insegnamenti dell’italofilia» della ricerca a venire.

Il Grand Tour di Cohen ora non guarda più all’esemplare eredità storica: guarda piuttosto all’architettura contemporanea italiana. Anzi, meglio: si appunta sulla cultura «teorica, progettuale e storica» che, allo sguardo «partecipante» del ricercatore, mostra quanto in Italia la pratica architettonica si fosse alimentata lungo il Novecento e tuttora si alimentasse con un dibattito di rara intensità, rendendo il nostro Paese protagonista senza pari, per esempio, nella produzione di riviste – dalle storiche «Casabella» e «Domus» fondate negli anni 1920, alle successive nel secondo Novecento quali «L’architettura, cronache e storia», «Parametro», «Controspazio», «Rassegna», «Lotus», «Hinterland», «Zodiac» e altre ancora, condotte da direttori quali Ernesto Nathan Rogers e Bruno Zevi, quindi Vittorio Gregotti, Guido Canella et al., riviste affiancate da una «pubblicistica imponente» che, dai cataloghi di mostre, si dilatava in una saggistica agguerrita che andrà configurando, forse meglio che in ogni altro Paese, la nascita di una storiografia architettonica autonoma, insomma di una storia e filologia dell’architettura, soprattutto moderna e contemporanea, scritta da architetti, non più affiliata a una tradizionale storia dell’arte dove troppo a lungo avevano primeggiato altre arti, la pittura sopra tutte.

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Il discorso sull’architettura

I capitoli che Cohen dedica alla «frattura» novecentesca tra architetti e intellettuali in Francia e che l’italofilia iniziava in ritardo a ricomporre negli anni 1970, non sono i più svettanti del libro. Il tema della «frattura» francese veniva per motivi diplomatici maggiormente rimarcato nel progetto di ricerca originario, ma dichiarare sin dall’inizio che protagonista della ricerca sarebbe diventato l’architetto-intellettuale italiano poteva giungere controproducente per ottenere il finanziamento dalle istituzioni ministeriali francesi. I capitoli introduttivi sulla situazione d’Oltralpe appaiono per questo qua e là cesellati nel «rapporto» in modo che gli «insegnamenti» italiani fossero letti in sede istituzionale quasi come un invito a farsi carico delle stesse critiche interne, provenienti da autorevoli intellettuali come la Choay o Francastel, che stigmatizzavano l’asfittica inerzia disciplinare modernista, tecnologica e funzionale, in cui sembravano arrancare gli architetti di Francia dal secondo dopoguerra. Adesso bisognava dire alle istituzioni che urgeva una ridefinizione nei materiali e nelle idee progettuali a partire dal recupero da parte della cultura architettonica francese di due preziosi strumenti politici «nel rapporto con l’istituzione: l’insegnamento e la stampa». E chi, come poi la ricerca mostrerà nei capitoli centrali, poteva meglio aiutare una siffatta «ristrutturazione» del campo disciplinare architettonico se non le esperienze dei cugini italiani, da decenni «concettualmente più vicini alla cultura e alla sensibilità delle loro epoca» grazie a progetti, piani ed edifici pensati, giustificati e rivendicati anche come «discorso sull’architettura»? Da qui l’utilità dell’italofilia, dei suoi «insegnamenti» che non parlavano tanto di funzione o tecnologia o dottrina formale quanto piuttosto di morfologia urbana e territoriale, tipologia dell’organismo architettonico, memoria culturale, rapporto con la tradizione, confronto tra progetto e governo politico della città, del territorio… Tutti temi abbondantemente attestati dalla vivacissima pubblicazione nel nostro Paese di riviste (da «Casabella» a «Zodiac»…), dal formarsi di vere e proprie «scuole» nelle università (da Roma a Torino, Milano, Venezia…), dall’emergere di forti personalità insieme professionali, artistiche e teoriche (da Ernesto Rogers, Ludovico Quaroni e Giuseppe Samonà, a Bruno Zevi, Giancarlo De Carlo, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti…) e di architetti storiografi (da Manfredo Tafuri a Paolo Portoghesi, da Roberto Gabetti ai più giovani con cui lo stesso Cohen stringeva intanto amicizia e collaborazione nei suoi rapporti con lo IUAV veneziano, quali Giorgio Ciucci e Marco De Michelis), sino alla partecipazione al «discorso sull’architettura» di filosofi, sociologi, storici e critici letterari quali Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Massimo Cacciari, Franco Rella… – per limitarci al caso più emblematico e approfondito da Cohen, ossia la «corte» tafuriana con base a Venezia.

