L'intelligenza parodica

10 Giugno 2024

Memoria approssimativa. «Non c’è una sola grande invenzione, dal fuoco al volo, che non sia stata accolta come un oltraggio a qualche dio.» Confesso, meglio, dichiaro di avere ritrovato questo arguto aforisma non grazie all’aiuto della smisurata e temuta memoria digitale dell’Intelligenza Artificiale – IA, ma dopo un estenuante spoglio manuale di libri della mia pur modesta e disordinata biblioteca cartacea di casa. Nella ricerca pareva non volessero aiutarmi neppure i segnapagine adesivi colorati, le scomposte sottolineature delle righe e le minuscole orecchie che a volte infliggo agli angoli tanto superiori quanto inferiori dei fogli a riconoscimento dell’interesse suscitato da quel singolo libro. Penso di avere ritrovato la citazione grazie a un progressivo accerchiamento bibliografico, semantico o analogico, che mi ha fatto vagare tra le pagine di almeno una decina di volumi, certo che l’aforisma, di cui ricordavo il senso ma non le esatte parole né l’autore, stesse sepolto, da me contrassegnato in qualche modo, tra gli scaffali libreschi di casa, disordinati quanto la memoria approssimativa dell’abitante.

L’autore dell’aforisma, infine identificato – ora lo posso dire –, è John Burdon Sanderson Haldane (1892–1964), eminente biologo inglese. Tra i suoi libri di scienziato materialista evoluzionista ho così scoperto esservi quello che contiene la citazione, dal titolo fascinoso e che forse leggerò: Daedalus, or, Science and the Future (1924, trad. it. Dedalo rivisitato, Sellerio, Palermo 1989). All’identificazione di Haldane, di cui non ricordavo nulla, sono insomma arrivato per errori successivi, o se si preferisce per serendipità, dopo avere sfogliato invano, tra i vari, anche il libro di un altro, più che eminente biologo naturalista scozzese: D’Arcy Wentworth Thompson, autore dello straordinario libro On Growth and Form (1917, trad. it. Crescita e forma, Boringhieri, Torino 1969), opera amatissima da scienziati quali Alan Turing e Stephen Jay Gould, ma anche da architetti quali Le Corbusier e dai membri dell’Independent Group londinese degli anni 1950, consorteria di giovani artisti e critici che inauguravano l’avvento del Pop e che alla morfogenesi di D’Arcy Thompson dedicarono una delle loro mostre, oggi considerate «mitiche». Come immagino facevano i membri dell’Independent Group (Hamilton, Paolozzi, Banham, gli Smithson…) io avvicino i temi e i linguaggi scientifici con uno sguardo altrettanto poco disciplinare, non godendo di adeguata cultura matematica, tecnologica. Lo definirei uno sguardo anch’esso di «approssimazione analogica»… Ma, di analogia in analogia, mi accorgo che continuo a divagare, quasi volessi – parodiando l’incedere narrativo di Laurence Sterne – ripercorrere ab ovo la mia piccola ricerca, ossia risalire per digressioni e accostamenti all’uovo o ovulo, seme o germe che sentivo essenziale negli sviluppi delle mie meditazioni. Nonostante l’infinita arguzia enciclopedia riversata nel Tristram Shandy, sapevo che nemmeno Sterne poteva però essere l’autore di quell’aforisma di cui intuivo solo vagamente il senso. Ne ho tuttavia approfittato per rileggere alcune pagine della sua opera maestra, istruttive come sempre, convinto che tutto quel girovagare tra libri collocati in scaffali domestici anche lontani l’uno dall’altro mi stava approssimando all’obiettivo. 

immagine ai gioconda

Come che sia, alla fine della ricerca, che ha assorbito l’intero pomeriggio di una giornata già afosa di inizio primavera a Milano, sono riuscito a identificare l’ovo dell’intelligente motto. Sulle tracce dedaliche che mi portavano sempre più verso freddi approdi britannici ho trovato, da ultimo, la fonte libraria tanto cercata: è il testo di un altro eccellente studioso, lo storico dell’arte berlinese fuggito a Londra negli anni del nazismo Edgar Wind (1900–1971). 

