Italo Rota, il Peter Pan dell'architettura

9 Aprile 2024

Ogni volta che mi trovo di fronte alla scomparsa di una persona conosciuta sono ossessionato dall’idea che un archivio, denso, ricco e labirintico, sia improvvisamente scomparso e che solo gli affetti, i ricordi, le azioni e le opere rimaste possano aiutarci a trattenere un lampo di quella inarrivabile complessità.

In questi mesi in cui progrediva la dolorosa malattia che ha portato via Italo Rota, architetto milanese e uno degli intellettuali del progetto più fecondi che io abbia incontrato, l’immagine dell’archivio che rischiava di svanire tornava alla mia mente e si sovrapponeva alle decine di collezioni, raccolte e archivi che Italo aveva accumulato e raccolto con religiosità ossessiva lungo la sua esistenza.

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Molti creativi coltivano questa necessità, ovvero quella dell’accumulo seriale di oggetti, pezzi d’arte, libri o monili di provenienza inattesa. Credo sia legato al bisogno di costruire mondi e di farsi nutrire dall’inatteso, oltre che da una necessità primordiale, quasi infantile, che ha a che fare con il gioco, il possesso e un piccolo paradiso domestico, segreto, da proteggere con puntiglio.

Ma nel caso di Italo Rota il confine era molto più profondo e il labirinto di materie che si componeva e disfaceva continuamente aveva un orizzonte complesso, che ha avuto il pregio di lasciare una raccolta di immenso valore culturale e simbolico.

Il suo ultimo libro, I am a museum, pubblicato recentemente da Forma, è una sorta di straordinario testamento intellettuale perché documenta uno dei lavori che per energie, tempo e qualità meglio caratterizza il suo lavoro, ovvero il rifacimento dei Musei Civici di Reggio Emilia, che l’autore milanese ha seguito dal 2010 fino a pochi mesi fa grazie alla complicità di Massimo Magnani per il Comune della città, di Elisabetta Farioli per il museo, oltre al supporto di Francesca Grassi, la sua più preziosa collaboratrice. In meno di 15 anni Rota ha indagato, scavato e ribaltato quel luogo incredibile, frutto dell’accumulo di decine di collezioni diverse che partono con il fondo zoologico e anatomico di Lazzaro Spallanzani, attraversando l’archeologia, l’arte contemporanea, le culture contadine e tutto quello che potete immaginare per un tradizionale museo di comunità vasta. 

In quel luogo Rota ha trovato il suo alter-ego pubblico; un collezionista seriale che deve ordinare un palazzo di collezioni collettive e il risultato finale è un museo, bellissimo, che potete visitare e un libro prezioso da leggere con attenzione. Il lavoro progettuale ha interpretato l’anima comunitaria della città, con decine di piccole mostre che lungo il tempo hanno ricostruito l’attenzione del pubblico e il suo sguardo su qualcosa che sembrava diventato invisibile. 

Non un semplice museo e il suo progetto, ma il progetto per la ricostruzione della meraviglia negli occhi di tutti. Ecco perché tutti noi siamo musei e dovremmo coltivare la curiosità infantile e pura della scoperta che porta a riprogettare il mondo. 

Dall’avventura Reggiana torniamo lentamente indietro, guardando al suo mondo di progetti, teorie e narrazioni che s’intrecciano inesorabilmente con la sua vocazione alla collezione.

Molti dei suoi progetti e delle ossessioni da raccoglitore seriale che lo hanno accompagnato lungo la vita sono infatti premonizioni di una condizione e di fenomeni che in seguito sarebbero esplosi, diventando poi una moda che Rota aveva nel frattempo assimilato e ampiamente superato. 

Questa condizione consegna l’autore a un senso di solitudine propria degli oracoli che necessita della vicinanza di persone altrettanto anomale e coraggiose, come sono stati molti dei committenti di Rota e la fondamentale presenza di Margherita Palli, compagna di una vita e silenziosa partner in crime delle avventure più estreme abitate dall’architetto milanese.

Quando nessuno le riconosceva, Italo Rota acquistava memorabilia e tute da astronauta nell’URSS che si stava sgretolando, ma anche riviste, libri e manifesti costruttivisti, magazine e materiali radical inglesi, giapponesi, italiani e austriaci, prodotti delle avanguardia storiche (tutte), oltre che una infinità di libri e materiali grafici da tutto quello che ha nutrito un’idea eretica e complessa di modernità nel mondo lungo tutto il 900’, fino ad arrivare alle centinaia di sorprese da ovetti Kinder e altre meraviglie da wunderkammer contemporanea.

