Interni milanesi

12 Gennaio 2024

“La stanza è un mondo” suggeriva Gio Ponti, architetto, designer, intellettuale e creatore instancabile del ‘900 italiano. Ma soprattutto la stanza è l’alfa e l’omega di ogni casa che può essere composta da una o cento stanze, una dentro l’altra, montate in sequenza lineare o labirintica.

Ogni stanza può diventare un mondo perché raccoglie manufatti, ricordi, oggetti, mobilia, luce, materia, colore, misure e tempi differenti che si sono raccolti grazie a noi e alla nostra vita con un processo di scelta, selezione, distruzione e rinascita che non termina mai.

Ogni stanza e ogni appartamento che le raccoglie sono il prodotto instancabile di progettisti, artigiani, imprese, industrie di materiali e mobilia che si susseguono nel tempo e che sono cresciuti a dismisura man mano che le città diventavano metropoli tanto che il secolo appena passato diventa il primo in cui dal 3% si è passati in soli cento anni a vedere almeno la metà della popolazione mondiale vivere insieme in conurbazioni urbane dalla dimensione variabile. Il ‘900 passerà alla storia come il secolo delle metropoli e della casa per tutti, tanto è stato potente il desiderio di una massa d’individui di abitare modernamente e in maniera civilizzata, portando le nostre città a crescere di otto, nove volte la superficie originaria in pochi decenni.

Il ‘900 sarà ricordato come il secolo dell’edilizia di massa, delle ville per molti e delle decine di migliaia di appartamenti per quella borghesia urbana che ha occupato il cuore delle nuove metropoli, stabilendo il gusto, lo stile di vita, i riti che hanno poi condizionato il mercato, la produzione di beni di massa, le riviste che leggiamo, il cinema, la letteratura e l’immaginario simbolico in cui siamo ancora immersi.

Per questo le ricerche e gli studi dedicati all’architettura d’interni del nostro ‘900 sono così interessanti, perché colgono il cuore di quella rivoluzione urbana che ha coinvolto milioni di persone e i loro desideri, dando forma all’idea di città occidentale che ha conformato il nostro sguardo e il mercato di beni, manufatti e idee che ci definisce.

Da tempo affermo che potremmo fare una storia dell’architettura solo attraverso l’analisi degli interni domestici perché la città borghese celebra la privacy come suo elemento di maggiore distinzione, in cui la casa privata è separata dalla strada e dalla vita di comunità, centro dell’ideale di famiglia nucleare e moderna che ha rappresentato il fulcro della cultura borghese moderata e gli ambienti che ha plasmato.

Casa borghese e modernità sono i due elementi che si abbracciano in maniera assoluta a partire dall’Ottocento per poi diventare fenomeno diffuso, di massa a livello globale nel Novecento, dove tutte le premesse sull’urbanistica moderna, la relazione tra salute e spazio abitato, la forma e la misura della casa, l’idea di ergonomia applicata a un corpo assoluto, gli oggetti del comfort e della conservazione raggiungono un grado di maturazione adeguato per diventare la base di un mercato delle merci e delle idee che definisce la forma abitata della metropoli moderna con tutta una serie di declinazioni legate al contesto e alla società di appartenenza.

Se guardiamo all’Italia, Milano è sicuramente il principale laboratorio che per densità, ricchezza e numeriche può essere considerato il principale laboratorio della modernità domestica del ‘900 per larghezza degli interventi, centralità delle industrie e dei mezzi di comunicazione al punto da diventare il modello di riferimento per tutto un Paese che guardava alla modernizzazione come a uno strumento di redenzione sociale ed economica.