Oltraggio all’arte. È da secoli, ormai, e con toni assillanti a partire dall’Ottocento dei travolgenti sviluppi dell’industrialismo, che le innovazioni tecnologiche sono mal viste, denigrate, sofferte dal pensiero artistico. Tanto che «si potrebbe pensare che l’arte e la meccanizzazione si escludano a vicenda» – come ci ricorda Edgar Wind. Era dunque negli scritti di uno storico dell’arte che dovevo sin dall’inizio cercare l’aforisma tanto bramato di J.B.S. Haldane! Così mi sono rimproverato. Viene riportato a pagina 106, nella mia edizione del volume, nel capitolo che riporta la Reith Lecture dal titolo La meccanizzazione dell’arte, raccolta in Art and Anarchy (1963, trad. it. Arte e anarchia, Adelphi, Milano 1968). Ed è esattamente nelle ultime righe di pagina 106 che sono incappato, tirando il fiato a fine pomeriggio, nella citazione del biologo inglese, ritrovandola da me segnalata, non so quanti anni addietro, da un puntino a matita laterale e da orecchietta apposta a futura memoria sull’angolo inferiore del foglio sinistro. L’autore, con sicumera forse da convinto positivista, vi ridicolizza la stigmatizzata incompatibilità tra meccanizzazione e arte, o, in termini aggiornati e più nostri, tra automazione e creatività. E dal commento sviluppato da Wind nella sua lezione, potevo chiarire il senso che cercavo vaneggiando sull’indefinito aforisma: il «dio oltraggiato» dalle scoperte, invenzioni o innovazioni tecnico–scientifiche non rientrava tra gli dèi tradizionali (che in molti, anche agitando documenti storici, affermano essere esiliati da tempo), ma sarebbe la «divinità» dell’artista, ritenuto l’ultimo soggetto depositario di facoltà «creatrice». 

Interessandomi da tempo al processo di «deificazione» dell’artista in epoca moderna, grazie all’aforisma di Haldane ne ritrovavo una certificazione in veste di rovello artistico: la minaccia della tecnologia alla creatività.

A ogni tempo le sue minacce. La ragione per cui mi è sorta l’ossessione di ritrovare l’aforisma di Haldane, come è facile capire, è la discussione sorta intorno ai prepotenti e invasivi sviluppi dell’Intelligenza Artificiale. Questa viene dibattuta soprattutto per il potenziamento strumentale delle nostre attività produttive e insieme per i pericoli sociali legati alle sue abilità simulative. Ma qui io mi vorrei limitare, consapevole dei miei limiti, a interrogarla quale nuovo capitolo nella secolare diatriba sulle forme di conoscenza artistica e tecnico-scientifica. Si tratta di un capitolo nuovo, certo, e insieme colmo di domande già poste dai nostri padri e nonni e bisnonni, i quali avevano tuttavia il vantaggio di doversi scervellare sui problemi posti dalla meccanizzazione strumentale incorporata nel lavoro artistico, una meccanizzazione che, per quanto oltraggiosa delle coeve divinità artistiche, non spingeva i suoi poteri e facoltà sino alle origini generative dell’automazione cognitiva dell’impresa artistica. Ogni tempo ha le sue minacce e domande – mi sono ripetuto –, le quali però, a ben guardare, prolungano e nel mentre si differenziano dalle precedenti secondo quella che potremmo definire una «continuità per rioccupazione» tra i tempi storici – nel nostro caso, i precedenti tempi storici della meccanizzazione strumentale e, a seguire, dell’automazione generativa dei testi, delle opere, dei lavori artistici, tanto letterari quanto visuali. Questa «continua rioccupazione» (che mi riprometto di chiare) balza chiara all’attenzione se – sulla scia di Wind – ripercorriamo a grandi passi gli strali ottocenteschi contro la «vile manifattura», deprecato automa meccanico che mima l’artigianato vivente e fa la parodia del lavoro artistico autentico; e ce ne convinciamo ancor più se lungo il percorso ottocentesco ci lasciamo un momento dai fulmini scagliati dal Baudelaire critico d’arte contro la «lanterna moderna del progresso, che getta tenebre su tutti gli oggetti della conoscenza»; e se, ancora, ci riaffiora dalla memoria il ben diverso discredito manifestato dal filosofo Nietzsche per quanti ritengono la «creazione artistica» più importante della «dedizione scientifica al vero»; e se, a conclusione, riprendiamo naturalmente tra le mani il saggio di Walter Benjamin sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), dove il sublime critico, smentendo l’amato poeta parigino, redime l’opera riprodotta (ma anche ottenuta) tecnicamente, assolvendola dai reati perpetrati dalla «vile manifattura» o dalla «lanterna del progresso» o dalla «dedizione scientifica» contro l’autenticità, l’originalità, la «creazione»: ossia contro l’autorialità. 

