La vita segreta dei vecchi

11 Ottobre 2024

C’è Jacqueline, 91 anni, che ci confessa di avere sempre voglia di fare l’amore, che le mancano i baci e qualcuno che si preoccupi per lei. Poi c’è Annie, 82 anni, che ci racconta di quanto sia importante la masturbazione, oggi che il suo desiderio sessuale è vivo come lo era a vent’anni ma il suo corpo è cambiato e sono cambiate pure le relazioni. Salli, 75 anni, che ha ritrovato la libido di recente, con un amante messicano molto “caliente”. Sono solo alcune delle varie figure di interpreti, tra i 75 e i 102 anni, che (alternandosi nelle recite) abitano il palcoscenico nell’ultimo spettacolo del regista franco-marocchino Mohamed El Khatib, La vie secrète des vieux, raccontando con ironica sfrontatezza il proprio rapporto con la sessualità, con l’autoerotismo, con l’amore che sboccia tardi, magari a novant’anni, magari in una Rsa, talvolta – stando allo spettacolo praticamente sempre – con i figli contrari, che si oppongono all’idillio con inaudita crudeltà. In scena con loro al Lac di Lugano – dove chi scrive l’ha visto, nell’ambito del Fit Festival – c’è l’assistente del regista (ma pare che in altri casi vi sia lo stesso El Khatib) e un’altra giovane attrice (presentata come accompagnatrice di una delle attrici più anziane) a segnare la cornice della situazione: siamo in uno spettacolo-documentario, il precipitato di un’indagine sulla vita sessuale degli anziani che ha portato il regista a intervistare molte persone di provenienza diversa, per tessere infine una drammaturgia assai semplice e diretta che mette in fila una serie di autoritratti. Si tenta insomma di rappresentare qualcosa che viene davvero poco rappresentato. 

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Vero è che sulla terza età si fanno sempre più studi e riflessioni, in parte legate all’enorme responsabilità educativa che i nonni si ritrovano ad avere – e non sempre desiderano accogliere – nella crescita dei nipoti; un po’ perché c’è una fetta importante di mercato, in un continente vecchio come l’Europa, che vede negli anziani un target fondamentale; un po’ perché sta cambiando il concetto stesso di vecchiaia, anche secondo il Congresso nazionale della Società italiana di gerontologia e geriatria che nel 2018 ha stabilito che, considerate le condizioni di vita odierne e la speranza di vita raggiunta, la vecchiaia effettiva non comincia prima dei 75 anni. Anche nel panorama delle narrazioni contemporanee esistono, benché siano rare, delle storie che raccontano la vecchiaia andando oltre i ruoli sociali più convenzionali: a teatro lo hanno fatto di recente Kepler-452 con Album, Fabiana Iacozzilli con Il Grande Vuoto e Rubidori Manshaft con Alcune cose da mettere in ordine (raccontati qui da Massimo Marino). La sessualità degli anziani (figurarsi delle anziane) è invece ancora quasi assente da film, romanzi, serie tv, spettacoli. A Hollywood per le dive è addirittura vietato invecchiare, pena ruoli al margine o comunque che poco hanno a che fare con la sensualità, e quando c’è qualche eccezione – perché ovviamente ce ne sono – lo schema è puntualmente un po’ stereotipato, giocato appunto sul caso limite o sull’asimmetria scabrosa, come è accaduto di recente in un film (Il piacere è tutto mio) con Emma Thompson nei panni di una insegnante in pensione che s’innamora di un giovane gigolò e riscopre il piacere e sé stessa.