Milano è la capitale economica italiana della modernità; Milano lancia la Rinascente come il magazzino moderno ed elegante per eccellenza; Milano apre con la Triennale la prima, vera, fiera e luogo dedicato all’industria e al gusto moderno legando industria e generazioni di progettisti; Milano nel 1928 accoglie la nascita di Domus e Casabella, le uniche due riviste dedicate al gusto e allo stile moderno per la casa e l’architettura in Italia; Milano vuole dire il Politecnico e la Bocconi, due università pensate per formare la nuova classe dirigente del Paese; Milano ha intorno a sé il territorio metropolitano produttivo e la Brianza che accolgono le prime, vere, industrie che innovano sui materiali e producono gli oggetti e i beni che rappresentano un’idea di modernità in linea con le tendenze europee.

Queste sono le premesse necessarie per comprendere appieno un lavoro di ricerca come Nelle case. Interni milanesi 1928-1978, curato e scritto da Enrico Morteo e Orsina Simona Pierini per la Hoepli, una quasi enciclopedia dell’architettura d’interni del capoluogo lombardo lungo cinquant’anni centrali per l’affermazione definitiva di un’idea di modernità che diventa rappresentazione del gusto di una classe borghese urbana che si fa cuore discreto nella costruzione del nostro immaginario domestico di modernità all’italiana.

Lo studio è importante, non solo per le 700 pagine che compongono il volume, ma per la mole di ricerche, disegni, immagini fotografiche e testi che cercano generosamente di offrirci un quadro più ampio possibile di quell’incredibile laboratorio progettuale e di gusto che è stata la Milano borghese tra il fascismo, la ricostruzione, il boom economico e il travaglio degli anni Sessanta e Settanta.

I confini cronologici sono molto chiari perché partono con l’affermarsi di un gusto borghese moderno nelle sue varie declinazioni che incontra una borghesia medio-alta che cerca nelle ricerche di almeno quattro generazioni di architetti la messa in forma di un gusto che si fa abitazione privata e, insieme, luogo di rappresentazione di uno status sociale preciso.

Il viaggio termina con la fine della modernità e l’avvento di quella post-modernità, vera “diaspora d’idee” che apre una fase nuova dell’interno italiano a partire dagli anni Ottanta.

Il confine è anche nella classe sociale di riferimento, ovvero la borghesia medio-alta urbana e i progettisti che appartengono allo stesso mondo con cui dialogano. Dimenticate gli interni piccolo borghesi e operai, su cui sarebbero necessarie altre ricerche e dai risultati sicuramente meno seducenti. Gli interni raccontati con intelligenza e qualità scientifica dai due autori ritrovano molto del loro immaginario visivo dalle stesse riviste che li pubblicavano come Domus, Casabella e poi Abitare con il potere mediatico di rendere il gusto delle abitazioni milanesi un potenziale gusto nazionale per una modernità all’italiana.

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La casa è un luogo perfetto per raccogliere le istanze di ricerca e sperimentazione sugli spazi, i materiali e i riti dell’abitare moderno per una serie di generazioni di architetti che ha nel progetto domestico una delle fonti principali di reddito e, insieme, potenziale espressione in accordo a una borghesia che rinnova le richieste e i desideri lungo i decenni che passano.

Il libro è organizzato seguendo la sequenza dei decenni oltre che una serie di temi che si fanno più densi per quantità e risultati formali nel secondo dopo-guerra quando Milano è il cuore del boom economico del Paese e la ricchezza tende a concentrarsi soprattutto in questa città e nella sua classe dirigente. Ogni sezione ha un capitolo tematico introduttivo, intitolato “case teoriche”, che amplia, necessariamente, il quadro portandoci a incontrare il mondo della Triennale di Milano, le sue riviste di riferimento, il mondo delle gallerie d’arte, l’affermazione del mercato del nuovo disegno industriale e delle sue industrie, la dimensione eretica e radicale che si fa sempre più globalizzata. 