ai notte stellata

L’ombrello del racconto. Ci si potrebbe chiedere perché io abbia introdotto queste meditazioni teoriche sull’originalità o autorialità artistica usando un racconto soggettivo, dunque «artistico», per quanto ambientato tra gli scaffali di una biblioteca domestica cui viene chiesto di innestare nel testo narrativo richiami bibliografici, citazioni e persino teorie «dedite scientificamente al vero»… Confesso, anzi, di nuovo dichiaro di aver deciso di procedere narrativamente perché mi sembrava il modo migliore di mettere sin dall’inizio al riparo le mie parole e frasi e riferimenti dall’accusa di essere stati generati da un demoniaco programma dell’Intelligenza Artificiale. Ma, mi chiedo e chiedo: basta un ombrello narrativo per proteggere la proprietà autoriale creativa di un testo dalla copiosa pioggia di dati, informazioni, parole, riferimenti, teorie e discorsi che i sistemi di automazione cognitiva sarebbero in grado da sé di elaborare (o ri–elaborare»)? Non potrebbe darsi anche che, grazie alla prodigiosa memoria e abilità compositiva dell’IA, queste (mie?) pagine siano anch’esse il risultato di direttive, impulsi, suggerimenti tanto ben architettati (da mente ancora umana?) da poter trasmettere una destrezza letteraria shandyana ai programmi generativi di testi dell’Intelligenza Artificiale? Cosa impedisce di ritenere che, oltre ai riferimenti bibliografici e alle considerazioni teoriche che vado esponendo, anche il racconto soggettivo dell’io narrante, le scelte stilistiche adottate per l’occasione dall’autore e persino i salti meta-narrativi – come quelli che proprio queste righe propongono – possano essere il risultato una fonte generativa automatica? Sono io l’autore del testo presente, o piuttosto un qualcuno, un qualcosa, un mimo in grado di elaborare la più fedele e meglio dissimulata delle parodie simulatrici, una parodia tanto evoluta da far sorridere al ricordo degli automi ottocenteschi «fatti a imitazione umana» narrati da E.T.H. Hoffman e E.A. Poe, automi che sapevano giocare ed eziandio perdere a scacchi, nonché rispondere con pertinenza da oracolo al pubblico pagante che li interrogava nei teatri in cui si esibivano?

Ritorno a Nicea. La fondamentale dottrina, o teoria o teologia, che nell’anno 325 si impose al Concilio di Nicea per sconfessare l’eresia ariana, è sicuramente troppo importante e smisurata per poterla trapiantare organicamente in queste nostre meditazioni marginali sulle arti e gli artisti al tempo dell’automazione cognitiva. Poiché abbiamo deciso, dichiarandolo formalmente, di procedere in stile shandyano, ci permettiamo comunque di riprenderne, anche se a sproposito analogico, uno spunto: quello della distinzione tra generazione e creazione – due termini che chiediamo vengano risparmiati almeno un momento dal fuoco di fila delle dissezioni etimologiche. 

Nel sancire che la seconda persona della Trinità è «generata e non creata, della stessa sostanza del Padre», al Figlio di Dio, Gesù, si attribuisce valore eterno, primario, non derivato da un creatore antecedente, come ventilava la dottrina di Ario, che in tal modo lo avrebbe ridotto a figura temporale originata, non originale… Tema delicatissimo e fondante, quello affrontato a Nicea, che converrà riconsegnare presto agli eruditi storici e filologi e filosofi e teologi, occupati da secoli a dibattere su una diatriba dottrinale che ci è ancora tanto cara... Ciò che ne possiamo recuperare a nostro profitto sono però le spore che il lessico concettuale del Concilio di Nicea pare aver lasciato cadere dietro a sé, sino a rigerminare nella discussione contemporanea sullo statuto autoriale più o meno «creatore» dell’artista e sulle minacce «generative» dell’automazione tecnologica.

ultima cena ai

Generati o creati? I prodotti, le opere, i testi dell’Intelligenza Artificiale sono «generati», come spesso si dice (Generative AI)? Se intendiamo questa categoria secondo il lessico di Nicea, essi si pretenderebbero consustanziali alla loro origine, come l’acqua sorgiva lo è alla fonte – volendo usare un’immagine poetica alla Shakespeare. Se invece intendiamo il prodotto, l’opera, il testo dell’Intelligenza Artificiale come «creato», sempre secondo il logos o discorso niceno, esso sarebbe derivato, divenuto da un soggetto creatore che resta distinto, come l’acqua piovana lo è all’atmosfera – volendo completare con speculare immagine poetica quanto scritto poco sopra. 

