Andare un po’ oltre. Il Grande Teatro di Lido Adriano
Dovrei cominciare col dire che Lido Adriano è il lido più popoloso della riviera romagnola; che circa il 90% delle persone che ci vivono sono immigrate da altre parti d’Italia o da paesi stranieri, per un totale di oltre sessanta nazionalità; che si tratta della frazione con il maggior numero di minorenni e il più alto numero di nascite del Comune di Ravenna, e che tra i nuovi nati uno su due è straniero; che vi convivono cattolici, musulmani, cristiani ortodossi, comunità evangeliche, testimoni di Geova. Dovrei insomma cominciare parlando di periferia, di multiculturalità, di vitalità e contraddizioni, e di un teatro che valorizza o che denuncia, che racconta la sua cornice insomma. Un teatro che fa bene a chi lo fa e spinge a riflettere sulla vita che si svolge fuori dal centro, là dove in genere non guarda nessuno. Sono tutte cose vere e interessanti, tendenzialmente necessarie a contestualizzare quel che sto per raccontare.
Se non fosse che Il Grande Teatro di Lido Adriano ha aperto le porte di un nuovo progetto triennale al Cisim (spazio gestito dall’associazione culturale Il Lato Oscuro della Costa) con Mantiq At-Tayr - Il Verbo degli Uccelli, uno dei più bei testi sapienziali della storia, un poema in versi di Farid Ad Din Attar, poeta mistico iraniano del XII secolo, che parla di ruggine dell’anima, di viaggi interiori, di conoscenza di sé. Il livello del discorso, infatti, se vogliamo rendere giustizia al fatto artistico al quale ho assistito, è proprio un altro, e ha a che fare con quella dimensione dello spirito cara agli artisti che intendono la trasformabilità del mondo come una faccenda verticale, interiore prima che politica (in quest’ordine, s’intende, non in senso oppositivo). Non è un caso che tra i pochi a tentarne una versione scenica ci sia stato Peter Brook (indimenticabile la sua Conférence des Oiseaux del 1979) mentre tra gli italiani il Teatro dei Venti ha realizzato un immaginifico spettacolo urbano a partire dal mito raccontato da Attar (Simurgh) e Armando Punzo praticamente dai suoi esordi dichiara debito esplicito al poema sufi (alla cui struttura per valli da percorrere sono ispirati infatti i titoli di alcuni degli ultimi lavori come La valle dell’innocenza, La valle dell’annientamento e La valle della permanenza).
L’appuntamento con lo spettacolo diretto da Luigi Dadina, attore, regista e co-fondatore del Teatro delle Albe, nonché iniziatore alla fine degli anni Novanta di quel progetto culturale che oggi è appunto il Cisim, è al tramonto, su una spiaggia di fine maggio ancora deserta. Un uomo in abiti mediorientali (Tahar Lamri), accompagnato da una ragazzina, convoca il silenzio. Un altro (Max Penombra), in abito scuro occidentale, entra in acqua, ci dà le spalle e con un ramo portato dalla risacca dirige onde e gabbiani in una Sinfonia del mare. Concluso il prologo, che ci inizia alla temperatura poetica del racconto che seguirà, veniamo accompagnati verso gli spazi esterni del Cisim, dove ci attendono oltre cento persone, moltissimi bambini, ragazzi e ragazze, adulti, attori, attrici e musicisti che in un intreccio di racconti in lingue diverse, cori e canzoni rap danno vita al poema di Attar, ovvero alla vicenda di un gruppo di uccelli che spronati da un’upupa si mettono alla ricerca del loro legittimo re, il Simorgh, affinché egli possa dirimere i loro conflitti e governare secondo un principio giusto le loro esistenze. Alla fine del viaggio, a cui solo trenta di loro sopravviveranno, gli uccelli scopriranno che Simorgh sono in realtà loro stessi, e che il percorso alla ricerca del divino e del bene è in fondo tutto interiore. Si tratta insomma di un viaggio iniziatico che, come spiega lo scrittore algerino Tahar Lamri, che ha firmato l’adattamento del testo, “prende in prestito sia la filosofia orientale che quella occidentale”. “In tutta l’opera poetica – ha notato infatti Lamri – troviamo evidenti riferimenti coranici ma, scegliendo questo uccellino diffuso nei tre continenti, Attar si inserisce anche nella tradizione universale, sia ebraica antica che coranica, dove esso ha fama di essere magico e messaggero divino”.
