La casa e le stanze fluide

31 Dicembre 2024

È lunedì mattina. Mia madre mi chiama e mi dice: “Venerdì viene Teresa per le pulizie”. Passa un attimo prima che aggiunga: “Dobbiamo sistemare casa”. Quando le faccio notare che è fuori da ogni logica far venire qualcuno a spolverare e rassettare se già abbiamo fatto da noi, lei, serafica ma risoluta come suo solito, controbatte: “Non possiamo certo farle trovare la casa così! Cosa penserà di noi?”. Al di là del siparietto familiare, il paradosso di mia madre rivela qualcosa che sappiamo da sempre ma che tendiamo a dimenticare: le case sono il riflesso di chi le abita. Ce ne accorgiamo di solito quando ci tocca ristrutturarle da cima a fondo. Scegliere tra miriadi di rubinetti, decidere se togliere spazio alla cucina per ricavare una cabina armadio o stabilire come disporre il divano un po’ retrò nel moderno soggiorno, non sembra affatto facile, meno che mai banale. Poi, quando rientriamo nel regime dell’ordinario, tutto al loro interno ci appare sbiadito, scontato, meccanico, a tal punto da sparire alla nostra percezione. La quotidianità e l’abitudine tendono a rivestire gli spazi domestici di una sorta di patina d’evidenza, facendoli passare per ovvi e naturali, e ci vuole la Teresa di turno o l’ospite, atteso o meno che sia, affinché possano riemergere, anche solo per un istante, alla vista. Ma forse lo capiamo ancor di più quando siamo noi ad andare in casa d’altri. In macchina, al rientro dopo la cena dalla coppia di amici, ci troviamo a commentare le loro tende del bagno, tutti quegli sportelli aperti in cucina e a pensare che se entrambi lavorassero in casa, di certo quei due vani non basterebbero. Non troppo diverso è ciò che facciamo quando il nuovo collega ci invita a casa sua per un caffè. Lì ci scopriamo a curiosare nella sua libreria, a buttare un occhio tra le spezie per farci un’idea di quali sono i suoi gusti o a sbirciare attraverso una porta socchiusa per vedere se è ordinato come in ufficio. Ecco che gli appartamenti altrui, specie se sconosciuti, ci appaiono come qualcosa di affascinante, una serie di camere delle curiosità messe in fila, capaci di raccontarci, ciascuna a suo modo, alcuni caratteri dei loro proprietari.

Siamo sicuri però che dicano solo di quel soggetto individuale che le vive, abita e arreda? Non potrebbero, piuttosto, parlarci di noi in quanto comunità, precisando convenzioni culturali, forme di vita e dinamiche sociali che trascendono il singolo? Che guardandole in prospettiva, seguendo una linea cronologica, sia possibile comprendere chi siamo stati, come siamo cambiati e magari intravedere quel che saremo nel prossimo futuro? È questa la scommessa di Luca Molinari che nel suo nuovo libro Stanze. Abitare il desiderio (Nottetempo, pp. 180) ci porta alla scoperta degli ambienti che formano le nostre abitazioni. Il volume prosegue la riflessione sul domestico dell’architetto lodigiano avviata con Le case che siamo (2016, Nottetempo; nuova edizione ampliata 2020), saggio che in tempi non sospetti, prima che pandemia e lockdown ripuntassero i fari sulla dimensione domestica, aveva sottolineato la necessità di ripartire dalla casa, gemello taciuto della città (si veda qui la recensione di Marco Belpoliti). Ora, dopo aver osservato le dimore, reali e fittizie, prototipiche e vissute, che compongono il nostro immaginario, Molinari compie quel gesto analitico, necessario e non scontato, che sposta lo sguardo dal tutto alle sue parti, per mostrarci come le stanze, a dispetto del loro etimo (la parola deriva dal latino stans, stantis, participio presente di stare), non abbiamo nulla di statico. Tutt’altro che immobili o immutabili, esse, come veri e propri organismi, si evolvono di continuo in relazione a ciò che vi accade all’interno e quanto succede al loro esterno.

Alla maniera di Gaston Bachelard, l’autore riconosce negli spazi che viviamo quotidianamente una forte componente evocativa, capace di richiamare alla mente ricordi ed emozioni e, spogliato dello spirito dell’architetto-ingegnere, esercita sulle stanze lo sguardo attento del fenomenologo, come a volerne restituire un’estetica vissuta. Tuttavia, non si ferma a una presa romantica del domestico e procede con una sua sistematica scomposizione. Di ogni stanza Molinari illustra infatti la storia e le trasformazioni, rintracciando quei punti di svolta che segnano grandi cambiamenti culturali. Analizza funzioni, riti sociali e pratiche quotidiane che attraversano i vari ambienti e prende in esame alcuni dei mobili e strumenti che li abitano insieme a noi. Affonda nel lessico della casa, guardando all’origine delle parole attraverso cui diamo forma agli spazi e alle cose, ma osserva anche come prodotti culturali di diverso tipo (oggetti di design, artefatti architettonici, romanzi, film, dipinti, brani musicali etc.) ne parlino a loro volta, producendo e riproducendo il nostro immaginario domestico.

