Vie Festival 2022. Nel mondo fuor di sesto
Se comincio dalla fine, cioè da Imagine di Krystian Lupa, è perché l’ultimo spettacolo andato in scena a Vie Festival mi è parso un manifesto perfetto, un ordinato compendio dei sentimenti che pervadono quasi tutte le opere ospitate nell’edizione 2022 della rassegna internazionale organizzata da Ert Fondazione nei suoi teatri emiliani. Uno specchio abbastanza fedele di quel che si vede sui maggiori palcoscenici internazionali, beninteso. Come stiamo? Persi, sconcertati, soli, arrabbiati, impotenti. In ogni caso male, incagliati dentro un mondo che pare completamente fuor di sesto. Un paradigma di senso, di spirito, di umore.
Lo spettacolo del regista polacco sintetizza il fallimento delle utopie degli anni Sessanta e Settanta, radunando in un polveroso salotto un gruppo di vecchie conoscenze, pallide controfigure di artisti, intellettuali, scrittrici, attrici che si riferiscono (sia nel nome che nell’aspetto, assai stereotipato) a Susan Sontag, Janis Joplin, Patti Smith e altri miti novecenteschi. Sono passati molti anni dalla morte di John Lennon, il sogno di un mondo senza confini e senza proprietà privata in cui tutti vivono in pace, non si uccide e non si muore per questioni religiose né per fame, evidentemente non si è realizzato.
Alcuni dei protagonisti di quel progetto (ovviamente non invitati alla rimpatriata) si sono adattati alla realtà e oggi lavorano nelle banche e siedono nei principali parlamenti occidentali, altri come Joplin non sono mai diventati adulti, molti sono sopravvissuti e vivono da disadattati. Ci si ritrova così a una specie di infinita veglia in cui per cinque ore, francamente interminabili, si gira a vuoto sulle macerie di un progetto di anticapitalismo fallito e che peraltro (come ci viene mostrato nella seconda parte dello spettacolo) continua a fallire nelle sue reviviscenze contemporanee.
Una veglia all’eterno moribondo più che al morto. Di interessante, nel dialogo tra i personaggi, c’è appunto la sintesi delle questioni attorno alle quali si sono formate e poi sono entrate in crisi le comunità della New Age: la ricerca di uno stato di apertura massima verso le possibilità della vita, “una manifestazione di consenso alla diversità del mondo...”, la capacità di immaginare un futuro senza competizione e senza avversari, il cambia te stesso per cambiare il mondo perché in fondo la guerra la fanno gli uomini e “se non hai la guerra dentro di te, non causerai la guerra”, il sentimento di impotenza di fronte a una società che sembra una maligna presa in giro dell’intelligenza umana, la sensazione di essere stati ingannati “di nuovo! proprio così come i comunisti si erano ingannati prima... e prima ancora...”, il sospetto di alcuni che anche allora quella felicità fosse tutta un’illusione un “luce da immagine indù, che tra l’altro per me è sempre stata un po’ kitsch...” (confessa Janis), la consapevolezza del carattere donchisciottesco delle proprie “fottute iniziative” per salvare gente che non vuole essere salvata e che alla fine “manda sempre tutto a puttane”.
Ora, anche senza scomodare Žižek, si potrebbe forse controbattere che le cause perse non sono perse per sempre, ma più che altro che questo modo di intendere il sogno di un modo diverso di stare al mondo come un partito che ha perso le elezioni e se ne torna a casa sconsolato, come programma appartenente in esclusiva a un gruppo di persone, e non come una pratica pienamente attuale che esiste e produce visioni e azioni laddove neppure stiamo guardando, si riduce infine a un discorso sterile. Non è un caso, forse, che in cinque ore di discorsi apocalittici non solo non si sposti di un centimetro quello che già sapevamo, ma non si produca in noi un briciolo di empatia, nessun sentimento.
A Vie di spettacoli ne ho visti molti altri, quasi tutti. Alcuni li racconterà la prossima settimana Ludovica Campione, ma intanto vorrei almeno sottolineare la straordinarietà del cast dispiegato nel Ministero della Solitudine diretto da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, e segnalare Karnival di Balletto Civile come il più affascinante tra gli spettacoli di danza, per una qualità estetica altissima, davvero da line-up internazionale. La scena della piscina in cui gli ospiti nuotano mentre il cadavere della cameriera affonda resterà nella memoria delle più belle immagini viste a teatro. Per restare in tema di rivoluzioni e di sentimenti generazionali, voglio invece concentrarmi in questa occasione su altri due spettacoli visti al festival, due prime nazionali andate in scena nella sala più piccola dell’Arena del Sole di Bologna.