Trovo insomma singolare, ma significativo, che si parli spesso dei programmi «generativi» automatici dell’Intelligenza artificiale e che, negli appelli artistici o umanistici contro di essi, si invochi invece la difesa della «creazione» autoriale, ritenuta l’unica a potersi definire «originale». Per bizzarro che possa sembrare, nel lessico niceno risulta infatti maggiormente partecipe all’origine ciò che ne è generato, non ciò che ne viene creato. Generazione e creazione, Intelligenza Artificiale (Automatica?) e Intelligenza Umana (Autoriale?) sembrano davvero disputarsi lo statuto di originalità: la prima ritenendo che la sua opera partecipi all’origine poiché generata dalla ri-produzione delle sue stesse fonti; la seconda ritenendo che la sua opera partecipi all’origine poiché ogni volta ne ri-attiva la potenza creativa.

Questo suggerisce la querelle tra cognizione generativa e creativa, letta in chiave nicena. 

Cambio mimetico. Da sempre (che per molti di noi significa dagli antichi Greci) si ricorre all’idea di imitazione, di mimesi, quale fondamento delle attività di conoscenza sia artistica sia tecnica, tanto che nel mondo antico si tendeva ad equipararle. A lungo, nei secoli, è prevalsa l’idea che si trattasse di mimesi della natura, sino a quando, a iniziare dal Rinascimento (eccellente neologismo ai nostri fini!) si è fatta sempre più strada l’idea che l’imitazione artistica della natura non ne fosse emulazione ma idealizzazione, in una sorta di inedito paragone in cui l’artista, nei confronti della natura, ora se ne erge a concorrente. L’arte, dapprima abile mimo della natura, verrà per questo definendosi come «seconda natura» in quanto portatrice anch’essa di un’attitudine «creatrice», presupposto che avviava il processo moderno di «deificazione» dell’artista (con i conseguenti lamenti, da cui siamo partiti, sugli oltraggi da questi ricevuti dalle scoperte tecnico-scientifiche).

Su entrambi i fronti, sia della prima sia della seconda natura, di mimesi comunque si tratta, per quanto complesso e articolato e variato se ne voglia intendere il concetto. E qui sorge un dubbio. Nell’odierna concezione generativa automatizzata della conoscenza, sta forse celato l’antico primato della mimesi della natura? Il poderoso archivio di dati, fatti, forme, informazioni, fenomeni e discorsi dell’Intelligenza Artificiale ha preso il posto dell’antico archivio della natura, cui la conoscenza non poteva che pagare adeguato tributo per ri–produrla, mimeticamente, nelle opere dell’uomo? E viceversa: nella moderna concezione creativa della conoscenza promossa in particolare dal pensiero artistico, che cosa ne legittima la conoscenza mimetica, una volta abbandonata l’antica garanzia legislativa della natura? Poiché sappiamo che ex nihilo non si dà nessuna opera, neppure le nostre e tantomeno la mia presente, e nemmeno quelle all’apparenza più «originali», che cosa distingue un’opera nuova, sebbene generata per mimesi automatizzata delle fonti, da un’opera nuova creata, sebbene anch’essa debitrice a una mimesi delle fonti (non più naturali) che l’hanno prodotta?

Che cosa distingue, insomma, la parodia mimetica dell’Intelligenza Artificiale dalla parodia mimetica di quella che a questo punto potremmo anche definire come Intelligenza Artistica?

primavera ai

Principi di gravità. Quello dalla mimesi alla parodia è un doppio salto mortale di concetto molto rischioso, forse letale, me ne rendo conto, soprattutto se espresso in un modo all’apparenza tanto apodittico che non si concede più neppure ai migliori studiosi e filosofi, anche tedeschi, figuriamoci a un letterato italiano. Nondimeno ora mi accorgo dove, con scarsa consapevolezza dello stesso io narrante e autore, volevano trascinarmi le vaghe riflessioni e le fuggevoli intuizioni sulla crisi dei concetti di creatività e autorialità sollevata all’inizio: volevano riportarmi non tanto a un’idea fissa o pronta, quanto a un personale assillo che mi angustia da tempo con domande sull’inevitabile statuto parodico delle opere d’arte tanto letterarie quanto visive e di progetto (e più in generale delle opere della conoscenza, oltre distinzioni di genere o disciplina o protocollo). 

Forse ha ragione l’amico P., cui ho confidato che stavo scrivendo queste note piuttosto spregiudicate, quando mi ha detto: «Per te la parodia è diventata il nuovo principio di gravità permanente». Al che gli ho risposto: «Dici bene! La parodia è per me una specie di principio di gravità della permanenza, è il mio modo di intendere l’eterno ritorno!».

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