Si tratta di saggi in cui si alternano Morteo e Pierini grazie a un approccio e sensibilità differenti ma che si fondono bene nella struttura del libro, quindi ogni sezione cronologica e tematica presenta una breve intro che si diluisce nel racconto di ogni singolo appartamento attraverso un sistema di ampie didascalie che fanno da contrappunto alla pianta ridisegnata, a molte fotografie d’archivio e ad alcune immagini attuali, se l’appartamento è sopravvissuto. Lo sforzo è importante e unico perché definisce l’evoluzione del gusto di una classe sociale all’interno di una città centrale nel processo di modernizzazione italiana definendo anche quei caratteri di diversità e unicità rispetto al panorama europeo.

La nostra cultura architettonica, anche per una forma di ritardo industriale e culturale rispetto alle ricerche in corso nel continente, rifiuta immediatamente l’idea dell’abitazione come “macchina per abitare” teorizzata da Le Corbusier negli anni Venti e centrale nelle sperimentazioni delle avanguardie in Francia, Germania, Olanda e nei paesi del Nord, mentre cerca di dare forma a un’idea di modernità in cui storia, tradizione e innovazione possano collaborare insieme. Non c’è nulla di nostalgico in questa traiettoria ma dobbiamo considerare che da subito l’idea di modernità in Italia cerca di rileggere la storia e i suoi elementi come un elemento propulsore e inventivo che metta insieme progetto, artigianato e arte, con il risultato di una modernità anomala, diversa, unica rispetto al panorama europeo.

In questo il ruolo propulsore di Gio Ponti è centrale, per la sua Domus, gli articoli sul Corriere della Sera, la sua creatività poliedrica che porta la discussione pubblica sul tema del gusto piuttosto che sulla macchina, sulla sorpresa e lo spiazzamento spaziale piuttosto che sulla griglia funzionale, sul progetto come forma narrativa e d’interpretazione piuttosto che su di un tono assiomatico proprio della cultura delle avanguardie europee più radicali. 

Insieme alla presenza del direttore di Domus e dei suoi coetanei più talentuosi come Portaluppi, Lancia e Muzio, si affianca una nuova generazione di autori che segnerà i decenni a seguire con una idea di modernità più chiara e aggiornata come i BBPR, Franco Albini, Ignazio Gardella, Figini e Pollini, Agnoldomenico Pica, Lina Bo, Carlo Pagani e il giovanissimo Luigi Caccia Dominioni che durante gli anni Trenta insistono in una cifra stilistica che combina astrattismo, attenzione ai nuovi materiali, una relazione sofisticata con il passato e una certa libertà spaziale degli ambienti più pubblici che delinea un carattere originale dell’architettura d’interni milanese.

Colpiscono soprattutto le case degli architetti per se stessi e le proprie famiglie in cui le mediazioni si assottigliano lasciando spazio a una sperimentazione più spinta come avviene per la casa di Gianluigi Banfi, la casa Gardella e soprattutto per i tre progetti di abitazione di Albini tra il 1937 e il 1940 dove la spinta alla leggerezza e all’astrazione degli ambienti domestici si combina alle ricerche sull’abitazione razionale che lo stesso autore porta in Triennale negli stessi anni. Superata la fase della prima ricostruzione e delle ristrettezze legate ai materiali e ai costi di costruzione si entra rapidamente in una fase dorata di progetti e interventi domestici che fanno del periodo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta uno dei momenti di maggiore ricchezza e qualità progettuale espressa a Milano. La dimensione individuale dell’idea di modernità si afferma definitivamente e nel progetto d’interni i progettisti esprimono una libertà creativa e compositiva che difficilmente possono tenere nei progetti edilizi che contemporaneamente realizzano in città.