Come lo stesso Cohen scrive, «il movimento che porta la cultura architettonica francese alla scoperta dell’Italia all’inizio degli anni Settanta non è del tutto nuovo né esclusivo. Ciò che però rende importante questo movimento è che esso, più di ogni altro, mette a nudo le aporie del dibattito sull’architettura in Francia». E le principali aporie francesi, che potremmo riassumere con nostre parole nella formula di «angustia disciplinare modernista», risultano proprio quelle su cui gli architetti intellettualizzati italiani si confrontano da decenni, con dibattiti e dispute che negli anni del «dopo ’68 pensiero» toccano forse non il loro apice quantitativo negli incarichi professionali, ma certo una incandescenza intellettuale, teorica e letteraria capace di accendere fuochi di italofilia non solo in Francia, ma anche negli USA e nella penisola iberica.

Architettura come ideologia

Se l’intellettualizzazione dell’architetto, come testimoniava la «pubblicistica imponente» del nostro Paese, non poteva che fondarsi sull’estensione della prassi progettuale all’esercizio letterario nelle sue varie forme (con riviste, cataloghi, esposizioni, saggi critici, ricerche storiche…), altrettanto esteso risultava il nuovo perimetro del campo disciplinare, sempre più ampliato per accogliere le inseminazioni delle scienze umane e sociali, del pensiero politico, della filosofia teoretica e persino della letteratura (già negli anni 1950 Rogers si permetteva di scrivere uno dei suoi editoriali-manifesto su «Casabella-Continuità» citando T.S. Eliot!). L’insieme dei materiali e delle agende di progetto, le «figure» e i «fatti» architettonici risultavano ora inquadrati in una «cultura» disciplinare tanto dilatata che il «maestro e amico» di Cohen, Manfredo Tafuri, provò a circoscriverlo – nel suo Progetto e utopia del 1973 – con la formula di «ideologia architettonica». (Su questi temi rimando anche al mio articolo, comparso su «Doppiozero», 24 giugno 2023, Architettura: la figura e il fatto, dedicato ai libri di storia e storiografia di Giorgio Ciucci e Carlo Olmo.)

All’architetto come intellettuale nella prassi veniva così a corrispondere una architettura come ideologia nel racconto critico e storico. Ideologia non intesa secondo i deficienti luoghi comuni odierni e nemmeno secondo il riduzionismo di comodo marxista (sebbene in Tafuri echeggiasse in quegli anni il marxismo «operaista» dell’amico Mario Tronti). Ideologia architettonica intesa piuttosto come dispositivo critico per orientarsi – come oggi si direbbe – nella narrazione di una cultura progettuale fecondata da idee e intenzioni sociologiche, politiche, filosofiche, letterarie... Questa architettura come ideologia, di cui Cohen ci offre nella sua «opera giovanile» la stagione più significativa, con relativi protagonisti nella prassi artistica e nella critica, la ritroveremo in varie sue ricerche e pubblicazioni successive, nel frattempo così apprezzate da farlo diventare nel 2013 il primo architetto professore invitato al Collège de France.

Certo, la categoria tafuriana di ideologia verrà vieppiù smussata, ma continuando a riaffiorare per esempio attraverso categorie come quelle – mutuate dal filosofo della storia Reinhart Koselleck – di «orizzonte di aspettativa e spazio d’esperienza». Ne sono prova i richiami a Koselleck che troviamo nel libro Il governo dello spazio. L’architettura come vettore politico, Mendrisio Academy Press, 2021. Questo libro, che raccoglie il ciclo di conferenze pubbliche tenute da Cohen all’Accademia di architettura di Mendrisio mentre ricopriva la «Cattedra Borromini 2016-2017», ho avuto il piacere di curarlo editorialmente di persona su richiesta dello stesso autore. Già, perché io e il compianto Jean-Louis Cohen eravamo amici, oltre ad essere stati «colleghi» ben prima del suo invito a Mendrisio, in particolare negli anni della «Casabella» diretta da Gregotti, nella cui redazione anch’io, in qualità di «letterato prestato agli architetti», fornivo la mia opera a quel processo di «intellettualizzazione» dell’architetto e di «ideologizzazione» dell’architettura tanto bene indagato da Cohen sin dalla sua «opera giovanile», processo di cui in seguito abbiamo dovuto osservare la veloce dissipazione nel nuovo secolo.

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