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Nobile, dato il punto di partenza, l’obiettivo di introdurre nell’immaginario artistico e pubblico di oggi certi aspetti delle vite e dei corpi che ne restano generalmente esclusi, sfatando finalmente un tabù, sociale e narrativo. Lo spettacolo di El Khatib, ben congegnato e molto apprezzato da spettatori e spettatrici di una certa età che finalmente si ritrovano rappresentati in scena in un ruolo diverso dal solito, ha il merito di tentare questo sfondamento. Ma il limite, d’altro canto, di puntare tutto sull’obiettivo sociopolitico. Quello che emerge dall’intreccio delle storie è l’immagine di persone ultrasettantenni che tutte, indistintamente, desiderano vivere una libido ancora accesissima, ostacolati solo da qualche acciacco o da qualche problema fisiologico (ma basta il viagra ed è tutto risolto) e da figli crudeli che non comprendono il loro legittimo desiderio. Questa parte del lavoro è molto chiara, condivisibile e applaudita. Manca però il resto. Manca la vita di dentro, mancano le domande, le difficoltà, manca l’intimità dei pensieri che fa di una persona una persona e non un manifesto. Manca ogni forma di pathos. Quei segni distintivi nel modo d’intendere il documentario che nel giro di dieci anni (dal suo spettacolo-rivelazione all’Avignone Off del 2015) hanno reso El Khatib uno dei registi più ricercati della scena europea, tra i protagonisti di un filone che ha visto la sociologia – anche lui è sociologo di formazione – rivitalizzare il rapporto tra società e scena (pensiamo almeno a Milo Rau e a Édouard Louis). Forse non è un caso che i passaggi più intensi di questo spettacolo siano legati al lutto, al dolore della perdita, al senso del tempo che passa: i nodi su cui si fondavano alcuni dei lavori precedenti più riusciti, tra cui il primo, dedicato alla madre appena morta (Finir en beauté, del 2014, che in Italia abbiamo visto al Festival Drodesera), e C’est la vie del 2017 (passato anch’esso nell’ottimo osservatorio sui percorsi contemporanei della scena che è il FIT di Lugano), interpretato da un attore e un’attrice che, con un equilibrio non semplice tra pudore e prossimità col pubblico, raccontavano la propria recente esperienza (vera) di perdita dei rispettivi figli. Bello, per esempio, il momento in cui viene raccontata la storia di Anne e Jean-Claude, Romeo e Giulietta dei giorni nostri ai quali non dai genitori, come nell’originale shakespeariano, ma viceversa dai figli è stato impedito di vivere l’amore sbocciato in una casa di riposo. Una distanza forzata che ha spinto Anne alla disperazione e al suicidio. Ma è affascinante anche il fatto in sé che la presenza degli interpreti sul palco sia dichiaratamente precaria, legata alle loro condizioni di salute (di qui, in parte, la turnazione nel cast). E tuttavia proprio questi aspetti più delicati e perturbanti restano sottotraccia per larga parte dello spettacolo. 

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Dal punto di vista formale non ci sono grossi elementi di novità rispetto al percorso di El Khatib e alle pratiche più diffuse del presente. Attori e attrici che vanno in scena nel ruolo di sé stessi (vero o finto che sia quel sé), non-professionisti, esperti del quotidiano che mettono a disposizione dell’autore/autrice dello spettacolo le proprie testimonianze, insomma le più varie declinazioni della polarità fiction-non fiction, fanno parte ormai di una grammatica più che acquisita della scena contemporanea. Sono dispositivi recenti ma già diventati tra i più stereotipici, sfruttati e a volte abusati. Come sempre l’avanguardia diventa istituzione, le invenzioni brillanti diventano modelli, con solide eccezioni e una fisiologica caterva di esercizi epigonali. Di per sé questa tradizione del nuovo non è certo un problema, sia perché è sempre il come a fare la differenza, ma soprattutto perché El Khatib certi modi inediti di stare nel realismo li ha proprio inventati. Il problema piuttosto è che in questo specifico caso la forma sembra essere scivolata troppo verso il formato, lasciando indietro qualche segreto più segreto, che ci sarebbe piaciuto scoprire. 

Dopo il debutto al Festival di Avignone, lo spettacolo ha iniziato una lunga tournée internazionale. In Italia si vedrà al Teatro Vascello di Roma il 9 e 10 novembre (in prima nazionale), nell’ambito di Romaeuropa Festival. 

Le fotografie sono di Yohanne Lamoulère / Tendance Floue.

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