La decorazione emerge come tema con grande forza, combinandosi alla ricerca di artisti come Lucio Fontana, Fausto Melotti, Marino Marini, Fornasetti e Somaini che collaborano continuamente con i progettisti, rendendo il tema della ricchezza linguistica degli spazi domestici ancora più densa e stratificata. In questa nuova fase emerge progressivamente una nuova generazione di autori in cui il senso di appartenenza alla cultura del Movimento Moderno si fa più problematica, critica e ambigua come si può vedere nei primi lavori di Ettore Sottsass Jr e Vittoriano Viganò, i due campioni di un cambiamento che emerge nel progetto domestico e che puntano a una progressiva destrutturazione degli spazi comuni, mentre Vico Magistretti, Vito Latis, Anna Castelli Ferrieri e Roberto Menghi lavorano per sottigliezza su di una continuità del progetto moderno che cerca un equilibrio elegante tra fluidità degli spazi, compresenza tra nuovo e antico e un utilizzo sobrio e sofisticato dei materiali. In questa fase emerge con forza la presenza di Luigi Caccia Dominioni che diventerà progressivamente l’autore più amato dall’alta borghesia milanese grazie al progetto d’interni sempre più organici e fluidi, in cui tagli e sezioni permettono un dialogo continuo tra gli spazi della casa e l’ambiente esterno grazie a un lavoro sui dettagli e gli infissi che non ha pari in quel momento.

Dimenticate l’emergere degli elettrodomestici tanto presente nell’immaginario della casa americana del dopo-guerra perché la scuola milanese guarda più al Nord Europa, per eleganza formale e il calore dei materiali; la casa non è macchina e il cuore dell’abitazione è sempre più il soggiorno che comincia a inglobare le cucine e a mangiare metri quadri al resto dell’abitazione. Il mondo intimo delle camere da letto e dei bagni si dissolve e non è quasi documentato, seguendo quel senso di discrezione borghese che separa rigidamente la parte pubblica da quella privata della casa.

Mentre la relazione con l’arte si fa sempre più pervasiva e potente nei risultati formali grazie a una fusione tra opere, disegno dello spazio e colori che punta a un’astrazione che dissolve ogni esigenza apparentemente funzionale in nome di una definizione di forme e ritualità connesse che ben descrive il mondo alto borghese milanese di questo periodo aureo dell’economia della città. Gli interni di Viganò, Sottsass e delle giovani Gae Aulenti e Nanda Vigo si fanno sempre più estremi, quasi allestimenti temporanei per abitazioni private in cui sperimentare modi di vita metropolitani e globalizzati. La Zero House, la Casa Nera e la Casa Blu della Vigo, come la casa per collezionista di Gae Aulenti, la casa per se stesso di Ugo La Pietra, la casa per scapolo di Cini Boeri e i primi interni disegnati da Joe Colombo stabiliscono uno scarto culturale e generazionale radicale che esplode tra gli anni Sessanta e Settanta in cui la casa stessa si fa opera d’arte e il progetto riflette in maniera critica sui modi dell’abitare il modello di abitazione che non era mai cambiato nella tipologia borghese dalla metà dell’Ottocento.

La casa continua a essere lo specchio attraverso cui leggere una classe sociale, le sue ossessioni, i gusti e i riti e questa pubblicazione ha il potere di accompagnarci in un tunnel coerente in cui tutto questo si esemplifica attraverso le immagini e la selezione dei progetti, come se la città reale, quella fatta di palazzi, strade e piazze non sia mai esistita, definendo un curioso corto-circuito tra quello che vive dentro le case e il mondo che scorre al di fuori di essere. È il mondo della borghesia, che con gli anni Ottanta entra progressivamente in crisi così come l’idea stessa di privacy dileguando la capacità seducente e sottilmente ambigua di un mondo d’interni capaci di essere immaginati come laboratori in cui trasfigurare l’idea di modernità portando la sua essenza alle estreme conseguenze.

La scena attuale, purtroppo, non sembra offrirci questa eleganza sottile in nome di un appiattimento globalizzato da rivista di life-style che ha annullato i luoghi e che rappresenta una borghesia evanescente in forte crisi d’identità. Ma questo riguarda un prossimo, eventuale, volume che ci piacerebbe leggere in futuro.

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