Vito Teti e l’etnologia in diretta

4 Gennaio 2025

Marzo 2005: dopo settimane di pioggia continua il terreno franoso su cui poggia Cavallerizzo, un paese in provincia di Cosenza di origine albanese (arberësh), cede. Gli abitanti fuggono e non torneranno più nelle loro case. Il libro di Vito Teti, Il risveglio del drago. Cavallerizzo, un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione, Donzelli 2024, racconta le vicissitudini del paese lungo un ventennio, ed è uno straordinario documento storico ed etnoantropologico in diretta: ci parla, attraverso tante testimonianze raccolte nel corso degli anni, dei conflitti della ricostruzione, della perdita del paese entro un osservatorio complesso, ricco di parole, drammi, liti, nostalgie.

Una comunità, quella di Cavallerizzo, densa di memoria delle tradizioni e del mondo che non c’è più ma a cui, insieme, è mancata la memoria generazionale (cfr. Matteo Meschiari, Geografie del collasso, Piano B, 2021): quella attenta nei secoli alla cura delle acque e della terra, agli smottamenti incessanti, agli allarmi di frane (che il Santo e il Drago mandavano da anni) smottamenti, lesioni alle abitazioni e alle strade. Rischi che si son fatti via via più frequenti con l’intensificarsi del disboscamento (per le terre da pascolo) e la costruzione di edifici che hanno reso il suolo impermeabile e, non ultimo, per le conseguenti alluvioni, tanto più nell’epoca del cambiamento climatico. Non è un caso che, osserva Teti, l’unica zona pesantemente interessata dalla frana (e già colpita da fenomeni di scivolamento a partire dal XVII secolo) è quella di più recente costruzione, appesantita da massicce cementificazioni.

Ma veniamo alle testimonianze raccolte in diretta: quella di Domenico Golemme anzitutto che nella notte della frana tra il 6 e il 7, quando il vento soffia e la pioggia esplode in scrosci come non se ne udiva da tempo, si mette a correre, va a bussare alle porte della gjitonia pericolante (gruppi di case legate da uno stretto vincolo di vicinato, nella tradizione albanese): “Fuggite, fuggite, il paese crolla” salvando così molte persone, “Fuggite, fuggite, avvisate tutti, il paese se ne va”. Il nipote Graziano si dirige verso la Chiesa, in testa le urla dello zio, con l’intento di suonare le campane: lo scampanio riesce a sovrastare il rumore dell’acqua, l’ululato del vento, gli scricchiolii dei primi cedimenti delle case. Carmelina Bruno telefona a tutti per dir loro di scappare e mentre ascolta il suono insolito delle campane apre la finestra e si accorge che il tetto della casa di fronte non c’è più. Intanto alcuni cercano di portare in salvo la statua di San Giorgio, che, impotente, assiste alla catastrofe.

Eppure in quell’autunno di piogge continue la preoccupazione per le frane si era avvertita in paese. Nell’indifferenza della politica alcuni giovani avevano fondato l’Associazione Noi con voi, presidentessa Sabrina Capparelli, studentessa di giurisprudenza, affidandosi alla competenza dei geologi. Tra loro anche Graziano Golemme: ricorda come l’Associazione si scontrò subito con la politica che li accusava, in prossimità delle elezioni comunali, di esagerare, spargendo il panico tra i cittadini. E poi l’ansia sembrava attraversare anche i sogni, meglio gli incubi, degli abitanti – lo confesseranno in seguito – con massi che rotolavano, crepe che si aprivano nel terreno, duelli onirici tra San Giorgio e il Drago.

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A pochi giorni dal disastro gli abitanti, sfollati, osservavano ormai il loro paese, inaccessibile, finito sotto la neve, dal muretto della vicina Cerzeto. Neve, acqua: elementi di vita e di morte di una sorte di religione delle acque presente nella ritualità collettiva. Come la figura del drago, che, insieme al serpente “è simbolo del flusso e del riflusso della vita legato alla potenza delle acque – osserva Teti – e il drago che si sveglia è la frana che si muove”. Scatta in Teti un’associazione junghiana. Quel drago, l’ombra che sta dietro di noi, nella psicologia analitica di Jung è l’incarnazione delle potenze cosmiche del Male contro cui l’eroe (il nostro San Giorgio) deve lottare. Il drago è anche però, possiamo dirlo nell’era dell’Antropocene, il simbolo della ribellione del pianeta di fronte alle continue violazioni di ogni limite nello sfruttamento della terra: così che anche il sacro sembra arrendersi, come avviene a Cavallerizzo, alle profanazioni della natura.

Limiti che erano ben presenti al contrario – osserva l’autore – agli abitanti delle società tradizionali provati, nell’arco stesso della propria vita, da catastrofi, terremoti, alluvioni, frane. E che vivevano – ecco la consapevolezza della fragilità e del limite – in un continuo stato di attenzione, premura, cura del territorio: forme a tutti gli effetti di resistenza e di resilienza, si possono considerare alla distanza, di fronte alla negatività di cui avevano cognizione. Di fronte alla consapevolezza della fragilità verso la quale, noi moderni, inebriati dal mito dell’homo faber, muoviamo accecati (docet il Ghosh di La grande cecità, Neri Pozza 2017).

È toccato agli abitanti di Cavallerizzo essere testimoni di un movimento franoso presente da secoli come minaccia ma che era stato tenuto sotto controllo proprio dalla coscienza della fragilità venuta clamorosamente meno fino all’abbandono recente del paese. Lo smottamento ha portato via parte del paese ma anche – osserva – parte del paese che gli abitanti avevano per così dire “dentro”. Così che è franato, oltre all’abitato, l’ordine collettivo, il sistema di relazioni, evidente nell’istituto della gjitonia.

Per Teti il dopo frana è stato un momento straordinario (intendo fuori dall’ordinario): un tempo del non più e del non ancora, così lo definisce sulle orme dell’antropologo Victor Turner. Si sono scatenate interminabili discussioni tra chi ravvisava la necessità di andare via, e chi, nonostante il pericolo incombente, intendeva ricostruire il borgo in cui era nato. Prendeva forma sotto i suoi occhi un’etnografia del disastro, dell’esilio, del dolore e del lutto degli sfollati osservabile in diretta: un’etnografia “partecipata” nel senso più vivo. Con la sensazione di Vito Teti di sentirsi parte di una comunità che però era profondamente divisa, e avvertendo il rischio di contribuire ulteriormente alle dispute.

Cavallerizzo, su indicazione della Protezione civile (e l’intervento di Bertolaso) fu ricostruito alla fine presso la vicina Cerzeto: gli aspetti comunitari (le gjitonie) su cui insistevano gli sfollati vennero trascurati conferendo al luogo, secondo molti, un volto anonimo: privo di una propria Chiesa, di luoghi di ritrovo. Così da sentirsi, è il caso di molti, “spaesati” nel loro stesso paese. “Dove sono”? si domandano con Bruno Latour quelle persone che non riconoscono più il mondo dove abitano. Cambia tutto. Non son più gli stessi i legami, gli incontri, i racconti, le feste, le parole stesse – conclude –. E questo disagio diviene, per l’autore del celebre Il senso dei luoghi, il contrario del senso dell’abitare, col rischio di rovesciarsi in chiusura, paura, rifiuto dell’Altro. Ecco perché le storie di Cavallerizzo vanno al di là dei suoi confini, diventano quelle di un paese/mondo nell’età in cui il mondo stesso è in pericolo.

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Sandro Abruzzese | La restanza: per un’antropologia dei paesi

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