Paraloup / Un museo di racconti
Sono a Paraloup nella baita che ospitava l’armeria dei partigiani della banda di Italia libera, Giustizia e Libertà, al comando di Duccio Galimberti (quello che ricorre anche nelle strofe di Morti di Reggio Emilia), Dante Livio Bianco, Nuto Revelli, Giorgio Bocca di cui si è celebrato da poco il centenario della nascita. L’antica borgata in abbandono, alpeggio tra Otto e inizi Novecento, accolse una delle prime bande (se non probabilmente la prima banda partigiana regolare per così dire) d’Italia.
Ora nella baita c’è il grande schermo, con postazione touch screen, del Museo dei racconti. Le stagioni di Paraloup. Sento le note, emozionandomi pur conoscendole a memoria, della canzone della banda. Col gelo di notte a dormire nei fienili a quasi 1400 metri (“ci si svegliava al mattino con la neve sui piedi che passava sotto la porta” racconta uno di loro nelle testimonianze che scorrono sul grande schermo) pidocchi per tutti (la posta in gioco spesso nelle corse dei parassiti per contendersi sigarette o proiettili) il clima giocoso a fronte degli addestramenti snervanti in armi.
Tutta la durezza di una scelta compiuta da ragazzi di vent’anni che mi fa pensare a quanto abbia ragione Marija Stepanova, nel suo Memoria della memoria, nel dire che quando la memoria spinge passato e presente a confrontarsi “è per una ricerca di giustizia”. Tanto più qui a Paraloup, ripensando alle continue fake news di questi anni e alle rivoltanti messe in scena della destra leghista e oltre. Tanto più tra queste pareti ascoltando le voci dei partigiani raccolte da Teo de Luigi, regista Rai che prese parte alla storica Notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Fabrizio Mosca ad esempio ricorda ancora, ad anni di distanza, la paura di “quando si era soli a far la guardia nel bosco, a ogni scricchiolio di foglie si scattava”. O lo stesso Giorgio Bocca, distaccato coi suoi uomini ai Damiani, a pochi chilometri dal distretto di Paraloup, che racconta la storia del prigioniero tedesco, un maresciallo delle SS, caduto in mano alla banda, un uomo fortissimo “sempre a torso nudo, d’inverno faceva il bagno nel ghiaccio”. Non si poteva lasciarlo andare, avrebbe rivelato “tutte le nostre posizioni. Bisogna fucilarlo”. E di sparargli si incarica alla fine lui stesso. “Bisognava spiegare agli uomini che era una guerra spietata e che non si poteva avere pietà o pentimenti”. Ma poi mi raggiunge dallo schermo la voce, già un po’ ispessita dagli anni (erano i tempi in cui abitava, lo ricordo anch’io, in via Bagutta), il volto un po’ scuro: è afferrato da un dubbio e conclude mestamente “Adesso dopo tanti anni non so se fosse giusto o non giusto”.
C’erano anche le donne, Alda e Pinella Bianco, Margherita Scamuzzi: fuoriescono da una clip in azione le parole di Caterina Brunetto: Caterina, l’accento di queste valli occitane, i tratti decisi, gestiva la trattoria di Rittana e insieme al marito salvò Duccio Galimberti ferito caricandolo con una slitta “sull’unico materasso che avevamo”.
Memoria come giustizia, questo ci insegna il Museo-laboratorio multimediale di Paraloup, non vale solo per i partigiani ma anche per le vite dimenticate dei montanari, i tanti Goletto che lasciarono Paraloup per la vicina Francia, Hyères e Grasse, in cerca di un lavoro sicuro, quando la Valle Stura, come tutta la montana povera, conobbe nell’epoca dell’industrializzazione e del boom la parabola opposta. E quegli anni furono segnati dallo spopolamento più desolante (70, anche 80% come è riportato nei grafici riprodotti sulla parete).