Insomma, intrecciando storia sociale ed evoluzioni tecniche, design e architettura, opere d’arte e rituali, parole e cose, Molinari ricostruisce piccole ma densissime cosmologie. Un po’ come era nel progetto di Bill Bryson per il suo At Home: A Short History of Private Life (Breve storia della vita privata, TEA, 2017) il viaggio tra le pareti domestiche proposto da Molinari assume una portata antropologica: ciascuna stanza è in grado di richiamare dimensioni specifiche della nostra vita sociale. Così, mentre il bagno, incrociando la storia dell’igiene e del benessere, racconta dei nostri rapporti con il pulito, il pudore e il piacere; ingressi, balconi e finestre parlano invece dell’esigenza di mettere in comunicazione l’interno con l’esterno, la casa con la città. Se osservare la camera da letto significa esplorare i nostri rapporti con il sesso, il sonno, il sogno e la morte, seguire l’evoluzione di stanze come il salone, il salotto o il soggiorno, vuol dire indagare il modo in cui gestiamo, in privato, le relazioni pubbliche. In modo analogo, mentre la cabina armadio parla di una società dedita al consumo e all’accumulo, del disordine e delle manie di ordine che in questo locale si fanno manifesti, la cantina, al margine tra l’ordinario e lo straordinario, racconta invece di come ci relazioniamo con gli oggetti dismessi, acquistati o ereditati, e porta sottotraccia la storia della conservazione di cibi e bevande (cantina, sottolinea Molinari, viene da cum-tino, vale a dire “con il vaso di vino”). Infine, laddove la cucina, mentre parla dello sviluppo dell’arte culinaria, ci racconta delle lotte di emancipazione femminile dal lavoro domestico, il boudoir, salottino a uso esclusivo delle donne contrapposto al fumoir maschile, prende in carico un’altra parte di questa stessa storia, raccontandoci di una liberazione solo in superficie sessuale ma più profondamente politica e morale.

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Si tratta solo di alcune delle traiettorie percorse da Molinari, il quale non si rivolge unicamente al passato ma tenta di comprendere, a partire dal presente, in che modo si plasmeranno gli spazi del nostro quotidiano. Nelle case d’oggi, sottolinea, le barriere fisiche tra l’una e l’altra stanza tendono a essere abbattute e all’interno di un singolo ambiente finiscono per confluire funzioni fino a qualche decennio fa tenute e ritenute separate. Il monolocale, su cui l’autore indugia alla fine del suo percorso, è l'esempio più lampante di questa tendenza, ma sarebbe riduttivo attribuire tutto alla riduzione cronica dei nostri appartamenti. La stessa dinamica, del resto, può essere riscontrata anche in certi loft o appartamenti molto vasti in cui la possibilità di ricreare ambienti distinti a cui affidare necessità e funzioni diverse non viene sfruttata. E Molinari, d’altra parte, durante il suo viaggio mostra come mescolanze e miscugli siano all’ordine del giorno e riguardino ogni stanza. Basti anche solo pensare a ciò che accade alle nostre cucine. L’ambiente preposto alla preparazione dei cibi ha smesso di essere un locale di servizio separato dal resto dell’abitazione e, ormai integrato alla sala da pranzo, si apre al soggiorno, fuso da tempo con il salotto. Esso diventa così parte dell’open space, nuovo centro nevralgico della vita domestica. È chiaro, quindi, che non è tanto questione di metri quadri, ma di un nuovo modo di concepire e desiderare i luoghi dell’abitabilità.

Dunque, ad animare il panorama domestico attuale pare essere un movimento tutto teso alla creazione di spazi via via più fluidi, dinamici e multifunzionali. Una tendenza che Molinari ascrive a una sorta di tensione euforica e irresistibile verso il vuoto a cui, pronostica e spera, ci abbandoneremo negli anni avvenire. Difatti, pur indagando la casa secondo la composizione classica degli appartamenti, l’architetto non propende per spazi funzionalmente distinti e auspica per le stanze del futuro la possibilità di farsi vuote, ovvero, per riprendere Edward Hall (The Hidden Dimension, 1966; trad. it. La dimensione nascosta, Bompiani, 1968), di trasformarsi da spazi preordinati, luoghi dedicati e consacrati a specifiche attività, a spazi informali, aperti alle attività più disparate. Dietrofront? Niente affatto, piuttosto una sorta di piroetta teorica (e retorica) verso una diversa visione dello spazio domestico, non più rigidamente determinato da funzioni prestabilite, ma flessibile e in sé capace di adattarsi alle esigenze mutevoli della vita contemporanea. Laddove, infatti, la distinzione tra pubblico e privato si fa sempre più sfumata, il tempo libero si intreccia con quello lavorativo, alle nostre case è richiesto di diventare sempre più leggere, mobili e senza limiti interni, di farsi simili a valigie o, ancora meglio, alle tende dei nostri progenitori.