Il primo è Il Capitale, di Kepler-452, con la regia e drammaturgia di Enrico Baraldi e Nicola Borghesi. Andando a caccia di luoghi in cui le pagine del celebre testo di Marx trovassero corrispondenza in persone, luoghi e accadimenti, la compagnia bolognese si è imbattuta nel 2021 nella storia degli operai della Gkn di Campi Bisenzio. La vicenda è nota: il 9 luglio del 2021 gli oltre quattrocento operai che lavorano nella fabbrica vengono licenziati, ma i lavoratori e le lavoratrici non ci stanno, occupano la fabbrica, ne evitano lo smantellamento e allestiscono un presidio (ancora oggi attivo, con le macchina ancora ferme e gli operai in cassa integrazione).
Per un mese, a partire dall’autunno del 2021, i Kepler si trasferiscono nella fabbrica, vivono con gli operai, mangiano con loro, partecipano alle riunioni e ai picchetti, raccolgono informazioni. Il precipitato di quella esperienza è uno spettacolo in cui ci sono in scena tre operai del collettivo Gkn, Tiziana De Biasio, Felice Ieraci e Francesco Iorio, con un prologo del delegato sindacale Dario Salvetti. In perfetto stile Kepler, alle vicende personali dei tre non-professionisti, ai loro racconti sulla vita prima e dopo il licenziamento, si intrecciano una serie di riflessioni, cui dà voce Borghesi, nei panni come sempre di sé stesso, il regista, l’attore, l’artista, l’intellettuale che si interroga sul presente.
Fin dai primi esperimenti teatrali del gruppo bolognese nato nel 2015, è stato evidente che la loro urgenza fosse quella di fare del teatro il proprio punto di osservazione e studio sulle ineguaglianze e ingiustizie del mondo attuale. Una forma di resistenza politica, che però ha sempre cercato traduzioni autenticamente teatrali, efficaci, vitali. A mio parere gli esiti sono stati alterni, e confesso che in alcuni dei loro spettacoli, come Perdere le cose e Il primo giorno possibile, avevo percepito una rincorsa esagerata all’attualissimo che soffocava la drammaturgia, schiacciandola in un eccessivo manicheismo.
In questo lavoro emerge invece, finalmente, il respiro di quelle avventure più grandi di sé dalle quali si esce o con le ossa completamente rotte o – come in questo caso – con un’opera che supera il tema di partenza e le insidie pedagogiche, piena di tensioni, di svirgolature emotive, di sfumature, di prospettive di significato. Un’opera in cui i conti non tornano e le contraddizioni esplodono portando con sé dei bei bagliori di verità.
Dai racconti degli operai apprendiamo che col presidio, con la lotta, la loro vita sembra essersi accesa di un senso nuovo, più ricco, più intenso. Con le macchine ferme si riaccende l’esistenza, eppure la lotta che stanno facendo è proprio per tornare a quelle macchine. Sembra un paradosso, ma non lo è. Per Felice, rimasto orfano da bambino, la fabbrica è una famiglia.
Alla Gkn Tiziana ha imparato il prezzo ma anche il piacere di non schierarsi più dalla parte dei padroni. E sempre alla Gkn Francesco ha portato per anni vaschette del suo specialissimo sugo di pecora, per condividerlo con il suo compagno di lavoro Braggion. La grande domanda che continuamente si ripropone nello spettacolo, insomma, è come stanno insieme queste due facce della medaglia. “Forse, mi viene da pensare – commenta in scena Borghesi – non stanno lottando per lavorare, ma per ciò che in anni di lotte erano riusciti a strappare al lavoro. Per ciò che erano riusciti a lasciare fuori dai cancelli di quella fabbrica”.
Lo spettacolo si è concluso con una standing ovation emozionatissima del pubblico, una sorta di spontanea promessa di proseguire assieme la lotta, grondante un romanticismo che in un primo momento mi ha lasciata molto perplessa. Mi è poi venuto in mente un passaggio della biografia di Čechov scritta da Irène Némirovsky, in cui la scrittrice mette a confronto Tolstoj e il drammaturgo del Giardino dei ciliegi: l’uno fatto di passione e caparbietà, l’altro scettico e distaccato; l’uno, il nobile, che idealizzava gli umili, l’altro, plebeo, “che aveva troppo sofferto per la grossolanità, la vigliaccheria di quegli umili per non provare altro che lucida compassione verso i suoi simili”. Borghesi e Baraldi in una fabbrica – lo dicono nello spettacolo – non c’erano mai stati prima. Ho pensato allora che forse il più grande pregio di questo lavoro sia l’onestà, la chiarezza del punto di vista di chi parla. Io sono nel fanclub di Čechov, ma che fortuna che esista anche Tolstoj.
