Siate parsimoniosi, siate sostenibili

1 Ottobre 2024

Alzi la mano chi si considera ecologista. Immagino siano parecchie le mani alzate. Magari qualcuno ha tentennato perché in fondo non ha fatto del green un ideale di vita da seguire a tutti i costi. E tuttavia, alla fine, la mano l’ha alzata eccome. Oggi come oggi la coscienza ecologica risuona come legge morale dentro ciascuno di noi e a conti fatti molte sono le piccole azioni che compiamo quotidianamente e che ci fanno sentire paladini dell’ambiente. Preferire la borraccia in alluminio alle bottigliette in plastica, fare acquisti second hand, spuntare la voce “compensazione delle emissioni di volo” quando si compra un biglietto aereo. Eppure, come si dice, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Facciamo la doccia anziché il bagno ma l’acqua scorre per una decina di minuti. Siamo invasi dalle shopper in cotone – una dozzina almeno – ma ciascuna dovrebbe esser usata per anni per bilanciarne l’impatto ambientale. Piuttosto che riparare la lavatrice rotta ne acquistiamo una nuova di classe energetica più elevata, dimenticandoci però di star contribuendo alla produzione di montagne di rifiuti.

Non meno ambivalenti sono certe soluzioni che adottiamo con entusiasmo per rendere le nostre case più rispettose dell’ambiente. Gli sforzi messi in atto per l’ottimizzazione termica delle abitazioni sono vani, ad esempio, se i materiali usati per il cappotto termico provengono dal petrolio. Discorso analogo può esser fatto per i pannelli fotovoltaici che richiedono di esser sostituiti nel giro di una decina d’anni. Che dire poi del mito della casa indipendente, super-efficiente dal punto di vista energetico ma lontana dal centro urbano? Oppure dei vari condomini alberati che svettano in molte città proponendosi come sintesi mitica tra natura e cultura? I loro vasi, pieni di cavi, tubi e pellicole, possono considerarsi ancora biomassa o piuttosto si tratta di rifiuti speciali?

Di queste e altre contraddizioni in tema di sostenibilità in edilizia, urbanistica e architettura parla Vittorio Magnago Lampugnani nel suo Contro la città usa e getta. Per una cultura del costruire sostenibile (Bollati Boringhieri, 2024, pp. 176). Con l’aplomb dell’architetto-intellettuale, l’autore solleva il velo di maya sull’odierna cultura del costruire e mostra come l’ideologia dell’usa e getta – quella, per intenderci, dei piatti di plastica che abbiamo condannato ma anche delle Kodak throwaway, di nuovo in auge, e delle sigarette elettroniche monouso – si sia radicata ormai anche in città e, ammantata adesso da aspirazioni ecologiche, guidi la prassi del costruire.

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Lo fa ripercorrendo la storia del consumismo architettonico. Al pari di altri beni di consumo, osserva l’autore, case e città hanno iniziato a esser realizzate con obsolescenza programmata. Gli edifici hanno perso solidità e la loro riparabilità non è stata, al contrario della loro caducità, pianificata. Il che costringe a continue opere di manutenzione, difficili e dispendiose. Abbattere e ricostruire diventa allora la soluzione più efficace. Quando poi le preoccupazioni per l’ambiente assumono rilevanza sociale, l’industria edile dell’usa e getta trova una nuova giustificazione: è per il bene del pianeta. Così, ad esempio, laddove gli standard energetici si fanno più raffinati e difficili da soddisfare, più semplice è demolire e costruire edifici nuovi di zecca e in linea sin dal principio con i parametri richiesti; salvo poi in breve tempo dimostrarsi inadeguati di fronte alla nuova certificazione di turno. È il medesimo principio della lavatrice che ritorna su scala più ampia. Come uscirne?