Tra i tanti cori vivaci, che ricordano evidentemente quelli della Non-Scuola delle Albe, e gli ironici siparietti di due narratori (Semiha Bolat e Max Penombra), ai quali è affidato il compito di raccontare parabole che insegnino qualcosa agli uccelli riluttanti, quel che più colpisce e convince dell’adattamento e della creazione nel suo complesso è proprio la scelta di lasciare ampio spazio ai pretesti degli uccelli, ovvero a quella parte del testo di Attar in cui merli, fratini, falchi, colombe, gazze, pappagalli e via dicendo accampano scuse per evitare di mettersi in viaggio. Se per la saggia, magica upupa (Lorenzo Carpinelli) è una vergogna accontentarsi di vivere senza avere tentato quel viaggio oltre sé stessi e la propria condizione ordinaria, è invece più comodo per un usignolo farsi bastare l’amore di una rosa, più semplice per un pappagallo restare in una gabbia purché nutrito e adornato di un collarino d’oro, sufficiente per un pavone godersi i propri mille colori senza cercarne altri, più conveniente per un falco restare in un sistema in cui può tiranneggiare i più deboli, e perfino accettabile per una colomba vivere tra le rovine pur di starsene in pace. Perché in fondo, uscendo dalla metafora, quant’è più comodo restare dove si è?
Sono bellissime alcune delle risposte che l’upupa dà agli uccelli restii a partire e a quelli che, una volta cominciato il viaggio, tentano di tornare indietro, si arrendono o si pentono della propria decisione. Come quando invita l’usignolo a preferire un amore che non muore, per esempio, o quando mette in guardia l’airone dal farsi distrarre da pietre preziose “perché se una cosa ti arresta, diventa il tuo idolo”, o quando spiega al falco che il suo regno non è che una goccia rispetto all’oceano che troveranno i più coraggiosi, o ancora quando invita i pochi sopravvissuti a raschiare la ruggine della paura dal loro cuore. Perché di paura e stanchezza non può non essercene, soprattutto se dopo aver attraversato il deserto si scopre che ci sono ancora sette valli da attraversare, che la sofferenza è appena cominciata.
Se alle parole e alla recitazione, come nel testo originale, rimane giustamente impressa un’andatura didattica e didascalica, la parte musicale – magnifica – conferisce allo spettacolo una dimensione più lirica, complessa, pienamente contemporanea. Le canzoni rap di Lanfranco Moder Vicari (che con Dadina firma la direzione artistica del progetto) s’intrecciano in più occasioni alla voce di Jessica Doccioli che intona, tra le altre, Mi votu e mi rivotu di Rosa Balistrieri, superando così la dimensione allegorica e didascalica del poema, per dar vita a un sogno notturno e raccontare con parole nuove e sfumature vere l’esperienza di dolore e metamorfosi di chi impegna la propria vita in un’avventura straordinaria. L’inatteso di quest’opera di periferia, per tornare al discorso iniziale, è proprio questa autobiografia diversa e inaspettata che dà per scontato e per implicito quel che la comunità di Lido Adriano è per anagrafe e destino (il cosmopolitismo, con retoriche annesse) e rilancia sé e noi da un’altra parte, più in là del quotidiano. È una bella indicazione anche per chi opera in centro.
Mantiq At-Tayr
direzione artistica Luigi Dadina, Lanfranco Vicari
regia Luigi Dadina
drammaturgia Tahar Lamri
direzione organizzativa Federica Francesca Vicari
scena e supervisione costumi Alessandra Carini, Nicola Montalbini
ideazione costumi Sartoria Natascia Ferrini, Stefania Pelloni, Simona Tartaull
composizione musiche e arrangiamenti Francesco Giampaoli
cori Lanfranco Vicari
coordinamento musicale Francesco Giampaoli, Enrico Bocchini
narrazione e cura degli spazi scenici Massimiliano Benini
con Lorenzo Carpinelli e il Coro del Grande Teatro di Lido Adriano
coproduzione CISIM|LODC, Ravenna Festival, Ravenna Teatro/Teatro delle Albe
in collaborazione con Librazione Soc. Coop., La Cuciria e Riti
Lo spettacolo è andato in scena come anteprima di Ravenna Festival 2023
Le fotografie sono di Nicola Baldazzi.