La Milano di Biondillo: architetti e fascismo
Gianni Biondillo, noto alle cronache come un elegante e sanguigno giallista, con cadenza regolare ha bisogno di tornare all’architettura. Sarà che è laureato in questa disciplina; sarà che guarda il mondo attraverso gli strumenti con cui è stato educato a decifrare lo spazio; sarà che ama questo universo di case e cose e storie in maniera assoluta. Gianni Biondillo, oltre all’architettura, ha un legame fortissimo con Milano; città che ha accolto la sua famiglia migrante, in cui abita e in cui torna, ogni volta che scrive, nei suoi romanzi criminali così come quando affronta la sua amata disciplina, tranne per poche eccezioni come i suoi primi lavori giovanili dedicati a Giovanni Michelucci e Pier Paolo Pasolini, recentemente ristampato.
Ma quello che rende interessante il suo continuo rendez-vous sentimentale con la storia recente dell’architettura milanese e italiana è il tentativo di portare la qualità scientifica della disciplina e la chiarezza delle fonti documentarie all’interno di un meccanismo narrativo romanzesco in cui la relazione tra reale e verosimile si assottiglia necessariamente.
Esiste una lunga tradizione di narrativa storica nel mondo anglosassone come in Italia, non ultima la trilogia M di Scurati, in cui fin troppi storici e addetti ai lavori si sono perduti nell’esercizio del “pelo nell’uovo”, a cercare errori e incongruenze, quando la potenza della narrazione e della commedia umana che lo scrittore italiano ci offriva era decisamente superiore a ogni potenziale errore.
Un percorso simile è stato seguito da Gianni Biondillo che nel romanzo Quello che noi non siamo, recentemente pubblicato da Guanda, ha cercato di raccontare la generazione di quegli architetti modernisti che tra gli anni Venti e la fine della Seconda Guerra Mondiale hanno trasformato Milano e Como in uno dei laboratori di modernità più avanzati e problematici dell’Europa delle avanguardie.
Un percorso complesso, perché Biondillo non ha affrontato un solo autore come era stato per Come sugli alberi le foglie, il bel lavoro dedicato alla vita brevissima e intensa di Antonio Sant’Elia, architetto visionario e futurista morto prematuramente durante la Prima Guerra Mondiale e in cui la città di Milano e la sua storia sociale artistica emergevano con forza. In questo caso le vite e le storie si moltiplicano, mettendo insieme Piero e Maria Bottoni, Ernesto Rogers, Lodovico Barbiano di Belgioioso ed Enrico Peressuti, ovvero lo studio BBPR, Giuseppe Pagano, Edoardo Persico, Giuseppe Terragni, Figini e Pollini, Franco Albini, Ignazio Gardella, Raffaello Giolli, Marco Zanuso, insieme a tutto quel mondo di giovani artisti, intellettuali e architetti che guardarono al Movimento Moderno come a un modo di riformare il mondo e di cambiarlo dalle sue fondamenta.
Lo sforzo dell’autore è immane, lo dimostrano le 480 pagine del libro ma soprattutto lo fa intendere il grande sforzo di ricerca e ricostruzione storica che Biondillo ha portato avanti in questi anni raccogliendo materiali, intervistando storici e parenti, analizzando le opere e le sue memorie ancora vive come carne nella città che attraversiamo quotidianamente.
Credo però che le ricerche e la chiarezza delle fonti sono stati il substrato, l’humus, su cui l’autore ha deciso di costruire una narrazione in cui dare voce e corpo a questa generazione di donne e uomini che ha pagato di persona una presa di campo e si è confrontata drammaticamente con l’ambiguità di un tempo che percorre il Fascismo nella sua maturità politica e sociale, le Leggi Razziali, l’ingresso nella Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza e le scelte a cui ha obbligato ognuno di loro.
E’ molto importante ricordare che cosa sono e da dove vengono tutti questi giovani, figli e figlie della buona borghesia urbana con poche eccezioni, cresciuti in una fase storica in cui avere vent’anni nel 1925 voleva dire essere “naturaliter fascista”, come Montale definì con grande chiarezza questa generazione, ovvero essere parte di un tempo in cui era molto difficile fare scelte “contro” ed era seducente seguire un regime che ha potentemente investito sull’architettura e l’arte moderna, vista come strumento della rivoluzione sociale e politica voluta da Benito Mussolini.