La divorante tensione all’accumulo lo portava ad ascoltare e ammirare la rovina potente del secolo appena passato con gli occhi innamorati del Piccolo Principe e la sua casa si popolava per flussi alternati di questi oggetti, dei libri curati con competenza e amore, delle riviste e dei poster più inattesi provenienti da ogni possibile forma di avanguardia e controcultura che arricchiva l’immagine di un secolo tutt’altro che conforme e superiore a tutte le narrazioni fatte fino a questo momento.

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Un anno fa, circa, una piccola mostra di alcuni materiali tra i più preziosi della collezione di Italo Rota era stata esposta al Museo dell’ADI con la cura affettuosa di Aldo Colonetti e la vista lungo quei tavoli dimostrava immediatamente della nostra ignoranza di fronte a un tempo ricchissimo, contraddittorio e potente nel costruire, divorare e far rinascere immaginari multipli che ci rappresentano. 

In queste raccolte c’era tutto Italo Rota, nelle selezioni spiazzanti e nelle occasioni di dialoghi possibili che potevano nascere dal confronto con queste materie vive, nella capacità di affiancare forme, immagini e suggestioni pronte a essere cannibalizzate e rilanciate nel mondo con misure e spazi completamente originali, ma figlie un percorso costruito su solide basi.

Italo Rota nascondeva con la sua esuberanza da Peter Pan una competenza e una conoscenza importante, sedimentata sullo studio silenzioso e il dialogo costante con decine di persone figlie di mondi e discipline differenti. Ogni volta il confronto con lui si muoveva sul filo sottile e tagliente del paradossale e del verosimile; le verità, le conoscenze e le realtà si mescolavano nelle conversazioni, producevano figure e progetti perché si proiettavano spesso in un poter fare che era premessa per ogni discorso. Non c’era mai gratuità nell’incontro con Rota, ma una forma di leggerezza pesantissima che chiedeva un suo ordine interiore, una gerarchia pronta a essere subito tradita, una disciplina che smentiva le maschere che provocatoriamente vestiva per tenere chiunque al di fuori della propria comfort zone e chiedere il massimo della qualità e della originalità di pensiero agli astanti.

Il mondo intellettuale di Italo Rota e la sua formazione sono l’immagine di una spugna che si è nutrita del mondo e di ogni occasione di confronto: figlio del 1953, cresciuto al Politecnico di Milano e poi una prima tappa, preziosa, da Franco Albini, passando rapidamente per Vittorio Gregotti, la Lotus di Pierluigi Nicolin, la Parigi della Gare d’Orsay con Gae Aulenti, oltre che dieci anni di permanenza nella capitale francese con alcuni allestimenti originalissimi.

Poi Milano, la città dove sempre ritornava e in cui proteggeva la casa-archivio e lo studio. 

In questo contesto un po' assonnato e dominato dall’ortogonalità politica e progettuale della Casabella di Vittorio Gregotti e da una cultura politecnica legata agli insegnamenti ortodossi dei figli della Casabella-continuità di Rogers, Rota rappresenta una vera anomalia concettuale e professionale. Facilmente etichettato come architetto post-moderno ma invece autore inquieto, curioso e trasversale per attitudine e gusto, le sue occasioni d’espressione emergono da alcuni interventi solo apparentemente laterali ma capaci d’incidere sul nostro immaginario. 

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Kuwait Pavilion expo Milano 2015.

Le tante mostre allestite, e silenziosamente curate, alla Triennale di Milano lungo più di trent’anni, tra cui basta ricordare la maestosa (per dimensione e budget) “Arts & Food. Rituali dal 1851” allestita per Germano Celant in occasione dell’Expo del 2015 e il suo allestimento ultimo, per una mostra dedicata all’Arte figurativa Italiana contemporanea con un intervento secco ed elegante. L’assessorato di stampo surrealista sotto la giunta Formentini (ogni volta sorrido all’idea) con l’invito a Luigi Ontani di produrre il suo Grillo Mediolanum, una sorta di nano eccentrico in cui tutte le ossessioni milanesi si componevano fisicamente, oggetto che fece arrabbiare molti e lo portò a una rapida dimissione. Le collaborazioni per il mondo della moda grazie al confronto con Cavalli tra la sua showroom e il JustCavalli alla base della Torre Branca, una icona paradossale della Milano da bere anni Novanta. L’insegnamento e il lavoro con Naba come direttore scientifico, con l’idea di cambiare il modello didattico e costruire un vero laboratorio in cui saperi diversi potessero convivere e collidere. Infine, il Museo del Novecento dove il percorso di Italo Rota vive uno dei momenti di massima visibilità a Milano, grazie alla vittoria del concorso internazionale e la possibilità d’incidere su uno dei monumenti più importanti e meno considerati nel cuore della città. 