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Come sempre, guardare al passato consente non solo di comprendere meglio il presente ma anche di trovare, se non risposte a quesiti odierni, quanto meno ispirazione per una storia futura tutta da scrivere. D’altra parte, come spesso accade anche nel design, i nuovi progetti non sono poi così nuovi, invenzioni dal nulla frutto di un genio creativo. Sono piuttosto esito di forme di bricolage operate su artefatti già esistenti che, con qualche modifica, ne risemantizzano l’uso inscrivendovi nuovi valori. Basti pensare a un oggetto come la moka che per far salire il caffè utilizza lo stesso meccanismo della lisciveuse, un’antenata della già citata lavatrice. Dagli acchiappavento persiani che catturano correnti d’aria fresche permettendo così di evitare la climatizzazione meccanica degli interni, che rende ancor più surriscaldate le città, sino ai blocchi residenziali a corte, già in uso nelle insulae romane, che garantiscono alta densità abitativa, privacy e spazi verdi. In Contro la città usa e getta abbondano i riferimenti a progetti e soluzioni del passato di cui l’autore sottolinea il valore ecologico, allora spesso impensato, e che, con i dovuti accorgimenti, possono farsi risposte utili alle sfide ambientali di oggi. Il volume così abbozza anche le direttrici principali per uno sviluppo sostenibile delle città, dove la pars destruens si intreccia continuamente alla pars costruens. La proposta dell’architetto è semplice quanto radicale: bisogna costruire meno e meglio, secondo il principio della durevolezza, e in maniera più compatta, secondo il principio della densità; non demolire ma convertire, trasformare e riutilizzare quanto più possibile materiali e componenti.

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Contro la città usa e getta è quindi un elogio alla parsimonia, quella dote che consiste nel dar valore alle piccole cose, evitando esagerazioni e sprechi. La parsimonia rientra in una più ampia costellazione di attitudini, comportamenti e passioni legati allo scambio dei beni (si vedano tra gli altri i due semiologi Algirdas Julien Greimas e Jacques Fontanille che in Semiotica delle passioni – Bompiani, 1996 – hanno riflettuto su questi argomenti). Essa si discosta dalle economie da lucignolo, impulsive e irresponsabili, tutte volte al consumo-abuso di ciò che si possiede, e ci riporta invece un uso oculato delle risorse. Da non confondere né con l’avarizia né con la spilorceria, entrambe passioni eccessive di chi ostacola la circolazione dei beni, la parsimonia è una virtù, moderata, più simile al risparmio e all’economia. Sia l’uno che l’altra non si oppongono allo scambio e tutto il loro valore riposa su un equilibrio dinamico: spendere sì, ma mai troppo.

In una società dedita al consumismo architettonico come quella delineata da Magnago Lampugnani il classico sistema di approvazione e disapprovazione collettiva dei comportamenti umani sembra rovesciarsi: non è più la misura a essere apprezzata ma l’eccesso. Torri in vetro, edifici coperti da display, enormi infrastrutture, città iper-estese, sono tutte costruzioni ecologicamente irresponsabili. Agli eccessi consumistici bisogna allora rispondere con un cambio di rotta, facendo della parsimonia – emerge tra le righe – il segno di una morale. I dettami su cui si fonda la cultura del costruire sostenibile che l’architetto auspica sono tutte forme diverse di quest’etica-estetica di cui Contro la città usa e getta è esplicito manifesto. Insomma, praticare la parsimonia, assumerla come principio, significa rompere con il modello standard della prassi del costruire e mettere in discussione i miti che lo caratterizzano. Primo fra tutti quello della sostenibilità a tutti i costi, di cui il consumismo architettonico si serve per i propri scopi con conseguenze spesso drammatiche per il pianeta. Ma anche quello dell’innovazione che sulla sostenibilità si poggia, favorendo il perpetuare della cultura dell’usa e getta.