A essere messa in crisi è allora proprio l’idea di una casa come macchina per abitare, per dirla con Le Corbusier, quella verso cui alla fine Molinari prende le distanze. Figlia di una concezione razional-funzionalista dell’abitare e sorella del progetto ergonomico, essa si fonda a conti fatti su una schematizzazione astratta e vincolante della vita quotidiana, in cui tutto sembra esser controllato e misurato, e l’abitare stesso ridotto a operazioni stabilite e irrigidite. Viene in mente in proposito quel modello di una giornata tipo in appartamento presentato da Georges Perec in Specie di spazi (1974), in cui ogni attività quotidiana fa il paio con una specifica fascia oraria e una determinata stanza-funzione, come se fosse possibile abitare la casa in modo sequenziale, secondo un ritmo circadiano. Uno schema caricaturale, ammette, eppure abbastanza fedele al modo in cui molti architetti pensano e vogliono che viviamo. Si tratterà allora di rovesciare la pratica architettonica: non mutare il vuoto in un pieno ma rendere il pieno vuoto, procedendo per sottrazione e trasformando lo spazio stabilito in un luogo privo di determinazione. Un tipo di concezione del costruire che ricorda l’architettura domestica delle tradizionali case giapponesi, non a caso riprese più volte nel volume, in cui ogni cosa, dalle pareti agli oggetti, si fa leggera per essere spostata e riposta ai margini. Il vuoto di cui parla Molinari è così del tutto simile a quello pensato dal mondo orientale: non assenza di pieno, né qualcosa a esso opposto, ma uno spazio virtuale che mantiene in sé le potenzialità negate, sempre pronte a essere attualizzate.

In fin dei conti, nell’opposizione tra casa-macchina e stanze vuote sembra possibile intravedere quella tra spazio striato e liscio teorizzata da Deleuze e Guattari: il primo omogeneo, ordinato, segmentato e irreggimentato; il secondo invece eterogeneo, caotico, continuo e cangiante. Ma come hanno messo in luce gli autori di Mille Plateaux, tra i due si danno sempre incroci, sovrapposizioni, miscugli. Soprattutto, tra l’uno e l’altro, si realizzano passaggi graduali attraverso operazioni inverse: lisciature di spazi striati e striature di spazi lisci. Così, la casa-macchina, per quanto possa funzionare come un dispositivo alla Foucault che, organizzando a monte gli spazi della nostra quotidianità, impone un certo modo di abitare, può sempre esser resa liscia da chi se ne serve. Del resto, come lo stesso Molinari ricorda riprendendo Frank Lloyd Wright, abitiamo le nostre case in modo più nomade e meno normativo di quanto lasci intendere il modello a cui la casa-macchina si rifà. Dal rispondere alle e-mail di lavoro in cucina al far yoga in soggiorno fino al mangiare distesi a letto. Attuiamo quotidianamente tutta una serie di atti che trasgrediscono o raggirano le norme imposte, rivelando una resistenza silenziosa all’ordine stabilito e la possibilità di sovvertirlo. Allo stesso modo, le stanze vuote possono essere continuamente striate da chi le abita, dai loro vissuti e dagli oggetti che le arredano, quadrettandole qui e là e irreggimentandole in alcune porzioni o frammenti. Pensiamo al già citato caso open space. In barba alla fluidità che siamo soliti riconoscergli, in questo spazio arredi come divani, tavoli da pranzo o isole si fanno frontiere che hanno il compito di marcare aree con funzioni diverse.

E forse non potrebbe essere altrimenti. Non tanto perché è impossibile liberarsi dell’idea di funzione e seguire il sogno di uno spazio afunzionale, ma perché le discontinuità sono quanto ci permette di dare senso a ciò che ci circonda. Il mare o il cielo stellato, dal momento che appaiono come un tutto indifferenziato, sono insignificanti per noi. Ma non appena scorgiamo terre emerse o costellazioni ecco che assumono progressivamente valore, proprio grazie allo scarto che questi elementi producono. Certo, le stanze vuote sono luoghi di libertà nella misura in cui, essendo vaghi e indeterminati, consentono di immaginare un diverso modo di abitare. Ma se gli spazi della nostra quotidianità fossero totalmente lisci, se in essi non potessimo riconoscere una differenza, se tutto al loro interno apparisse uguale a tutto, non ci sarebbe più speranza.

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Marco Belpoliti | Luca Molinari. Le case che siamo

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