Sintonizzandomi sulla stagione di Paraloup che parla della vita di quello che Nuto Revelli ha definito in un libro celebre Il mondo dei vinti, ascolto le voci più antiche, i nati nell’Ottocento che raccontarono a Revelli le loro storie. Tutti faticavano a Paraloup, e dintorni, anche Maria Goletto, vedova Bruno, quella donna alta, un bel viso, malinconico nella fotografia, che confida le sue fatiche, quando tirava il carretto con la legna fin sopra Paraloup, al monte Tagliaré. Prima naturalmente di scegliere la strada della Francia e andarsi ad “affittare” nella piazza di Barcelonette come servetta (talvolta a raccogliere fiori, di gelsomini, di arancio o erbe medicinali (“a la fiur del gelsomin, a l’orange”).
“Avevamo un prato lassù in montagna, su in alto”, racconta, “due ore oltre il Gorré, oltre Paraloup, ai Taiaré. Eh la mia povera madre si metteva le due ruote del carretto in testa, e mio padre la scala (il telaio del carretto) sulla schiena e salivamo fino a lassù per fare il fieno. Lassù caricavamo le trusse, e poi tiravamo il carretto attraverso a quella montagna, tira, tira, e, la pancia vuota”… Era una vita dura, piena di fatica: le vacche al pascolo, le fughe sporadiche o l’emigrazione, tra la neve che impaccia i movimenti e le preghiere al buio per risparmiare il lume, scalzi o al massimo con rudimentali zoccoli. Anna Bruno, questa volta sposata Goletto, abitava con la famiglia nel fienile diviso a metà. Si scaldavano con le famose stufe, quelle evocate dai partigiani, così fumose, ricorda Nuto che quasi non ci si vedeva.
Il fienile, cosiddetto grande, di Paraloup è sede, da qualche mese, della Cineteca dei film sulla Resistenza. Mi colpisce vedere, tra le stesse pareti di una delle baite più grandi che ospitava la mensa dei partigiani, i fotogrammi del film girato da don Pollarolo, prete-partigiano, amico e collaboratore di don Orione, oltreché dello stesso Duccio Galimberti, che riprese (in un documento davvero straordinario che si intitola Momenti di vita e lotta partigiana) scene di vita quotidiana fra le baite. Riprende con una piccola cinepresa Pathé il famoso discorso di Duccio appoggiato a quella che doveva essere la baita del Comando di Paraloup in cui ricorda agli uomini proprio Gesù “che aveva mandato gli apostoli nel mondo a predicare il Vangelo sapendo che sarebbero stati tutti uccisi e ha invitato tutti i membri della banda a dare volentieri l propria vita per la libertà”. Scorrono sullo schermo le sequenze dei tanti film girati, a ridosso di Paraloup, da Ermanno Olmi e Corrado Stajano, oltre che da Paolo Gobetti, il figlio di Piero, negli anni Settanta/Ottanta.
È una sensazione di forte play in the play quella che suscitano le voci e le immagini di chi abitò a Paraloup o ci combatté, che sembrano vivere di una memoria come raddoppiata, i cui echi ci raggiungono negli stessi locali, tra le stesse pietre, che furono teatro delle loro esperienze di vita.
Nell’impatto con la sua materia logora, ma ancora nonostante tutto “in piedi” (tra le pietre delle antiche baite fissate nel loro stato di rovina in cui sono stati innestati sobri contenitori in legno) il tempo a Paraloup è come se fuoriuscisse dall’indifferenza del suo scorrere e anche le povere pietre della borgata – una sorta di Museo a cielo aperto – ricucissero il filo interrotto di storie latenti, sepolte sotto traccia. Reimbastendo, per un soprassalto nella durata, trama e ordito. E in quel brusco scarto le vecchie baite con le voci e le tante immagini conservate nel Museo e nella Cineteca finiscono per farsi, nel tempo disorientato in cui viviamo, misura, interrogazione severa, del nostro stesso presente.
Se penso a Caterina Brunetto, capace di rischiare la vita per salvare Duccio Galimberti e sacrificare l’unico materasso di casa, o ai ragazzini di montagna in affitto nella piazza di Barcelonette all’età di 6 o 10 anni, mi convinco che almeno qualche traccia di memoria è bene renda loro giustizia secondo quella “sete” – ricorro ancora alla Stepanova – che ci costringe a cercare e chiedere il dovuto, ”soprattutto quando si tratta di morti di cui nessuno può prendere le parti se non noi”.