L’Italia fascista, almeno fino al 1935, periodo decisivo di svolta simbolica e politica, celebra e promuove l’architettura razionalista come strumento per affermare la modernità della Rivoluzione Fascista. Non dimentichiamoci che, a parte una esigua minoranza di coraggiosi che hanno pagato le proprie idee politiche con la vita, l’esilio e il confino, la maggior parte degli italiani gonfiava le piazze in camicia nera e divise da balilla e piccole italiane (camicie scomparse magicamente la sera dell’8 settembre 1945 o del 25 aprile 1945). Non dimentichiamo che l’Italia fascista era guardata con ammirazione da americani e inglesi, oltre ad essere studiata avidamente dal vicino nazista.
Che giovane proveniente dal Politecnico di Milano e pronto a seguire la fede del Razionalismo non avrebbe abbracciato con cinico entusiasmo un governo che faceva costruire nello stile della modernità case del fascio, palestre, garage, stadi, arene per lo sport, musei, università, residenze, scuole, fabbriche, stazioni ferroviarie, ospedali e tutto quello che poteva dare forma alla nascita di uno Stato moderno ed evoluto?
Dei giovani talenti di cui Biondillo ci parla, tutti erano iscritti al Sindacato Fascista Architetti grazie a cui si poteva lavorare per i grandi appalti pubblici sparsi in tutta Italia e molti avevano la tessera del PnF.
Era una condizione di normalità diffusa con un’apparenza che nascondeva un senso di critica espressa in privato, che emergeva verso le forme più reazionarie e retrograde del Regime, ma che non è veramente esplosa fino all’abbraccio mortale con il Nazismo, la crescente retorica del culto imperiale italico, le Leggi Razziali e la definitiva entrata in guerra nel 1939.
Solo in quegli anni emerge la necessità di scegliere e di prendere una posizione chiara, ineluttabile, che comportò sacrifici e molto dolore.
Durante la prima parte degli anni Trenta il territorio tra Milano e Como è sicuramente il laboratorio più evoluto e diffuso per le sperimentazioni del nascente movimento razionalista italiano grazie a una serie di elementi fondamentali: la lontananza relativa dalla capitale, la forza di un’economia industriale moderna espansiva, la maturità di una borghesia urbana che si faceva essa stessa committente, la presenza di università giovani e il sentimento di essere il centro emergente di una economia diversa che trasformerà Milano nella vera capitale finanziaria del Paese. La forza del territorio e la pressione propulsiva del tempo nuovo si rappresentavano nella nascita del Futurismo, nella Rinascente, nella fondazione delle due più importanti riviste moderne come Domus e Casabella e nelle diverse edizioni della Triennale che, dal 1933, diventa l’appuntamento obbligato con il futuro, i lavori delle nuove generazioni di progettisti milanesi e le relazioni attive con gli attori culturali decisivi delle avanguardie europee.
Milano è il luogo in cui crescere e diventare gli architetti della modernità. In questa città regime ed economia vanno a braccetto con discrezione e l’architettura razionalista trova accoglienza e ascolto come in nessuna altra parte del Paese, senza l’opposizione dei Farinacci e dei detrattori della modernità presenti nel partito unico e nei suoi quotidiani.
Quello che Biondillo esprime con grande forza espressiva è l’entusiasmo giovanile, irresistibile e intransigente di una generazione di progettisti che guarda all’architettura moderna e ai suoi eroi, come la Bauhaus, Le Corbusier e i Ciam, cercando di dare forma fisica alla modernità. Oggi tutto questo appare scontato, ma all’inizio del secolo scorso questa sfida ha coinvolto almeno due generazioni di autori e autrici, chiamati a individuare linguaggi e spazi adatti a nuove necessità funzionali, economiche e sociali per un mondo che stava rapidamente cambiando.
Tutto questo prenderà forma stabilizzata solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e il boom economico, ma negli anni Venti e Trenta i giovani razionalisti affermavano le proprie ragioni etiche ed estetiche di fianco al Novecentismo di Muzio, al modernismo elegante e timido di Giò Ponti, al pragmatismo eclettico di Piero Portaluppi, alla modernità classicista di Marcello Piacentini, alla Metafisica di De Chirico o all’Astrattismo esposto alla galleria del Milione di Milano.