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Da questo punto di vista, la posizione dell’architetto è molto simile a quella di Jérôme Denis e David Pontille che, nel loro Le soin des choses (si veda anche la recensione di Gianfranco Marrone qui), rintracciano nel progresso tecnico uno dei miti della società odierna. Rispetto al tema della durevolezza le posizioni appaiono invece, almeno a primo acchito, dissonanti. Per l’architetto si tratta di un valore perduto che bisogna riconquistare per un futuro sostenibile. Tutta la faccenda della conversione di quanto è edificato, a cui sono dedicate alcune pagine, ne è diretta conseguenza. Pratica diffusa da sempre e ormai consolidata, essa è possibile e proficua solo se gli edifici sono sfuggiti all’obsolescenza programmata e hanno la durevolezza dalla loro parte. Oggi che si presenta anche come fatto di moda (pensiamo a quante fabbriche, residenze, negozi o officine si trasformano in musei, pub, ristoranti, bnb, discoteche etc.), la rifunzionalizzazione deve essere operata pensando alle comunità e facendo continui piccoli interventi fino a quando la demolizione non risulta inevitabile. Attenti, dunque, a non farla ricadere entro il circuito consumistico, cambiandola di segno. Per Denis e Pontille, invece, la durevolezza è un altro mito da sfatare: tutti gli oggetti, comprese le infrastrutture, sono destinati al degrado materiale. E tuttavia il loro punto di vista converge con quello di Magnago Lampugnani quando dai problemi si passa alle soluzioni: la durabilità non è solo qualcosa da demistificare ma anche, tradotta in un far durare, uno dei modi in cui si esprime la cura per le cose. Ecco che i punti di contatto si moltiplicano. La manutenzione dei sociologi è come la parsimonia dell’architetto: un antidoto per resistere all’obsolescenza e rompere il ciclo dell’incessante sostituzione, un modo per prolungare la vita delle cose senza pretendere però di raggiungere l’eterno.

Inclinazioni, modi d’agire, disposizioni. La parsimonia e la manutenzione sono allora due facce della stessa medaglia, stendardi da tenere in alto nella lotta anticonsumistica. D’altra parte, come si sarà capito, quella di Magnago Lampugnani è una crociata contro il consumismo, sorta di aberrazione del consumo. Ingombrante e scatenato, il consumismo è il fratello eccentrico e caotico del consumo che non perde occasione per rimpinzarsi, ingordo com’è. Alla cena coi parenti mangia anche la nostra porzione ma senza gustare il piatto, riempiendosi la pancia fino alla nausea e rovinando così a tutti la serata. Esso, in altre parole, perturba lo scambio fino a far disperdere non solo il valore di quanto è consumato ma anche dell’atto stesso di consumo che perde senso e direzione diventando fine a sé stesso, inutile, addirittura rovinoso. Fermo restando che a essere desiderati, scambiati e consumati – sia nelle forme sane che in quelle bulimiche – non sono tanto i prodotti immessi nel mercato ma piuttosto i valori che essi incarnano per noi. Cosa consumiamo quando compriamo la famigerata lavatrice a risparmio energetico? Siamo sicuri che stiamo solo acquistando una scatola con pulsanti a led da cui magicamente escono fuori abiti puliti? Oppure stiamo anche comprando un’idea con cui identificarci, del tipo “io sono uno tecnologicamente all’avanguardia e che intanto sostiene il pianeta”? E questa idea da dove viene? 

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La lettura del libro, da questo punto di vista, sollecita anche una riflessione più ampia sulla relazione tra sfera del mercato e sfera sociale e sull’annosa questione, animatamente dibattuta, della presunta capacità dell’universo dei consumi di instillare falsi bisogni trasformando i cittadini in consumatori. Ma cosa è un bisogno e cosa no? Quali bisogni possono dirsi veri e quali falsi? Pendiamo il caso del mercato immobiliare le cui coordinate sono un po’ cambiate a seguito della pandemia. Prima balconi, terrazze e giardini erano considerati sì un valore aggiunto ma non essenziale (basta pure una finestra!). Oggi, invece, quasi nessuno si sognerebbe di acquistare una casa senza uno spazio esterno. Si tratta di un bisogno fisiologico che non sapevamo di avere o di un desiderio indotto da circostanze straordinarie? E quanto c’entra la natura che sta nella lavatrice eco-friendly, la stessa che è al centro delle soluzioni progettuali passate al vaglio in Contro la città usa e getta? L’autore mostra come l’idea di case e città sostenibili accompagni tutta la storia dell’architettura. Ma mai come ora la sostenibilità è diventata un ideale collettivo e la natura un valore verso cui tendere con smodato entusiasmo. Necessario e futile si scambiano continuamente le parti. Allora, più che chiedersi se anelare il balconcino o la lavatrice sia artificiale e indotto o, al contrario, naturale e atavico (qualsiasi cosa vogliano dire questi termini), bisognerebbe domandarsi a quali condizioni, simboliche prima ancora che materiali, qualcosa come un rettangolo sporgente all’edificio o un cubo dal display luminoso da superficiale diventi impellente.

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