Il progetto s’insedia come un bruco nel cuore del frutto ormai maturo, sfigurato da decenni d’incuria e abbandono, grazie a una linea sinusoidale che lo attraversa verticalmente, generando una passeggiata che mette in scena compressa una lunga serie di capolavori che partivano provocatoriamente dal Terzo Stato di Pelizza da Volpedo, piazzato vicino al mezzanino delle Metropolitana perché chiunque vedesse come invito all’Arengario. 

L’ascensione verso l’alto grazie a un prisma di vetro che cresce e si smaterializza completamente nella loggia con la scultura di Lucio Fontana che galleggia davanti al Duomo di Milano, è la dimostrazione che per fare un vero lavoro di allestimento museale bisogna anche conoscere nel profondo le opere che lo abiteranno, oltre che lo spazio che verrà modificato. Rota mette tutta la sapienza del connoisseur d’arte contemporanea e la fonde con una visione spaziale che ancora oggi colpisce per capacità di lavorare sulla sezione così stretta dell’edificio esistente, costruendo un percorso coerente che accompagna il visitatore lungo un secolo denso e opere che si sviluppano in una sequenza che porta direttamente all’interno del Palazzo Reale, grazie a un ponte coraggioso che testimonia il radicale cambiamento interno. 

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Il Museo del Novecento è ancora una lanterna delle meraviglie che attende di essere valorizzata dalla sua città e che speriamo sarà rafforzato dal progetto vincitore del secondo concorso, vinto da Pierluigi Nicolin, che interverrà sull’edificio gemello dell’Arengario.  

Italo Rota nel suo percorso milanese ha avuto la capacità di fondere l’eleganza formale di Franco Albini con la capacità scenografica di Gae Aulenti, portando nel suo percorso formale altri mondi che hanno nutrito e anamorfizzato la matrice originale milanese.

Ma per spiegare meglio l’originalità del suo percorso e la sua unicità non possiamo che immaginare una crasi immaginativa e immaginaria con altri mondi che hanno nutrito il suo percorso dall’incontro con l’India (e i due templi Hindu che ha realizzato) al Giappone, la televisione spazzatura, le collezioni di libri e manifesti e grafiche del 900’, la relazione con l’arte contemporanea e una conoscenza sottile delle arti (tutte), Margherita Palli e il teatro, gli incontri trasversali che lo hanno nutrito, la cucina e l’attrazione fatale per la tecnologia, il corpo, l’Eros e la pornografia, la relazione decisiva con Marcel Duchamp e i suoi archivi, arrivando all’amore smisurato per la fantascienza dal Seicento a oggi, e la seduzione per la scienza in ogni sua possibile variante.

In questo c’era un gusto tipico da uomo del ‘900, affascinato dalla modernità salvifica, dalla magia della macchina come supporter e antagonista all’uomo, dall’invenzione come elemento capace di generare nuove opportunità per l’umanità di migliorare e trovare occasioni per costruire nuovi mondi. In questi ultimi anni, soprattutto, e nelle sue recenti collaborazioni con Carlo Ratti, ci sono tutta una serie di progetti ancora anomali e spiazzanti che dialogano, ammirati, con macchine e tecnologie di nuova generazione che stimolavano l’interesse intellettuale di Rota e l’eccitazione di futuri possibili con cui confrontarsi. Sono lavori in cui la forma sembra arretrare, i colori smorzarsi, i colpi di teatro ridursi esageratamente, come a voler lasciare parlare la scienza e le sue sperimentazioni.

Forse era il suo modo di guardare alla questione ambientale con un punto di vista ancora diverso, mai scontato e laterale, da leggere con attenzione perché esenti dal conformismo che sta annebbiando i nostri sguardi su un mondo che sta drammaticamente cambiando e che chiede posizioni originali e fortemente critiche. Ma quello che rendeva Italo Rota tanto diverso dai mille architetti vestiti di nero e convinti di salvare il mondo con le proprie creazioni era un sottile senso dell’ironia e del paradosso che lo portava a immaginare, ogni volta, luoghi felici, immersi da luci colorate, governati da geometrie e forme figlie di Gulliver e di Alice nel Paese delle Meraviglie, spiazzanti perché generosi ma mai banali, liberi e capaci di nutrire generosamente la mente e i sensi di chi abita. Questi mondi hanno reso Italo Rota un architetto unico nel panorama italiano ed europeo e il suo percorso una strada da continuare a percorrere.

In copertina, Italo Rota, ph Massimo Listri.

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