Tutte queste esperienze si confrontavano con lo stesso tema e cercavano soluzioni e strumenti per affermare la propria strada in un contesto vitale, carico di stimoli e provocazioni culturali, parzialmente contenute in pubblico dal Regime. Quello che distingue l’azione di questo gruppo di giovani autori e che Biondillo ci offre con intelligenza, è la dimensione fortemente etica, che si avvicina a una forma di religiosità laica e che diventa espressione estetica e tecnica attraverso il progetto e gli scritti. Una condizione morale che obbligherà questi giovani a fare delle scelte politiche chiare e pericolose nel momento in cui il Regime mostra la deriva sempre più conservatrice e reazionaria che porta alla fase più cupa e disperante nella storia recente del nostro Paese.
A quel punto non si poteva tacere, né continuare con gli utili compromessi. Quelli che partirono per la guerra tornarono prima del 1943 segnati nella mente e nel corpo, al punto di morirne come fu per Giuseppe Terragni. Chi tornò dal fronte cominciò subito a lavorare per la Resistenza in una città tradita e abbandonata dall’armistizio pecoreccio dell’8 settembre del 1943. Chi era troppo giovane per essere chiamato alla leva si schierò immediatamente come per De Carlo e Giolli. Chi era vittima delle Leggi Razziali come Rogers dovette fuggire in Svizzera per evitare di essere internato come avvenne, invece, per suo padre. Chi credeva nella forza rivoluzionaria e propulsiva del Fascismo, come Giuseppe Pagano, si sentì tradito ed entrò nella Resistenza.
La seconda parte del libro, concentrata sugli anni della guerra e sul periodo che va da settembre 1943 alla fine del conflitto, è il più intenso, duro e doloroso da leggere, per la drammaticità delle situazioni raccontate, la chiarezza delle scelte prese, la ferocia e la disumanità sorda dei carnefici.
In questa parte il narratore emerge con maggiore forza e sostanza accompagnandoci tra le tanti giovani donne e uomini incarcerati a San Vittore e poi distribuiti nei campi di concentramento europei, le sevizie della Banda Koch e la violenza politica della Repubblica di Salò, la resistenza urbana di migliaia di operai e operaie, del Fronte della Sinistra, Democristiano e del Partito d’Azione, la guerra che non sembra finire mai, i bombardamenti ma anche le discussioni culturali, le letture e i sogni per la ricostruzione, i progetti e le opere fatte malgrado tutto, malgrado la barbarie in casa e alle porte. Il sogno della modernità e il culto della cultura moderna nutrono ognuno di loro nelle ore più buie ed è una bussola che orienta le scelte e le azioni a dimostrare una coerenza interiore che colpisce e ammira.
La guerra produsse le sue vittime anche nell’architettura moderna milanese con la morte di Pagano e dei giovani Giolli e Banfi nella fase finale del conflitto, oltre ad aver segnato irrimediabilmente tutti coloro che sopravvissero, rendendoli responsabili morali e materiali della ricostruzione post-bellica del Paese.
A questo punto ci dobbiamo confrontare inevitabilmente con il titolo del libro, perché Quello che noi non siamo non è, unicamente, la chiara decisione di una generazione di architetti e intellettuali di prendere posizione contro il fascismo e quei versanti retrogradi e reazionari della nostra cultura al punto di perdere la vita o di metterla gravemente in pericolo, ma è anche una sottile provocazione a noi tutti, oggi.
La cultura architettonica italiana oggi sembra vivere una distanza agnostica dal mondo e dai suoi problemi, pensando di lavarsi la coscienza con una spolverata di verde e parole chiave consumate dalla retorica del marketing, mentre le questioni di equità sociale, le battaglie sui diritti essenziali e di una qualità diffusa degli ambienti che abitiamo e troppo spesso subiamo, dovrebbe stimolare tutti noi a una presa di posizione e a guardare al progetto come un reagente politico e poetico alla realtà che abitiamo e in cui siamo chiamati a intervenire.
Nessuno di noi guarda al Movimento Moderno come a una fede salvifica. I suoi limiti culturali e simbolici li abbiamo conosciuti e superati negli ultimi decenni. Ma ridurre l’architettura a un semplice “problem solving”, svuotandola della sua dimensione e responsabilità civile ed etica è una deriva pericolosa che non possiamo permetterci.
Quindi: cosa vogliamo essere noi, oggi?