L’altro lavoro di cui vorrei parlare è Gli anni, uno spettacolo ideato dal coreografo e performer Marco D’Agostin per Marta Ciappina, una delle figure più interessanti della scena coreografica italiana, nelle precisissime parole del regista “un’interprete singolare la cui danza sgorga sempre dal punto d’incontro tra il rigore del gesto tecnico e un’emotività sanguinolenta, a piena disposizione dello spettatore”.
Ispirandosi, anche nel titolo, al famoso romanzo della scrittrice francese Annie Ernaux, D’Agostin e Ciappina costruiscono uno spettacolo di brevissima durata, circa cinquanta minuti, in cui proprio come nella scrittura di Ernaux si allineano per flash e suggestioni accadimenti personali e storici, per restituire l’affresco imperfetto ma vivido di una vita e di una generazione: proprio come era già successo in altri lavori del coreografo, da First Love, storia di un ragazzino degli anni ’90 al quale non piaceva il calcio ma era innamorato della campionessa piemontese di sci di fondo Stefania Belmondo, a Best Regards, spettacolo-lettera rivolta al performer e coreografo Nigel Charnock.
Nelle pagine del libro, Ernaux evoca diverse immagini di un passato dichiaratamente autobiografico, cercando di restituire, anche con effrazioni tipografiche, la grana porosa dei pensieri, delle visioni e degli accadimenti che formano un’esistenza, tentando insomma di farci entrare nella sua testa, nel flusso magmatico del vivere, nella massa di ricordi, associazioni e idee che si rincorrono e si sovrappongono.
Allo stesso modo Marta, con il suo iconico zaino Invicta, il cui colore grigio e giallo si estende a tutti gli altri pochi elementi di scena, dissemina sul palcoscenico una serie di oggetti e di movimenti, che per un tempo (forse troppo lungo) non sono facilmente riconducibili a dei significati precisi. Un cane grigio, un telefono giallo, echi di canzoni pop, da Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi a Eternità di Ornella Vanoni, da Killing Me Softly alla Solitudine della Pausini in spagnolo.
E poi ci sono delle parole, dei riferimenti riconoscibili, per esempio all’incontro con altri coreografi (come Michele Di Stefano e Alessandro Sciarroni) ma nulla di descrittivo, solo accenni e un corpo che abita la scena catalizzando la nostra attenzione per pura presenza. Sono tracce di una vita che si accumulano nel tempo che passa, segnato da un gioco cominciato nell’infanzia e mai concluso fino a oggi: contare limoni ad alta voce facendo attenzione a non confondersi mai in quello che diventa uno scioglilingua. Lo spettacolo rimane a lungo enigmatico, e solo verso la fine comincia a disvelarsi il senso: la bambina che conta limoni è Marta da piccola in un filmino di famiglia, il cane è lo Schnauzer avvelenato dagli uomini che trent’anni fa con due colpi di fucile hanno ucciso suo padre, l’avvocato Ciappina, nel cortile di casa… ma anche qui poche spiegazioni, tutto il dolore, la fatica, la nostalgia, l’emozione, si traduce in movimento.
Ed è proprio questo a conquistarci, sentire che dietro ogni gesto c’è la memoria fisica di un momento di cui ci arriva la sostanza emotiva prima che il significato. Quello che convince in D’Agostin è che la sua ricerca ha direzione: mentre molti performer della sua generazione rifiutano la dimensione emotiva preferendo freddi meccanismi ingegneristici, Marco cerca l’emotività, ma la cerca nel minimalismo, nelle esplosioni piccole, nelle sfumature, nella grammatica del movimento. Certo l'equilibrio è assai fragile, perché a forza di minimalismo si rischia a volte di dissolvere completamente il senso, ma il gioco vale la candela, e anche se Gli anni non è il suo capolavoro, né il capolavoro di Ciappina, è un fatto che in quella sala spoglia lì con loro ci stavamo molto bene e ci saremmo rimasti ancora un po’.
Nell’ultima immagine Karnival, di Balletto Civile, foto di Guido Mencari.